martedì 27 gennaio 2015

Per non dimenticare

Oggi, Giorno della Memoria, lascio come di consueto che siano le parole degli altri a ricordarci quello che è avvenuto. Per non dimenticare.




C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buckenwald
erano di un bambino di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’ eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buckenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.


Joyce Lussu

lunedì 26 gennaio 2015

L'ombra

Un vecchio racconto horror che mi sono sempre dimenticato di postare sul blog. Buona lettura... da brivido.



Kaspar si svegliò con il cuore in gola e con la sensazione che da qualche parte fosse successo qualcosa di terribile, qualcosa che aveva a che fare con lui. Si alzò sui gomiti e si guardò attorno. L’appartamento era immerso nelle tenebre, un bolo di oscurità che nemmeno la luce del lampione, che si insinuava soffusa dallo spiraglio della finestra, riusciva minimamente a scalfire.
L’uomo girò lentamente la testa verso il comodino, mentre i suoi occhi faticavano a mettere a fuoco le cifre verdastre dell’orologio digitale. Era notte fonda e, nell’assopimento del risveglio, Kaspar riuscì quasi a percepire fisicamente quanto profonda essa fosse: era come un pozzo senza fine, dalle cui viscere provenivano sussurri di anime perdute nel buio, che supplicavano e si arrampicavano con le unghie e con i denti per raggiungere il mondo in superfice. Kaspar si immaginò di essere una di quelle anime in pena, la schiena piegata e molle come quella di un verme, allora rabbrividì e allungò ansiosamente la mano verso il pulsante dell’abat-jour che se ne stava sola soletta sul ripiano freddo del comodino. La lampadina si accese con un fioco singulto, mentre un’aureola color oro rischiarava gli oggetti della stanza: un armadio di finto legno, una libreria mezza vuota, una poltrona di pelle usurata e una scrivania angolare coperta di giornali, riviste pornografiche e bollette non ancora pagate. Era la classica camera di un uomo abituato a vivere da solo.
Kaspar tossì nervosamente. C’erano ancora troppe ombre perché il suo cuore si potesse calmare. Si sedette sul bordo del letto, con i piedi nudi incollati al gelo del pavimento, la testa bassa e le mani infilate fra i capelli grigio cenere, stopposi come fili di rafia. E in quella posizione, nonostante la paura immotivata che lo attanagliava, si addormentò nuovamente, anche se il suo non poteva affatto definirsi un sonno tranquillo. Mille ombre gli balenavano nella mente. Ombre di bambine.
Era ancora nello strato più profondo dei sogni quando il telefono squillò. Il gracchiare della cornetta riportò la sua coscienza nel mondo reale, ma lo fece così in fretta che Kaspar si ritrovò in piedi, sbavante per il terrore, mentre il suo cuore malato gli urlava nel petto, scosso dall’aritmia della paura.
«P-pronto?» mormorò l’uomo, dopo aver camminato (fluttuato) attraverso il corridoio, afferrato la cornetta e accostato il ricevitore all’orecchio.
«Parlo con il signor Kaspar Williams?» la voce era piatta, meccanica, come stiracchiata. Era senza dubbio quella di un poliziotto o di un pompiere, uomini che lavoravano di notte e che sognavano di essere altrove, magari in un letto caldo, fra le braccia della propria moglie o della propria amante.
«Sono io.» rispose Kaspar con un tremito. La voce dall’altro capo del telefono si prese del tempo per ponderare, poi ricominciò, implacabile:
«Si tratta di sua figlia Elsa. Ha avuto un incidente... È… morta in ospedale, una decina di minuti fa.»
«Elsa? Morta?»
Il cuore di Kaspar ebbe un doloroso sussulto. Elsa, la figlia che non vedeva da venticinque anni. La figlia che era scappata via di casa in seguito a quel… quel… incidente. Perché era di quello che si stava parlando, no? Di un incidente. Si costrinse ad annuire. Sono cose che capitano a tutti i padri quando amano troppo le loro bambine, non è vero? Le mani di Kaspar cominciarono a tremare vistosamente, mentre gocce di sudore gli colarono lungo la fronte, illuminate dalla fievole luce del corridoio. I ricordi che gli passarono nella mente in quel breve istante erano mostruosi, ma sotto sotto li considerava… piacevoli.
«È ancora lì, signor Williams? – continuò la voce – Si sente bene?»
«Io… s-sì sto bene. La ringrazio per aver chiamato. Io… Ho s-solo bisogno di t-tempo per metabolizzare la notizia.»
«Le auguro una buon
Kaspar troncò la comunicazione prima ancora che l’altro avesse finito di parlare. Tornò nel letto, il volto terreo di un moribondo, e vi si infilò dentro, tirandosi le coperte fin quasi agli occhi.
Elsa.
Era davvero molto tempo che non pensava più a sua figlia. Troppo tempo. E come avrebbe potuto pensare a lei? In venticinque anni si cambia, si cambia troppo, e lui ormai non aveva alcun volto a cui agganciare il proprio pensiero. Poteva ricordare soltanto come era prima che scappasse di casa… E questo gli bastava. Oh sì, se gli bastava.
