martedì 30 dicembre 2014

La leggenda di Creekwall - Quarta parte

Ecco a voi la quarta parte della leggenda di Creekwall! Buona lettura e buone feste
Alvise




Dopo tre giorni di cammino, Ytan raggiunse le steppe di Xunomor, vaste e vaste pianure dove non crescevano alberi ma solo un mare d’erba verde, intervallato ad ampi spiazzi di nuda terra. C’erano silenzi sovrumani, in quel territorio, e gli unici uomini che Ytan incontrò erano i venditori itineranti, coi loro carretti trainati da vecchie giumente e pigri bardotti. Il messaggero avrebbe comprato volentieri qualcosa da mangiare da loro, ma non sapeva se i soldi nella sua bisaccia sarebbero bastati fino alla conclusione del suo viaggio. La sua era stata una partenza improvvisa, considerò, improvvisa e alquanto incosciente. Non era pronto, ma forse non si poteva mai essere pronti per una missione del genere.
Camminò intensamente per quasi una settimana, finché raggiunse Teuton, la città nella steppa: un imponente fortilizio in legno e pietra di fiume, con le tipiche case degli abitanti del nord, dai tetti bombati che assomigliavano a imbarcazioni rovesciate. Era una città semplice, abitata da gente semplice: pastori, fabbri e taglialegna. Nell’aria, un odore pungente di abete, acciaio bollente e carne alla brace.
Il messaggero venne accolto con calore e fu subito ricevuto da Vik il Buono, il re che aveva portato la pace tra i Teutongar e i giganti bianchi che vivevano sui crinali della montagne di Keltar. Vik ascoltò la storia del messaggero, e lui gli raccontò della pericolosa missione che gli era stata affidata, della lotta con la strega della torre e della terribile maledizione che gravava sulla sua città e i suoi regni vicini. Al termine, il buon sovrano gli offrì una stanza nel palazzo e un bagno caldo, che Ytan non rifiutò. Dopo essersi riposato, il ragazzo cenò insieme ai consiglieri nella Sala della Caccia, tra fiumi di birra, cosce di montone e funghi immersi in latte cagliato di renna.
A Teuton, Ytan si rifocillò e venne omaggiato con provviste e con il necessario per il prosieguo del suo viaggio, ma non ebbe alcuna informazione utile riguardo alla maledizione che affliggeva Creekwall, Lightgale, Firehall e Mightcastle. Tanto più che a Teuton, come a Modesty, l’esercito dei Silenti non si era mai fatto vedere. Così, all’alba del quarto giorno, ripartì ancora.
Si inoltrò per un sentierino che portava alle montagne, stretto in una calda pelliccia di renna comprata in una bancherella a Teuton. La neve era alta, gli arrivava quasi alla cintola. Non si sentiva quasi più i piedi e le mani, e sottili tagli gli laceravano il viso. Il vento lo scuoteva a sinistra e a destra, rischiando di farlo precipitare nei burroni e nei crepacci che ogni tanto si aprivano nella neve come bocche affamate. Nonostante tutto, dopo due giorni di marcia ininterrotta nella neve, Ytan si lasciò le montagne di Keltar alle spalle e, incolume, proseguì a ovest, spostandosi di poco verso sud.
Si trovò a passare in un territorio monotono, una landa erbosa color della cenere, dove crescevano cardi dalla tonalità sanguigna. Spirava un vento carico di oscuri presagi in quelle terre e per questo, quando sopraggiungeva la notte, Ytan si nascondeva nelle caverne o nelle tane lasciate libere dai cani randagi, e ripartiva solo quando il sole, facendo capolino all’orizzonte, zittiva gli angoscianti e malevoli rumori notturni.
Una notte di veglia, Ytan udì un frastuono infernale provenire dal cielo; si sporse oltre l’apertura del suo nascondiglio e fece in tempo a cogliere un guizzo infuocato tra le nubi nere: erano i cavalieri dei Silenti, che galoppavano furiosi in cerca di esseri viventi. Ytan si rannicchiò nella tana e chiuse gli occhi, finché il nitrito selvaggio e non-umano dei cavalli e dei loro cavalieri si estinse completamente; attese il sorgere del sole e ripartì, cercando di lasciare i brutti sogni in quel buco scavato nella terra.
