Mi scuso per la lunga assenza dovuta allo studio! Ecco il mio primo racconto. Il tema non è dei più originali, ma spero vi piaccia. Buona lettura.
Alvise Brugnolo
Il mito della spiaggia
Prima che la Terra avesse
la conformazione attuale, i continenti si abbracciavano in un unico
grande territorio, che gli studiosi contemporanei chiamano Pangea. In
questa terra immensa, nel corso dei secoli, aveva avuto modo di
formarsi una civiltà magnifica e avanzata, così potente da
rivaleggiare con i grandi sauri che si trascinavano mostruosi e
affamati tra le montagne. Oggi questa civiltà è andata
completamente perduta: le sue torri non sono altro che polvere e i
suoi abitanti sabbia; i numerosi porti che collegavano le città
sorte sulle coste, sono stati inghiottiti dai flutti e nulla rimane a
testimonianza del passaggio di quelle genti su questa Terra.
Lontana dalle arcaiche
megalopoli di Ktuum e Nariit e dalla loro scienza, si trovava però
una bellissima e incontaminata spiaggia, nella quale vivevano due
fratelli. Essi non erano vincolati solo dal legame di sangue, ma
anche da una profondo e sincero affetto e nonostante la loro facoltà
linguistica dovesse ancora maturare e il concetto stesso di amicizia
fosse qualcosa di troppo complesso per loro, sapevano sempre di poter
contare l'uno sull'altro. Vivevano nelle grotte oscure che si
aprivano sul mare e dal loro Padre Azzurro traevano il nutrimento,
cacciando pesci con bastoni appuntiti e sradicando frutti di mare
dagli scogli con l'aiuto di rocce aguzze.
In un limpido mattino
d'estate, i due fratelli stavano camminando sereni sulla spiaggia,
ascoltando la possente voce del mare e lo stridio dei sauri che
volavano alti nei cieli; ogni tanto, uno di quegli esseri alati si
tuffava rapido nell'acqua e risaliva con un pesce guizzante nel
becco. Il fratello più intelligente si distrasse dalla
contemplazione del cielo e abbassò lo sguardo un attimo, per
osservare le splendide conchiglie che giacevano scomposte sul
bagnasciuga: erano tutte di forme diverse e avevano i colori
dell'arcobaleno. Un pallido guizzo di luce attirò la sua attenzione:
in una colossale conchiglia bivalve, aperta verso il cielo come una
bocca sdentata, riluceva una pietra tonda e perfetta, bianca come le
nuvole che cavalcano nel cielo e si riflettono nell'Azzurro. L'uomo
si chinò e prese il minuscolo oggetto con due dita, per paura che si
rompesse. La sfera rotolò tra le pieghe delle sue mani come se fosse
viva, poi si fermò e parve fissarli.
I due fratelli
osservarono la pietra con meraviglia e se la passarono a turno,
avvicinandosela agli occhi per vedere se contenesse qualcosa;
tuttavia il fratello più forte venne come irretito dalla candida
luce emanata dalla pietra e ad un certo punto non volle più
riconsegnarla all'altro e la serbò nel pugno, ringhiando e
digrignando i denti. Dimentichi del loro affetto, i due uomini
cominciarono a lottare con ferocia; nei loro occhi si era accesa una
luce nuova e nel loro cuore fiammeggiava un sentimento fino ad allora
sconosciuto, distruttivo ed incredibilmente potente.
Il fratello più
intelligente era rapido e scattante come un luccio, ma quello più
forte ebbe presto il sopravvento: atterrò l'altro, afferrandolo per
le gambe e quando gli fu sopra lo colpì sul viso finché questo non
diventò molle e irriconoscibile.
Con la pietra custodita
nel pugno chiuso, il fratello sopravvissuto corse a rifugiarsi nella
caverna nascosta tra gli scogli. In quest'umido riparo egli rimase
per molti giorni, accarezzando e vezzeggiando la sua conquista;
scoprì ben presto che la pietra non emetteva luce propria ed era
fredda come il cuore di una donna che non sa amare: per quanto la
accarezzasse e la adorasse, essa infatti rimaneva muta e morta e lo
guardava immobile con aria beffarda.
E allora l'uomo pianse,
perché aveva capito cosa aveva fatto.