Kaspar cominciò a respirare piano, mentre la sua mente gli forniva l’immagine più dettagliata possibile di Elsa. Elsa tredicenne, stretta in un adorabile vestitino da bambina-fata. Eppure il suo corpo non era più quello di una bambina. Ormai era quello di una donna, esile, flessuoso, pieno di curve che ti irretivano gli occhi, costringendoti a guardare. Ma presto guardare non ti bastava più, oh no. Ti veniva voglia di toccare. Di assaggiare. E Kaspar aveva toccato e assaggiato, più e più volte, fino a quel dannato incidente. Era un incidente molto ben premeditato. Aveva atteso un giorno in cui sua moglie non c’era (il sabato sera usciva per prendere un tè con le amiche e tornava solo a notte inoltrata). Casualmente quel giorno anche i vicini non erano in casa, ma su un aereo diretto a Barcellona per una settimana di vacanza fra spiagge, monumenti e tapas. Rimasto solo con Elsa, Kaspar le era saltato addosso, le aveva strappato i vestiti e l’aveva bloccata sul tavolo con la propria, enorme forza paterna. Stava andando tutto dannatamente bene, ma poi lei si era divincolata sul più bello ed era scappata via. Lui le era corso dietro, con gli occhi arrossati dal desiderio, animale mostruoso disposto a tutto pur di soddisfare i propri istinti bestiali. Avevano corso per chilometri, fra giardini privati, strade ingombre di traffico e sottopassaggi ferroviari senza che nessuno si accorgesse di loro due o di quanto Elsa fosse terrorizzata e vicina al crollo. Poi lei era salita su un autobus che era partito sferragliando, e da quel giorno suo padre non l’aveva più rivista.
Ora, in quella notte cupa di venticinque anni dopo, Kaspar la sentì distante da lui, come se Elsa fosse morta da molto, molto più tempo. Era morta nella sua mente, però, ma non nel suo corpo, perché l’unica cosa che conservava ancora di sua figlia era una terribile ma quanto mai potente sensazione di piacere. Un piacere proibito, ma proprio per questo abnormemente soddisfacente.
Si rese conto di aver bisogno di buio per ricordare; aveva bisogno del buio del mondo per ripensare a lei, al suo meraviglioso corpo da adolescente, stretto in quel vestito da bambina-fata. La mano di Kaspar corse al pulsante dell’abat-jour e la notte tornò a riempire la stanza. Ma ecco che, nell’esatto momento in cui la luce si dileguava, un’ombra apparve ai piedi del letto. Era una silhouette esile, smagrita, nera come carbone. Un’ombra vuota, senza sostanza, eppure era lì, vicino al suo letto, ad ascoltarlo respirare.
Kaspar urlò e riaccese la luce. L’ombra era sparita, volatilizzata nei pochi secondi necessari perché le sue dita schiacciassero il pulsante. Eppure Kaspar la sentiva ancora lì, la rivedeva negli oggetti della stanza, negli angoli bui sottesi fra la scrivania e l’armadio. Kaspar rise nervosamente.
«Ho sognato, ecco tutto…» bisbigliò a se stesso, ma la sua voce, la voce di un vecchio, lo rese ancora più nervoso. "Sei solo sconvolto per la sua morte – gli suggerì la sua coscienza – spegni la luce e addormentati in pace."
La razionalità prese di nuovo il sopravvento in lui. Aveva soltanto sognato di vedere quell’ombra, certo che sì. Era la spiegazione più plausibile. Probabilmente la morte di Elsa l’aveva sconvolto più di quanto si rendesse conto. Non era un caso che quella silhouette ombrosa avesse le sue sembianze, no? Le sembianze di sua figlia tredicenne, codini, fianchi acerbi, gambe magre e tutto il resto.
Rassicurato, Kaspar spense la luce. I suoi occhi fecero fatica a passare dalla luce al buio quasi totale della stanza e per molti secondi mille lampi violacei gli ipnotizzarono i sensi, passando sulle sue cornee come nubi temporalesche. Poi tornò a vedere e si accorse che l’ombra era tornata. Era lì, in piedi ai piedi del letto. Lo fissava senza occhi e gli parlava senza bocca.
«NO!» urlò Kaspar, riaccendendo la luce. Si voltò, con il cuore sempre più dolorante, ma l’ombra si era dileguata ancora una volta e senza lasciare tracce visibili. Fu in quel momento che la lampadina dell’abat-jour cominciò a tremolare. Era una lampadina vecchia, molto vecchia. Quanto tempo era che non la cambiava? Almeno venticinque anni. "Può durare venticinque anni, una lampadina?" si chiese Kaspar. Forse sì, era la risposta… Forse sì se qualcuno voleva che fosse così, se qualcuno, in un modo o nell’altro, aveva predisposto quel momento da lungo tempo, attendendo solo il giorno giusto, le condizioni favorevoli, per portare a termine il suo piano di vendetta. L’abat-jour sfrigolò, forse un contatto elettrico, e per qualche secondo tornò il buio assoluto e, con il buio, l’ombra silenziosa.
«E-elsa.» mormorò Kaspar. Il suo cuore scricchiolava come un vecchio mobile divorato internamente dai tarli; ancora qualche secondo di oscurità e il muscolo avrebbe ceduto, trascinandolo con sé nell’oblio. L’ombra non si mosse né parlò. Poi la luce tornò, improvvisa e imprevista, e il fantasma svanì, anche se Kaspar poteva vederne nettamente il contorno impresso nei suoi occhi.
Con un grido, l’uomo si alzò e corse ad accendere il lampadario. Quello aveva le lampadine nuove di zecca e infatti si aprì senza esitazione, i suoi globi di vetro come tanti piccoli soli in una notte primordiale. Le ombre svanirono del tutto e l’uomo poté tirare un sospiro di sollievo. Si asciugò il sudore dalla fronte, ansimando, mentre il suo cuore lentamente rallentava il battito. Se fosse rimasto nelle luce, forse la paura sarebbe rimasta lontana dal suo cuore e lui non sarebbe morto di infarto. "Ce la posso ancora fare" pensò.
E fu lì che una saetta colpì la centrale elettrica che distava meno di un chilometro dalla sua casa. La notte calò su tutto l’isolato e l’ombra acquistò ancora più solidità, gonfiandosi come un incubo, occupando tutto lo spazio angusto della camera. Un grido allora risuonò nella notte, il grido terribile di un moribondo trascinato da un esercito di anime in pena lungo un pozzo senza fine, sempre più giù, nell’oscurità.
Durò poco più di un battito di ciglia e nell’istante in cui l’urlo smise, tornò la luce su tutta la città.