Fu così che, ai primi giorni di maggio, il messaggero raggiunse finalmente la foresta di Kalimdar, il reame degli elfi. Ytan sapeva poco degli elfi e tutte le sue informazioni derivavano dalle leggende o dai resoconti dei fortunati viaggiatori che erano riusciti a passare incolumi nelle loro terre. Ytan sapeva che erano gente fiera, gelosa della propria tradizione. Sapeva che oltre un secolo prima erano scesi in guerra contro il regno di Tinsul, che avevano cercato di espugnare Solivann, la fortezza nella montagna, ma che avevano perso, e di questo non amavano parlare. Sapeva anche che erano immortali, ma che potevano comunque essere uccisi.
Ytan dunque raggiunse il limitare della foresta; in corrispondenza di un enorme sentiero, anzi una strada, che si inoltrava nel folto degli alberi, era stato eretto un possente cancello d’oro, presieduto ai lati da due statue gigantesche, così ben realizzate che sembravano respirare e scrutare. Erano Syman e Rilek, gli dèi che secondo i miti avevano creato, all’alba dei tempi, gli elfi.
Il cancello, nonostante fosse chiuso con un lucchetto incantato, aveva delle sbarre piuttosto distanziate tra loro e così il messaggero, anche se con un po’ di difficoltà, riuscì a passarci attraverso. Per una volta nella sua vita, fu entusiasta di essere così magro. Si inoltrò nel bosco, chiedendosi dove fossero i soldati a guardia del cancello. Come gli aveva suggerito il signore di Stormcrow, indossò il sole di Igreine in bella vista, al centro del petto.
L’aveva appena fatto, quando alcuni arbusti al lato del sentiero si spostarono e ne uscirono fuori dodici elfi: erano soldati vestiti con leggere armature di cuoio; non portavano elmi ma strisce di stoffa o coroncine di legno e d’argento. Avevano tutti e dodici un arco teso e una freccia incoccata.
«Come osi, straniero, oltrepassare il cancello di Syman e Rilek! Gli ordini sono di uccidere seduta stante chiunque si permetta di…» il soldato che aveva parlato si zittì non appena notò l’amuleto che Ytan sfoggiava sopra i vestiti.
«Dove lo hai preso, quello? È il simbolo della casata degli Urundar!»
«Mi fu donato da una donna, Igreine.» rispose il ragazzo. Gli elfi si guardarono a lungo tra loro, sui loro volti esili un’espressione di sorpresa e sgomento.
«Igreine? Allora non fu una… donna a donartelo, viaggiatore, ma la regina scomparsa degli elfi, l’ultima discendente degli Urundar che lasciò queste terre un secolo fa, quando Seretìl prese il potere.»
«Seretìl?» domandò Ytan.
«L’attuale re degli elfi. Sarà lui a giudicarti. E tu dovrai rispondere per quel sole.»
Detto questo, i dodici afferrarono il ragazzo e lo trascinarono per tutta la foresta. Con grande sorpresa di Ytan, gli alberi man mano si fecero più radi, finché, al centro del bosco, dove sorgeva la città degli elfi, scomparvero del tutto. Guardandosi attorno, il ragazzo notò che erano stati tagliati da lungo tempo, da almeno cinquant’anni. Si stupì non poco, perché aveva sempre sentito che gli elfi avevano un legame speciale con gli alberi e mai e poi mai li avrebbero tagliati indiscriminatamente, solo per costruire palazzi e castelli nel cuore della foresta. Ma così era e allora Ytan cominciò a capire come mai Igreine, l’ultima degli Urundar, avesse deciso di fuggire e nascondersi tra gli umani, lontano dalla foresta che gli elfi avevano tradito.
