giovedì 14 novembre 2013

Grigio Ghiaccio

Un amore che finisce, la solitudine che avanza e, come una nebbia, ricopre tutto. Grigio Ghiaccio. Buona lettura. Alvise Brugnolo





La luce dell'appartamento era soffusa. L'abat-jour sulla libreria del salotto mandava flebili raggi, sottili come ragnatele, che si proiettavano sul soffitto formando un complesso gioco di riflessi. Jack si tolse le scarpe, il soprabito e il cappello. Fece tutto in punta di piedi, per paura che Kim si fosse appisolata sul divano. Kim invece era sveglia.
«Bentornato. Come è andata al lavoro?» gli chiese la donna, con lo stesso tono con cui si sarebbe rivolta ad un sintetizzatore vocale. L'uomo si avvicinò e la baciò. Le labbra di Kim erano soffici, ma gelide.
«Tutto bene.» rispose lui, pensieroso. Si piantò in mezzo alla stanza e osservò la moglie, come se non la vedesse da tanto tempo. Era sempre bellissima, nonostante fossero passati quindici anni dal loro matrimonio. Aveva mantenuto il fisico tonico, statuario, che l'aveva tanto eccitato nel giorno del loro primo incontro. I suoi capelli erano ancora d'oro e non c'era nessun intruso bianco a rovinarli. Una cosa però era cambiata. Il suo sorriso. Jack non ricordava più l'ultima volta in cui Kim gli aveva sorriso. Era diventata grigia, più grigia della città nei giorni di nebbia. Cosa succede, avrebbe voluto chiederle, che cosa ti manca? Ma non aveva il coraggio. Ti ho sempre dato tutto me stesso! Non ti è bastato? Perché sei così triste? Fingeva di non sapere, ma aveva già la risposta. Era così chiara. Kim non lo amava più. La donna gli aveva mentito. Jack se lo ricordava ancora: in un giorno di pioggia, sotto il tetto di una vecchia chiesa abbandonata, che quasi cadeva a pezzi, Kim gli aveva promesso eterno amore. Per sempre, aveva detto. Bugiarda! Giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, i suoi occhi si erano spenti, come quelli di un moribondo. La sua voce si era spenta, esaurita dietro ad un muro di silenzio e incomprensione. E' per colpa dei bambini che non sono venuti? voleva chiederle Jack, invece restò zitto. Ci avevano provato per anni, ma il test di gravidanza aveva sempre distrutto le loro speranze. Li aveva fatti crollare. E con il tempo non ci avevano provato nemmeno più. Erano rimasti solo loro due e la casa enorme, che avevano acquistato proprio in previsione dell'arrivo dei loro bambini. Illusi che siamo! Avevano desiderato voci, giochi, pianti, ma invece avevano solo stanze su stanze, vuote, con lettini vuoti, armadi vuoti, scrivanie vuote, portalampade vuoti. Anche loro erano diventati vuoti, pian piano, senza nemmeno accorgersene. Erano cambiati come la città, sempre più grigia, troppi palazzi piovuti come tante piccole tragedie, sempre meno spazio per vivere. Rivoglio quella che eri, Kim! Avevi una fiamma per me. Che fine ha fatto? E' ancora accesa, langue o è morta, morta, morta, morta, morta, morta, morta, morta, morta, MORTA?
«Perché mi guardi così?» domandò Kim, con voce piatta. Jack si sforzò di sorridere. Non si era nemmeno accorto di essere rimasto in piedi, come un pupazzo di legno, per almeno dieci minuti.
«Ti guardo perché sei bella.» rispose, tremando per l'emozione come se glielo stesse dicendo per la prima volta, in piedi, davanti agli armadietti metallici della scuola. Sei bella. Si avvicinò al divano, mentre Beethoven usciva dalle casse del sistema hi-fi, indiavolato, passionale. Vivo. Jack si inginocchiò e le abbracciò le gambe. Iniziò a baciarle, risalendo sempre più su, verso i pantaloncini corti, che enfatizzavano le curve sode della donna. Kim iniziò a ridere. Una risata che sembrava più una coltellata.