venerdì 23 gennaio 2015

Ghost Writer - Seconda parte

Ecco a voi la seconda e ultima parte del racconto "Ghost writer". Vi è piaciuto? Preferivate un finale diverso? Commentate qui sotto




Colin mangiò la sua bistecca in silenzio, quella sera, senza avere il coraggio di alzare gli occhi su sua madre. Non gli serviva guardarla negli occhi per sapere che aveva pianto. Il dolore, d’altronde, era ancora fresco.
Era trascorso meno di un anno dal dannato incidente che aveva spazzato via la vita di suo padre. Lui, quel lutto, lo aveva già mezzo superato, perché aveva la scrittura dalla sua parte. Ma sua madre… sua madre ormai non credeva più in niente. Aveva scelto di trasferirsi lì per farsi una nuova vita, ma solo il cielo sapeva quanto era dura. Per merito di sua sorella, la zia di Colin, aveva trovato un lavoro come segretaria in uno studio di avvocati e così, grazie alla vendita della vecchia casa a Boston e l’acquisto di quella nuova a prezzo stracciato, i loro problemi economici erano stati messi all’angolo. Per il resto, ci sarebbe voluto solo più tempo. Forse.
Colin sparecchiò, lavò i piatti nel lavandino, raccolse le briciole con la scopa e buttò fuori la spazzatura. Si fermò a guardare le stelle e si chiese se lassù, da qualche parte, suo padre c’era ancora; e poco importava che fosse uno spirito, uno sbuffo di fumo o un barlume residuale di coscienza, purché esistesse. Quando tornò in casa, scoprì che sua madre si era già addormentata sul divano. Colin la osservò in silenzio.
C’era dei giorni in cui la odiava. Sì, odiava. Era vanesia, pettegola, chiacchierona. Eppure, anche se alcune volte Colin l’avrebbe piantata lì per scapparsene lontano, le voleva bene e niente avrebbe mai cambiato quel fatto. Il legame di affetto tra due persone poteva durare per sempre, o almeno così credeva Colin. E poi…
Tick!
Il ragazzino zittì la sua mente e si mise in ascolto. Aveva sentito distintamente un rumore. Sì, proprio un rumore. Lassù, da qualche parte, oltre le travi del soffitto. Proveniva dalla soffitta, sicuro. Non c’era altra spiegazione.
Si girò verso sua madre, che dormiva pacificamente, almeno all’apparenza, appoggiata con la guancia su uno degli appuntiti braccioli del divano. Avrebbe voluto svegliarla, ma sapeva che non gli avrebbe mai creduto.
Allora, con le gambe che gli tremavano come fossero diventate di gelatina, cominciò a salire la scala che portava al piano superiore. E lì, una volta che fu arrivato sul mezzanino, scorse la porta delle soffitta.
Aperta.
Con una luce che usciva ad illuminare il tappeto.
E un ticchettio appena percettibile oltre il suono monotono delle auto in transito nelle vie del quartiere.
Facendosi coraggio, Colin salì i gradini che lo separavano dalla porta e si infilò nella luce che fluiva dalla stanza oltre la cornice.

Si ritrovò in uno studiolo, rozzo e polveroso. Una scrivania. Due sedie. Pile di libri ammonticchiati ovunque. E, sparsi su tutta la superficie della stanza, una miriade di fogli leggeri, trasparenti, come se fossero a metà tra un altro mondo e il nostro.
Colin ne prese in mano uno. Era freddo e inconsistente, ma conteneva una poesia.

Sì,
straniero son io, figlia del giorno
ma nei miei occhi troverai
quello che da sempre stai cercando
nella nebbia una luce
nel dolore un conforto
nella lotta un sostegno.
Vieni, figlia del giorno, e conosci
Amore.