Seretìl li attendeva in un palazzo sontuoso, costruito con legno, marmo e oro. E anche qui le leggende discordavano: gli elfi avevano sempre costruito sugli alberi le loro case, tra le fronde delle piante più antiche e possenti. Adesso invece sorgevano sulla nuda terra, come le città umane. E, esattamente come le città umane, anche quella degli elfi mostrava in modo lampante le differenze sociali dei suoi abitanti: c’erano case più piccole e più modeste, altre ancora più miserevoli, mentre altre erano così grandi e dorate che abbacinavano gli occhi. E anche questo era strano, perché Ytan aveva sempre sentito dire che tra elfo ed elfo non c’erano differenze di ceto o di importanza. Anche il re stesso, in fondo, veniva eletto come guida dall’assemblea dei cittadini. Come mai ora era tutto così cambiato?
Seretìl era esattamente come Ytan se lo era immaginato: alto e orgoglioso, con lunghi capelli color miele e un viso affilato, come una punta di freccia. Lo attendeva al culmine di una scalinata, assiso sopra un trono di pietra abbellito da smeraldi e zaffiri. I suoi occhi dardeggiavano fuoco e per un istante, Ytan rivide in quegli occhi gli zoccoli infuocati dei cavalli non-morti.
«Dove, dove hai preso quel SOLE?» ruggì il re, facendo scuotere le cime degli alberi e fuggire uno stuolo di corvi terrorizzati.
«Mi fu donato da Igreine, regina degli elfi.» rispose Ytan fieramente, cercando di non mostrare la sua paura. Non appena udì quel nome, Seretìl si abbandonò senza forze sui cuscini di broccato.
«Igreine – mormorò – la mia amata moglie scomparsa…»
«Moglie?» domandò il ragazzo, incredulo. Gli occhi di Seretìl dardeggiarono.
«Sono io che pongo le domande qui, mortale! Sì, io fui il secondo marito di Igreine. Dopo la morte di Kaladrim, ucciso nella guerra contro Solivann, Igreine sposò ME! Ma non era felice, oh no. Lei non….capiva! Avevamo perso contro gli umani perché eravamo un popolo debole, dovevamo far qualcosa per rafforzarci. E la soluzione era qui, attorno a noi – e il re indicò gli alberi – Prendevamo dalla natura solo lo stretto necessario, vivevamo fra gli alberi come scimmie… Disgustoso! Ma io avevo altre idee e il popolo le appoggiò. Dovevamo usare la natura per diventare forti come eravamo un tempo, elevare la razza degli elfi sopra tutte le altre! Da lunghi anni, nel cuore della foresta, costruiamo armi per invadere i territori degli uomini: baliste, catapulte, trabucchi… Scaviamo nel suolo della foresta, giù, nelle viscere della terra, in cerca di metalli per costruire più spade e lance ed elmi, e quando saremo pronti vi invaderemo e vi piegheremo! – il re sospirò – ma Igreine non lo voleva. Una notte partì di nascosto e da quel giorno non ho più sue notizie. Ma ora TU mi dirai dove si trova! Dimmelo!»
Ytan scosse la testa con veemenza.
«Non te lo dirò. Sei un tiranno, Seretìl, e il tuo odio ha mutato gli elfi in mercenari assetati di vendetta. Morirò, piuttosto che rivelarti dove si trova Igreine né ti dirò che cosa mi ha portato qui, nel reame degli elfi.»
«Allora morirai. Portelo nelle prigioni e, se fra una settimana non avrà confessato, lo appenderemo nella pubblica piazza!»
Immediatamente, Ytan fu sollevato dalle guardie e trascinato via dalla sala del trono. Gli occhi del tiranno non lo lasciarono mai e il ragazzo vi vide così tanto odio e malvagità e sete di potere, che si domandò se Seretìl non fosse caduto preda di un incantesimo ordito dalle forze del male, un incantesimo che prendeva forza dal cuore nero e pulsante dei Silenti.
Fu rinchiuso in una cella scavata nel profondo della roccia. Era così bassa che il ragazzo poteva stare soltanto disteso e tra la sua fronte e il soffitto c’erano solo due spanne. Ytan scoppiò in lacrime. Era così che doveva andare? Aveva dunque fallito? Sarebbe stato ucciso per la sete di vendetta di un popolo senza più valori? I regni degli uomini sarebbero stati spazzati via? Senza risposte, il ragazzo alla fine si addormentò e passò la sua prima notte da prigioniero.