«Cosa stai facendo? Non ne ho voglia.» rispose, algida. Risuonò come: Cosa stai facendo? Non hai più diritto. Jack si rialzò, ammosciato. Voleva aprire la bocca e gridare. Amiamoci! E' solo questo che conta. La vita è una merda, ti fai un culo così per guadagnare soldi altrimenti non hai futuro, lavori come un animale fino a settant'anni e poi muori, e forse finisce tutto lì. Stare assieme ed essere felici è la sola nostra salvezza. Invece restò zitto. Si rialzò e si versò dello scotch, che consumò lentamente. Tanto non gli piaceva neppure, lo beveva solo per sentirsi più uomo. Kim era sempre lì, mummificata su quel divano. Jack guadagnava abbastanza perché sua moglie potesse scegliere di non lavorare, e lei col tempo ci aveva preso gusto. Se ne stava lì o al club. Al club spettegolava e correva sulla cyclette, in compagnia di altre donne, anche loro con soldi da sprecare in personal trainer e saune bollenti. A casa poltriva sul divano, con le gambe lisce tese, e i piedi accavallati sul pouf. Tra le mani giornali di gossip, di moda. Cose futili, amorfe, pagine su pagine piene di colori, un inganno per nascondere quello che stava dietro. Niente. Vite vuote.
«Hai sentito di George?» esclamò improvvisamente Kim.
«Chi?» rispose Jack, ancora assorto nel suo bicchiere. Kim sbuffò.
«Come chi? Il figlio di William e Kate! Ma dove vivi?»
Già. Dove vivo? Se vivere significava soltanto osservare la vita degli altri da spettatori passivi, Jack era fiero di essere morto. Morto, morto, morto, morto, MORTO. Come poteva Kim non vedere che la sua vita si dileguava ogni giorno di più? Era come se fosse già morta. Aveva tutto, ma non aveva niente. Perché i soldi non possono comprare la felicità? Perché sei così cieca, Kim? si chiese Jack e, dal momento che non aveva una risposta, si versò altri due bicchieri di scotch, questa volta con ghiaccio. Si era illuso, credendo che per loro ci fosse ancora speranza. Non ne avevano mai avuta.
«Credo che domani andrò a fare dello shopping con le mie amiche. Non ho più scarpe da mettere.»
«Non ho più scarpe da mettere? Ne hai un armadio pieno.» ribatté Jack, non riuscendo a modulare la voce, che uscì rancorosa, tagliente. Kim si voltò appena.
«Proprio non capisci. Quest'anno va il grigio, e io ho solo rosso, verde! Capisci? Verde!»
Grigio. Il grigio non passa mai di moda. Tutto è grigio. Sei un fantasma Kim. Credi di essere ancora nella tua casa, ma sei in un limbo, non ti puoi più svegliare. Anche Jack comprese di essere un fantasma. Viveva di ricordi. E solo i morti vivono di ricordi. I ricordi sono illusioni, non danno emozioni e se le danno sono falsate, increspate dal tempo, rese irriconoscibili dall'umore del presente. Fantasmi. Ma Jack sapeva come combattere tutta quella morte. Lo sapeva da anni. Il freddo si può sconfiggere. Kim parlava ancora, elogiava la sfilata di un nuovo stilista svedese dal nome impronunciabile, e la sua incredibile capacità di creare vestiti assolutamente obbrobriosi ma proprio per questo così sublimi, di una perfezione grottesca. Una mano scese furtiva sul divano. Afferrò uno dei tanti cuscini grigi. La voce di Kim si spezzò. Si dibatté a lungo sul divano. Sembrava che ci fosse ancora vita in lei, ma Jack non si sarebbe fatto ingannare. Premette il cuscino su quella bocca così fredda con ancora più forza. Ti amo, avrebbe voluto dire, ti ho sempre amata, e lo sto facendo per te, per noi. Invece rimase zitto.




lunedì 4 novembre 2013

Angolo delle poesie

La poesia di oggi è Spesso il male di vivere ho incontrato di Eugenio Montale. Contenuta in Ossi di seppia (1925), la poesia parla della sofferenza e del disagio, presenze costanti nella vita di tutti gli esseri viventi. La poesia ha una struttura antitetica: la prima quartina parla del male, la seconda del bene o piuttosto della resistenza passiva al male. Vi è un'allusione all'esistenza di un dio, ma esso è distante, è l'Indifferenza. Secondo il poeta, l'indifferenza è l'unico modo per non soffrire, in quanto ci allontana, anche se solo per un attimo, dalla realtà.





Spesso il male di vivere ho incontrato
Eugenio Montale


Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.