E fu in quel momento che Colin, alzando gli occhi dal foglio traslucido, vide l’ombra. Era seduta esattamente di fronte a lui, dall’altro lato della scrivania, china sopra una macchina per scrivere; era anch’essa trasparente, come se fosse intangibile. A Colin sfuggì un gemito di paura. L’ombra si bloccò e posò gli occhi su di lui. Gridarono entrambi, spaventati a morte.
«E tu da dove sbuchi?» strillò l’apparizione, alzandosi dalla sedia e gonfiandosi fino a riempire la stanza.
«Ti prego, risparmiami, demone!» piagnucolò Colin, inchinandosi fino a toccare il pavimento con il naso.
«Demone? Oh no, piccolo amico. Non sono quel tipo di ombra. Ti sembro uno di quei jinn malevoli che si nascondono nelle crepe dei seminterrati? E poi siamo in soffitta, no? È un porto franco.»
Colin si mise a sedere, in parte confortato dalla voce dolce di quello spettro.
«Chi sei?» chiese.
«Come chi sono? Sono il proprietario della casa!»
«Vuoi dire… lo scrittore?»
L’ombra rise.
«Già, proprio io. Anzi, lo ero. Adesso sono un fantasma. Un ghost writer. Divertente, non trovi?»
«E cosa ci fai qui?» domandò Colin, alzandosi in piedi e mettendosi a sedere nella sedia vuota.
«Che ci faccio? Scrivo, che altro…»
«E per chi?»
«Oh…» e qui il fantasma si ridusse ad un piccolo figuro rattrappito, un uomo dal naso adunco e dalla fronte spaziosa, con un paio di occhialini alla Cavour e una barba mal rasata.
«Già… hai toccato il tasto dolente. Scrivo per una donna che non posso più avere. Per una donna che ho perduto.»
«E perché?»
«Ooooh! Troppe domande per uno che non parla con un’anima viva da oltre trent’anni. Perché, perché… perché a volte gli uomini sono degli idioti e si lasciano scappare le cose a cui tengono di più. Finché è troppo tardi per tornare indietro.»
«E cioè?»
«Uff… Non sai proprio niente? Un fantasma è costretto a restare nello stesso posto finché non riesce a rimediare ai suoi errori. E puoi immaginare già da te che, ora come ora, non ho alcuna possibilità di incontrarla.»
«Vuoi dire che la tua… ehm ragazza è ancora viva?»
Il fantasma sospirò.
«Sì. Ma tanto non ha importanza. Non ho alcun modo per comunicare con lei, e… Aspetta. Adesso che ci penso… Come fai a vedermi?»
«Io? Non lo so – rispose il ragazzino – Ho sentito solo dei rumori, sono venuto su e ho trovato questa… poesia.»
Il fantasma si mise a fluttuare nell’aria, simile ad un palloncino bucato.
«C-cioè tu… hai preso in mano uno dei miei fogli?»
«Non dovrei?» sussurrò Colin.
«Non potresti! Nessun uomo normale potrebbe. Gli uomini vedono solo quello che sta davanti al loro naso e niente di più. A meno che tu non sia un… collega.»
«Collega?»
«Ma sì: scrittore, poeta, un pazzo saltimbanco delle parole!»
«Be’ sì, mi piace scrivere, adesso che ci penso.»
«Allora è tutto chiaro. Ecco perché hai potuto vedermi. E, visto che ormai sei qui, tu mi aiuterai.»
«Aiutarti?»
 «Già. Sarai il mio tramite con Madeline. Le porterai le mie poesie e gliele leggerai. Così lei capirà, mi perdonerà per i miei silenzi e per il mio suicidio e, quando lascerà il suo corpo, sarò lì ad aspettarla, oltre la cortina di questo mondo.»

E Colin accettò. Per le settimane successive, si recò a trovare Madeline. Era una vecchina silenziosa, ma con gli occhi vispi e un sorriso tutto gengive. Era stata rinchiusa dai nipoti in un ospizio che, per sua fortuna, era migliore di altri, con un chiostro alberato, un giardino punteggiato di aiuole e un laghetto dove dimoravano anatre sonnacchiose. Colin la visitò tutti i giorni e ogni giorno le portava una poesia nuova, scritta dal fantasma durante la notte. Madeline lo ascoltava in silenzio, con gli occhi bassi, sembrava quasi che non ascoltasse. Eppure, quando Colin si rimetteva il foglio “fantasma” in tasca e si apprestava ad uscire, la vecchina gli sorrideva, con gli occhi che le brillavano.
Andò avanti così per due mesi, finché, in un giorno grigio di ottobre, Colin raggiunse l’ospizio, salì le scale e scoprì la camera di Madeline vuota e il letto fatto. Allora capì che la donna aveva compiuto il suo ultimo viaggio, oltre la cortina di cui parlava il fantasma.
Corse trafelato fino a casa, incespicando sulle stringhe delle scarpe. Raggiunse casa sua, si precipitò su per la rampa di scale e si fiondò in soffitta. La trovò vuota, come la stanza di Madeline. C’era solo un piccolo biglietto trasparente, con una sola parola:

Grazie

mercoledì 21 gennaio 2015

Ghost Writer - Prima parte

Rieccomi qui! Scusate per la lunga assenza, ma la sessione invernale degli esami mi ha occupato parecchio tempo. Fortunatamente, sono riuscito a scrivere la prima parte di questo racconto fantastico. Spero vi piacerà.
Buona lettura