Una notte cupa era scesa sulla foresta Kalimdar.

martedì 23 dicembre 2014

Buon Natale!

Quale modo migliore per augurare un Buon Natale se non una poesia dedicata alla neve? Dal più profondo del cuore vi auguro un Natale pieno di gioia e… di buone letture
Alvise Brugnolo



Scintillio di ghiaccio
Di luna un raggio
Sulle porte delle case
Su tetti, comignoli e cimase
Un velo bianco scende
Su ogni cosa s’appende

Le finestre risplendono
Gli occhi luccicano
Le voci risuonano
I sorrisi lodano

Che fai ancora in casa, bambino?
Esci, e porta lo slittino.

Nevica.

mercoledì 17 dicembre 2014

La leggenda di Creekwall - Terza parte

Ecco a voi la terza parte de "La leggenda di Creekwall". Il viaggio di Ytan si fa sempre più difficile mentre si avvicina a Stormcrow, una cittadina buia e nebbiosa. Riuscirà il male a ostacolare il nostro eroe nella sua ricerca? Leggete e lo saprete!
Alvise Brugnolo




Ytan giunse a Stormcrow mentre il sole, ridotto ad una sfera infuocata, crollava dietro le colline. Se, in quel momento, il messaggero si fosse trovato a Firehall, probabilmente avrebbe assistito ad uno dei tramonti più suggestivi da un secolo a quella parte. Ma si trovava a Stormcrow e lì, a Stormcrow, il tramonto era un tramonto come tutti gli altri.
Non appena il sole raggiunse la linea dell’orizzonte e il cielo si tinse di blu scuro, un vento gelato cominciò a spirare da oltre le colline, silenzioso e come morto; forse proveniva delle steppe di Xunomor o dalle catene montuose che circondavano Teuton, ma Ytan aveva la sensazione che crescesse proprio lì, da qualche parte nei campi giallo-grigio che si stendevano sotto i suoi occhi, in parte confusi dalla nebbia azzurrina della quale il sole, ormai quasi del tutto sparito, non era più in grado di contenere l’avanzata. Ecco Stormcrow! Tetti grigi, strade polverose, alberi ossuti e macilenti, tesi verso il cielo notturno come coscienze di moribondi.
Ytan arrivò da nordest e, per prima cosa, vide gli spaventapasseri. Stavano ritti come condannati, il loro unico piede-bastone infilato nella terra come una lapide nella terra marcia di un cimitero sconsacrato. Se quelle che avevano al posto della testa erano state davvero zucche, avevano smesso di esserlo da molto, molto tempo: sembravano teste vere, teste mostruose, con facce livide, ringhianti e deformate. Chiunque le avesse scolpite e incise con il coltello doveva essere un pazzo o un uomo malvagio o tutt’e due.
Dopo essersi guardato in giro con circospezione, Ytan si fece coraggio ed entrò in città. Stormcrow non era una brutta cittadina: aveva una piazza principale molto grande, con una fontana maestosa (raffigurava Sir Gorlock, il fondatore della città, un soldato serio e arcigno, con due baffoni a becco d’uccello che gli incorniciavano il volto); aveva lunghi viali alberati ed eleganti case in legno, con porte di ferro battuto e giardini privati ricchi di piante e fiori notturni. C’era tuttavia un’atmosfera tesa, una specie di elettricità che si avvertiva nell’aria, un freddo che si insinuava sottilmente dentro le ossa. Come se, dietro a tutte quelle belle case, ci fosse un mondo nascosto e pericoloso.
 Ytan si chiese se era questo che Igreine intendeva quando aveva detto di non lasciarsi ingannare dalle astuzie del male. Poteva essere che a Stormcrow ci abitasse qualcosa di malvagio? Qualcosa di invisibile ma tuttavia presente, nelle ombre delle strade, nelle profondità del suolo, nel cielo nero e nebuloso?
Su, messaggero, si disse Ytan, non lasciarti spaventare dagli spaventapasseri! Non sei un corvo.
Lievemente confortato dalle sue stesse parole, il ragazzo si diresse verso una piccola locanda, la cui luce, nell’oscurità della cittadina, brillava come un invito. Bussò, apri la porta, si tolse il fango dagli stivali ed entrò.