La signora Miller entrò nella vecchia casa gesticolando. Era una donna di mezza età, energica e prorompente, con una maglia aderente che le imbellettava il seno generoso. Con voce roca, segno che si era fumata un intero pacchetto di sigarette prima di arrivare lì, si mise ad illustrare i punti forti della casa. Portò i potenziali compratori a visitare il soggiorno, una stanza quadrata piuttosto vetusta, con carta da parati verde scuro arricchita da chiazze arancioni di muffa. Mostrò loro la cucina, che a vecchiezza concorreva con il resto della casa; pentole in rame erano appese alla cappa del camino, insulsi quadri di gatti spiccavano qua e là, sui muri color topo, e un forno in maiolica grigia faceva bella mostra di sé, fra un frigo bombato e un mobile di mogano divorato dai tarli. Sembravano usciti tutti da un film muto di Fritz Lang. Poi fu il turno delle camere da letto e dei bagni, i quali non riservarono di certo sorprese, tranne un solitario scarafaggio, che scivolava sulla tazza del gabinetto, e una cimice, che passeggiava allegramente su di una coperta a patchwork imbevuta di naftalina.
La signora Miller, in quella visita frettolosa, non fece altro che parlare e parlare. La sua bocca, sottolineata da un rossetto dal colore volgare, un magenta carico che riportava alla mente serate passate a scommettere al casinò o all’ippodromo, non la smetteva più di aprirsi e chiudersi, e le sue labbra sembravano quelle di un millenario pesce abissale, intento a criticare aspramente il pescatore che lo aveva preso all’amo e caricato sul pavimento umido di un peschereccio.
Colin la osservava in tralice. Dio, quanto assomigliava a sua madre! E, non a caso, sua madre le pendeva dalle labbra e assentiva ad ogni sua parola, annuendo convinta, la testa che le scivolava all’indietro per il peso del suo vistoso chignon.
«Come vede – stava dicendo in quel momento la donna – la casa è vecchia, ma è solida. Se non ci credete, sentite i muri! – e li percosse con le nocche ossute – Sentito? Non sono certo i muri di una casa moderna, nossignore. Avete udito il suono che producono? – imitò il knok knok con le labbra a “o” – sta a significare fiducia, amore, responsabilità. È una casa importante. Che ne dite?»
«Dico che la prendiamo subito – rispose la mamma di Colin, meritandosi un’occhiata raggelante del figlio – la casa mi piace. Ha, diciamo, quella patina antica che ti riscalda il cuore. E poi la posizione è ottima. Raggiungerò il nuovo ufficio in un batter d’occhio.»
«Lei sì che si intende di affari…» gnaulò la signora Miller, con fare adulante, passandole i documenti da firmare. La mamma di Colin, fatta scattare una dozzinale penna da supermercato, vi appose una firma arabeggiante: Miranda Goldman.
«Mi tolga una curiosità – disse Miranda, non appena ebbe riconsegnato il foglio fra le mani avide della signora Miller – come mai il prezzo è così basso? Voglio dire, sarà pure una casa vecchia ma ha tutto al suo posto e per arrivare al centro ci vogliono solo quindici minuti a piedi.»
La signora Miller ridacchiò nervosamente.
«Oh, be’. Visto che ormai il contratto è firmato, posso anche svelarle l’arcano. Una trentina di anni fa, suppergiù, qui ci abitava uno scrittore squattrinato. Era un tipo tetro, solitario. Una bestia, a quanto dicevano, con due occhi neri come carbone. Be’ finì che l’uomo si tolse la vita. Nella soffitta di questa casa…»
«Intende dire quella porta chiusa che non ha avuto il coraggio di aprire?» si intromise Colin, quattordici anni appena compiuti, sorriso sfrontato, guance piene di lentiggini, cappello col frontino a rovescio, edizione tascabile di Ventimila leghe sotto i mari infilata sotto l’ascella sinistra.
«Shhh… lascia parlare i grandi.» lo zittì acidamente sua madre.
«Oh be’, sì. Proprio quella soffitta. E sa come funziona la testa della gente: la voce si è sparsa e nessuno dei dintorni ha più voluto visitarla né sentirne parlare… Oh, c’è morta una persona qui dentro, non voglio neppure entrarci. Che assurdità, credere ai fantasmi al giorno d’oggi! E poi è arrivata lei, cara signora… signora Goldman. Lo sapevo che uno straniero avrebbe avuto più sale in zucca di questi, questi... provinciali.»
Miranda sorrise debolmente, ma si vedeva che avrebbe voluto schiaffeggiare la donna in piena faccia.
«È ora che vada, adesso. Vi lascio nella vostra nuova casa.»
La signora Miller si alzò, si spolverò il vestito, strinse la mano di Miranda con leziosità, diede un buffetto alquanto inopportuno sulla testa di Colin (il ragazzino ringhiò, dal momento che il suo prezioso cappello fu quasi sul punto di cadere), prese la borsa che aveva momentaneamente appeso al pomello di una sedia e uscì trafelata dalla casa, come se non volesse restarci un secondo di più. Non appena la porta fu richiusa (con una dose eccessiva di veemenza) uno dei quadri tristi del soggiorno si staccò dal chiodo e si infranse sul pavimento, schizzando ovunque frammenti di vetro. Sia Colin che la donna sussultarono. Si cominciava bene!
Gli occhi di Miranda mandavano lampi.
«Che strega! Non poteva dircelo subito del… suicida? Perché proprio a me? A me che ho così paura dei fantasmi e degli spettri!»
«Io te l’avevo detto che questa casa era una fregatura – sbadigliò Colin – ma tu non mi hai voluto ascoltare, come al solito.»
«Fila a lavarti le mani, tu!» lo interruppe Miranda, e Colin, temendo qualche punizione, corse immediatamente nel bagno. Prima di lavarsi le mani, ovviamente, si premunì di schiacciare lo scarafaggio, il cui carapace si fessurò con un kruunk tutt’altro che invitante. Sulla tavoletta color miele si condensarono grumi di “succo di insetto”, come lo chiamava Colin. Rabbrividendo dal disgusto, il ragazzino corse a lavarsi le mani; c’era ancora del sapone, ma era così duro che doveva trovarsi lì da anni. Chissà, forse apparteneva allo scrittore… magari lo aveva usato pochi minuti prima di ammazzarsi. Già… chissà come si era ucciso? Impiccandosi alle travi della soffitta, tagliandosi le vene o bevendo una dose da cavallo di veleno per scarafaggi?
Rabbrividendo ancora più forte, Colin scese giù per le scale di corsa, con la sensazione che qualcosa lo inseguisse, come uno spiffero di aria gelata. Eppure era agosto, e fuori faceva un caldo infernale.

Il resto della giornata trascorse nell’immobilità più assoluta. Il vicinato era composto perlopiù da vecchietti, che passavano i loro pomeriggi spaparanzati su sedie a sdraio a righe, bisticciando fra loro, giocando a ramino o spiando il viavai dei “giovanotti” che sfilavano coi loro skate ruggenti per i marciapiedi e gli steccati del quartiere. Colin, immerso fino al collo nelle siepi che contornavano la veranda (il giardino non veniva potato da mesi), ebbe tutto il tempo di finire il suo libro e passare a un altro: La storia infinita. Lo lesse con soddisfazione, sorseggiando una limonata ghiacciata. Adorava leggere e trovava che, se i suoi coetanei avessero passato più tempo sui libri, forse ci si sarebbe rispettati tutti quanti, senza stare a guardare le differenze sociali, i difetti fisici, la lingua o il colore della pelle. Perché leggere significava entrare nel cuore degli uomini, comprendere le diversità e imparare a conviverci. Leggere era qualcosa che ti dava la carica, che alimentava la speranza in un mondo migliore. E scrivere era ancora meglio. Colin ogni tanto scriveva e si sentiva davvero bene: ogni parola, ogni riga, era un passo giù, nel profondo di se stesso, dove era buio e dove l’unica luce era quella della fantasia. Eppure il signore che abitava in quella casa… La scrittura non lo aveva salvato.
Ingoiando l’ultima goccia rinfrescante di limonata, Colin alzò lo sguardo verso la soffitta. C’era un’unica finestra, come un oblò, che sovrastava il piccolo cinereo giardino. E fu lì che, in parte confusa dietro il vetro appannato e impolverato della finestra, Colin vide una faccia. Era il viso di un uomo. Due occhi neri, una barba lunga, una bocca sottile, stirata verso giù, come se fosse la maschera di una tragedia greca. Colin balzò in piedi, gridando a squarciagola. Il bicchiere della limonata cadde sul legno usurato della veranda, risuonando con uno scoppio.
Miranda uscì di corsa, incespicando negli infradito. Nella corsa lo chignon le si era sciolto e i suoi capelli nero ebano svolazzavano nell’aria, come immersi in una corrente marina invisibile.
«COLIN! Che sta succedendo?»
«Mamma… lì… sulla finestra… il fantasma.»
Ma nel tempo che la donna ci mise a raggiungere il punto della veranda da cui Colin aveva visto la sagoma, il volto era scomparso. Era rimasto tuttavia un alone, come un ritratto fotografico sbiadito dallo sgocciolare degli anni. Miranda sospirò e alzò gli occhi al cielo.
«Ma che fantasma e fantasma! Non vedi che è solo una macchia sulla finestra?»
«Ma no, mamma! Te lo giuro! So quello che ho visto!» ribatté lui, diventando tutto paonazzo per la rabbia.

«Colin Goldman! Comportati da uomo! Se tuo padre fosse qui…» ma Miranda non finì la frase. La voce le mancò e dovette tornare in casa per non scoppiare in lacrime davanti ai vicini, i quali, allungando il collo oltre la siepe, si erano messi a osservarli senza provare rimorso o vergogna, masticando tabacco e sputandolo tra le foglie del giardino.

sabato 17 gennaio 2015

Angolo delle poesie - Chi sono?

La poesia di oggi è “Chi sono?” di Aldo Palazzeschi. Già dal titolo capiamo il tema centrale della poesia, che poi è uno dei temi centrali di tutta la produzione del poeta fiorentino: la ricerca di un’identità. Siamo nel Novecento e la figura del poeta vate è tramontata ormai da un pezzo. Cosa resta al poeta? Il gioco, il divertimento, il non prendersi sul serio. Diventa, come ribadito dall'ultima riga, un saltimbanco.




Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
«follía».
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
«malinconía».
Un musico, allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
«nostalgía».
Son dunque... che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.

Aldo Palazzeschi

mercoledì 7 gennaio 2015

La leggenda di Creekwall - Quinta e ultima parte

Ed ecco a voi l'ultima parte della leggenda di Creekwall! Spero che questa serie di racconti vi abbia stupito e appassionato. Ricordatevi di commentare: ogni parere è prezioso. Buona lettura.
Alvise 





Nella prigione terrosa degli elfi, Ytan ebbe il tempo di ripensare agli eventi che lo avevano portato fin lì. Meditò sulla maledizione che aveva ingoiato le terre degli uomini, e rifletté sul perché alcune città, ossia le più piccole e modeste, fossero state risparmiate. Che la maledizione avesse qualcosa a che fare con l’avidità, con la sete di potere, che, come un nemico invisibile, aveva iniziato a strisciare prima a nord e poi anche lì, nell’arcaica foresta degli elfi? E come mai i Silenti rapivano solamente i giovani, e da dove prendeva forza l’oscuro incantesimo che alimentava l’esistenza stessa di quell’esercito spettrale? Era in questi interrogativi che si nascondeva il segreto per rompere la maledizione, solo che il messaggero non aveva la minima idea di come risolvere l’enigma.
Ytan pensò, pensò e pensò, ma più si sforzava, più le domande si facevano confuse e meno la via gli appariva chiara. E poi, se non fosse riuscito ad evadere, tutta quella fatica si sarebbe conclusa con un nulla di fatto: sarebbe morto in quel buco nella terra e la sua missione avrebbe avuto fine. Creekwall e i villaggi vicini avrebbero continuato a soffrire e l’esercito dei Silenti sarebbe diventato sempre più forte e spaventoso, finché il cielo ne sarebbe stato oscurato.
Ma ecco che nel cuore della terza notte, i pensieri di Ytan vennero interrotti da un impercettibile scalpiccio, come di passi leggeri sul suolo della foresta. Seguì un grido soffocato e un tonfo. Dopodiché la porticina della prigione si aprì e una lama di luce fendette l’oscurità, proiettandosi sui muri della cella come il guizzo di un prisma.
«Straniero! Esci… siamo venuti a liberarti.» a parlare era stata una voce fiera, e tuttavia dolce. Una mano fu tesa nell’oscurità, Ytan la afferrò e venne tratto fuori dall’umida prigione in cui languiva da oltre tre giorni. Era notte fonda e il cielo era come il manto azzurro di un dio-cavaliere steso sul mondo.
Il messaggero inspirò profondamente l’aria notturna e i sentori d’abete che aleggiavano nella foresta. Guardò le stelle, mille occhi splendenti, che gli ricordarono quelli densi di magia di Igreine. Fu solo quando si sentì davvero libero che si rivolse a colui che lo aveva salvato.
Era un giovane elfo, dai capelli neri come ebano. Aveva sopracciglia cispose, come quelle di un gufo e una bocca sottile, fiera e combattiva. Era accompagnato da una ventina di guerrieri dal viso dipinto di nero, che sembravano ombre sottili nella notte.
«Sono Peredìl, nipote del re – disse l’elfo misterioso – Il tuo arrivo ci ha dato forza, straniero. Questa notte, per vendicare l’affronto di Seretìl contro la madre foresta, attaccheremo. Dimostreremo che molti di noi hanno ancora a cuore le antiche usanze e non desiderano la guerra, ma solo la pace e un ritorno ai valori del passato.»
«Che tu sia benedetto, Peredìl – rispose Ytan – il tuo coraggio ha salvato me e la mia missione!»
E Ytan raccontò tutto quanto, il viaggio che aveva compiuto e i pericoli che aveva dovuto affrontare nella sua ricerca della verità. Peredìl ascoltò con attenzione e così fecero anche gli altri elfi ribelli. I loro occhi erano duri e splendenti come rocce illuminate dai raggi lunari.
«Messaggero – esclamò alla fine Peredìl – la missione non è solo tua, ma di tutti noi. Anche nella foresta di Kalimdar è scesa l’ombra dei Silenti. Anche i nostri hanno iniziato a sparire.»
«Che cosa posso fare, dunque, per porre fine a tutto ciò?» mormorò Ytan, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime. L’elfo scosse la testa.
«Non lo sappiamo, ma forse c’è chi potrà risponderti. Alla fine di questo sentiero troverai un fiume e più oltre una cascata. Oltrepassala e raggiungerai una strada segreta, una strada ampia e splendente che al posto delle pietre ha cristalli di luna. Seguila e ti porterà nel cuore della foresta Sacra, dove neppure Seretìl ha il coraggio di inoltrarsi. Ai confini estremi di questa foresta, se il tuo piede non cadrà in fallo, troverai un albero, l’Albero d’oro. Dentro le sue radici, nel ventre della terra, Esso conserva tutto il sapere e la magia del mondo. Potrà aiutarti, ma solo se il tuo cuore è davvero puro come dici. Non molti sono tornati da questo viaggio, perché hanno percorso quella strada appesantiti dalla bramosia di potere.»
«Non mi interessa il potere, Peredìl, nipote del re.» ribatté il ragazzo e nelle sue parole c’era il vero.
«Allora forse per tutti noi c’è ancora speranza. – osservò l’elfo, sorridendo con sincerità – Ora va’, messaggero. Dal tuo viaggio dipende la vita di tutti noi.»
Detto questo, gli elfi svanirono nella notte. Ytan, procedendo silenziosamente fra gli alberi, superò il sentiero e raggiunse il fiume. Lo notarono solo gli occhi gialli dei gufi, che lo accompagnarono lungo la via con il loro lugubre bubolare. Il sentiero divenne sempre più pendente, finché raggiunse la sommità di una collina che sovrastava una parte della foresta. Fu lì che il ragazzo si fermò e si mise ad ascoltare con attenzione: dalla città degli elfi provenivano ora i suoni di una battaglia; i ribelli stavano combattendo contro la sete di vendetta dei sostenitori di Seretìl. Chi avrebbe vinto? Ytan non lo sapeva e in quel momento non gli importava: la riuscita della sua missione era l’unica cosa che contava.
Continuò a seguire il lento serpeggiare del fiume, finché giunse alla cascata; era davvero maestosa, e l’acqua risplendeva della luce delle stelle dopo essersi infranta sulle rocce sottostanti. Le gocce che rimbalzavano sulle pietre creavano una musica che sapeva muovere a compassione il cuore. Ma Ytan non aveva tempo di ascoltare. Scese con attenzione le rocce scivolose d’alghe di fiume, si immerse fino alla cintola nell’acqua gelata, oltrepassò il muro mutevole della cascata e, come Peredìl gli aveva detto, trovò la via lastricata di cristalli.
Non erano affatto cristalli, ma diamanti purissimi, grandi come uova di drago. Erano splendidi e tuttavia… avevano un che di terribile e guardarli era come perdersi in un labirinto. La sicurezza di Ytan cominciò a vacillare. Una specie di verme si fece strada nel suo cuore. Sussurri di tenebra si infiltrarono nella sua mente. I suoi occhi si misero a vagare su quella distesa opalescente, mentre un sorriso sbilenco si arricciò sinistro sul suo volto. Se avesse preso anche solo uno di quei diamanti avrebbe potuto trascorrere il resto della sua vita come un re. Avrebbe potuto comprare un castello, assumere dei servitori, creare un esercito e… no, che cosa stava dicendo! Il messaggero scosse la testa, si prese a pugni la fronte, cercando di distogliere lo sguardo da quel tesoro. L’albero, doveva raggiungere l’albero prima che fosse troppo tardi!
Cercò di proseguire, ma ogni passo si faceva pesante come piombo. Prendi un diamante, uno soltanto. Che cosa sarà mai? Una voce sempre più potente si faceva largo dentro di lui. Era una voce, e tuttavia non era composta da parole, piuttosto da zoccoli di cavalli e scoppiettii di fuoco e ruggiti di bestia e vagiti di morte. La voce dei Silenti!
Cadde in ginocchio, la fronte a contatto con la fredda superficie iridescente dei diamanti. Allungò una mano. Afferrò una di quelle pietre. Non erano affatto fissate alla terra, si potevano estrarre come fossero denti marci su una gengiva. Erano semplici da arraffare e avrebbero reso tutto più semplice. No, no! gridò Ytan nella sua testa. Doveva resistere, o non sarebbe mai riuscito a raggiungere l’albero né quest’ultimo gli avrebbe mai dato ascolto. Iniziò a strisciare sui gomiti, gli occhi levati al cielo cupo, dietro le cui nuvole si delineava però il cerchio infuocato dell’aurora.
Prendi quelle pietre!
«No!»
Stringendo i denti e le palpebre come di fronte ad un incubo proveniente dalle nebbie dell’Altrove, Ytan si trascinò lungo la via di diamanti. Avrebbe continuato a strisciare per sempre se le sue mani ad un tratto non avessero incontrato la nuda terra. Riaprì gli occhi. La strada di diamante era finita. E, di fronte a lui, si trovava l’Albero d’oro. Era gigantesco e i suoi frutti erano globi di luce dorata, che palpitavano come cuori d’angelo. Ed ecco che una figura si frappose fra lui e la pianta. Era una fata bellissima, dalle ali di farfalla. Indossava un abito fatto di pura luce stellare e un diadema di pietra di luna brillava fra i suoi capelli del colore del grano.
«Sono Alycanta – disse l’apparizione – la guardiana dell’Albero d’oro. E tu chi sei, mortale?»
«Sono Ytan, di Creekwall. Sono stato mandato qui per scoprire il modo di spezzare la maledizione che tiene incatenato il mio popolo. Ma ho fallito: la strada di diamante mi ha tratto in tentazione. Avrei tradito tutto e tutti pur di prendere uno di quei cristalli. Ho fallito… Non sono migliore degli altri uomini né sono degno di parlare con il grande albero.»
Alycanta si avvicinò e lo abbracciò.
«Non conta come tu sia arrivato fin qui – disse – ma che tu ci sia riuscito. Non è la tentazione in sé a distruggere l’uomo ma l’arrendersi ad essa. Sei il terzo che, nonostante tutto, è riuscito ad arrivare fin qui. Migliaia di altri uomini ci hanno provato ma o si sono lasciati morire su quella strada, dilaniati dal dubbio, o sono fuggiti portandosi via un diamante. Entrambi hanno fatto una brutta fine. Ma tu, piccolo uomo, ce l’hai fatta.»
Allora Ytan scoppiò in lacrime.
«Oh, potente Alycanta. Dimmi come posso porre fine alla maledizione che affligge il mio popolo!»
La fata gli sorrise.
«L’Albero te lo dirà. Ma dovrai superare un’ultima prova.»
«Qualsiasi cosa.» rispose prontamente il ragazzo.
«Dovrai addormentarti ai piedi dell’albero e lasciare che la tua anima venga assorbita dalle sue radici. La tua essenza vitale salirà fino ai rami e lì, quando il sole di luglio splenderà nella foresta, darà vita ad un frutto.»
«Un frutto?»
«Sì. E se sarà un frutto buono, l’albero saprà che sei degno di sentire la risposta. Se sarà cattivo…»
«Se sarà cattivo?»
«Morirai, messaggero. L’albero non ti restituirà la tua anima e il tuo corpo marcirà sotto le sue radici. È questo il prezzo.»
Ytan non ci pensò due volte.
«E sia! – esclamò – Sono pronto!»
Alycanta lo accompagnò con affetto materno fino al grande albero. Ytan si accoccolò sui nodi delle radici e, in men che non si dica, cadde in un sonno profondissimo, il sonno più lungo e duraturo della sua vita. La sua coscienza gocciolò nella terra, fino a raggiungere la punta delle radici e il cuore del sapere. E lì, Ytan morì e rinacque.

Prima vide solo buio, così buio che pensava che non ci fosse più nulla. Poi una luce si palesò in quelle tenebre. Era la luce del sole, potente, eterna. Insieme alla luce risuonava il canto della natura: cinguettii di uccelli, ululati di lupo, ronzare di api, sibilare di arbusti... Ytan aprì gli occhi interiori e scoprì che in quel guizzo, in quel tempo esiguo che era sembrato solo un minuto, il suo frutto era cresciuto. Era un frutto rosso, maturo, fresco. Buono. In quell’istante il suo vero corpo, abbandonato sul tronco rugoso e tiepido dell’albero, si svegliò, riscaldato e accecato dal sole estivo. Aveva superato anche l’ultima prova. E la voce saggia dell’albero non tardò a farsi sentire.
«Ben svegliato, Ytan Seatiln, messaggero di Creekwall, distruttore della torre, flagello degli spaventapasseri, frutto dell’albero d’oro…»
«Buongiorno a te, araldo del creatore, tu che sei stato e sempre sarai – rispose il ragazzo, abbassando in segno di rispetto il capo – Hai dunque una risposta per me?»
«Sì, ma in cuor tuo già la sapevi. L’esercito dei Silenti trae forza dalla disunità e dall’odio e dall’avidità.»
«Lo sospettavo, ma perché sono i giovani ad essere rapiti?»
«Perché i peccati dei padri finiscono sempre per ricadere sui figli. Gli adulti hanno lasciato morire la speranza, si sono fatti irretire dalla brama di potere e dall’avidità; si sono scontrati l’un l’altro, dimenticando di essere fratelli. Hanno consumato tutto come voraci lupi, guardando al presente come se il futuro non esistesse, e adesso ai loro figli non resta che assistere alla devastazione che si sono lasciati alle spalle. Sono i giovani a morire perché è su di loro che la mancanza di speranza ha più presa. Ecco il segreto del potere dei Silenti.»
«Non c’è più speranza, dunque?» sussurrò Ytan.
«C’è sempre. Solo che sarai tu a portarla.»
«E come?»
«Dovrai mostrare loro qual è la giusta via. Dovrai insegnare alle genti l’uguaglianza e il rispetto, l’umiltà e l’unione. Viaggerai di paese in paese, portando le parole dell’Albero come un vessillo di verità. Insegnerai ai popoli a ritornare fratelli. Solo così l’esercito dei non-morti perderà potere fino a ritornare nelle viscere degli inferi. Sconfitto per sempre.»
Ytan sorrise sollevato.
«Tutto qui?»
E dal profondo della terra salì una risata roboante, la risata millenaria e crepitante dell’albero.
«Oh piccolo, piccolo ingenuo uomo. Non capisci? La tua vera missione inizia adesso.»




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