La locanda era davvero accogliente: un ambiente basso, caldo, con travi a vista, mobili in legno scuro e pentole di rame appese alle pareti. Sull’arco della porta c’era un rametto di aconito. Il locandiere, un uomo tarchiato e rubicondo, gli venne incontro con fare affabile. A Ytan piacque subito: aveva un sorriso accogliente, amichevole. Ne fu conquistato e, se aveva dubitato della bontà di Stormcrow, quei dubbi si volatilizzarono insieme al profumo di tisana che saliva da un calderone sospeso sul caminetto.
«Benvenuto a Stormcrow, straniero – esclamò il locandiere – e benvenuto nella mia umile locanda.»
«Salve, buonuomo. Mi saprebbe indicare la casa del signore di Stormcrow? So che l’ora non è la più adatta, ma ho urgenza di parlare con lui. Sono in missione per conto di Creekwall.»
«Il signore di Stormcrow starà sicuramente dormendo a quest’ora. Riposatevi e trascorrete la notte qui, abbiamo stanze comodissime. E domani, quando sarà sorto il sole, potrete parlare con il nostro signore in tutta comodità.»
E Ytan, stanco dal viaggio e solleticato dalla fragranza della tisana, decise di accettare di buon grado l’invito. Si sedette ad un tavolo e il locandiere, in un batter d’occhio, gli aveva già portato una succulenta bistecca di maiale, una zuppa di ortaggi freschi e una tazza bollente di tisana. Ytan, visto il freddo che gli si era attaccato alle ossa, si affrettò a berla. Era buonissima, con un retrogusto di arancia e cannella. Il locandiere, con quel sorriso fisso, continuava a guardarlo da un angolo del tavolo e nel farlo tamburellava le dita sulla superficie di legno.
«Buonuomo – gli si rivolse Ytan, che, nonostante la stanchezza e la fame non si era dimenticato affatto della sua missione – mi sapete dire se anche Stormcrow è stata colpita, negli ultimi dieci anni, da una terribile maledizione, la maledizione dei Silenti?»
«Ragazzo caro. Caro ragazzo – mormorò l’ometto, alzandosi e facendosi avanti – non sono cose di cui un uomo mortale dovrebbe immischiarsi. Sono cose di magia nera, sì, nera… anzi nerissima…»
«Lo so bene, ma io sono in missione per conto di…»
«…Così nera che un semplice mortale non dovrebbe neppure indagare su queste cose, oh no. La luce non dovrebbe avventurarsi nei luoghi bui, nelle cantine, nei seminterrati, nelle valli della morte, oh no, caro ragazzo, hai commesso un grave errore ad avventurarti nei campi di Stormcrow, soprattutto a quest’ora di notte.»
«Ma che state dicendo?» mormorò il ragazzo. E, ad un tratto, si accorse che i suoi occhi si facevano sempre più pesanti, sempre più stanchi e brucianti. Allora capì, capì che non solo la locanda, ma tutta Stormcrow erano una trappola.
«Che mi hai… dato da… bere?» sussurrò. Cercò di alzarsi, ma le gambe gli cedettero. Rovesciò il tavolo e finì a terra, dove le ombre dell’oblio lentamente lo sopraffecero.
L’ultima cosa che vide prima di addormentarsi fu il viso beffardo e astuto del locandiere, che gli si avvicinava quatto quatto, come un verme in cerca di un pertugio su una bara.

Quando Ytan si svegliò, si accorse che tutto si era fatto buio. Un buio denso, un buio fitto, un buio come se non ci fosse più nulla attorno. C’era tuttavia un suono, come un frullare d’ali, un gracchiare lontano. Le voci dei corvi. Ytan cercò di parlare e… si rese conto di avere un becco. Cercò di muovere le braccia ma erano diventate ali. Mandò un grido ma tutto quello che gli uscì fu uno strillo da uccello. Era un corvo, uno di quei dannati corvi che volavano in circolo sopra Stormcrow. Aprì gli occhi e vide sotto di sé i campi del villaggio e, più sotto, gli spaventapasseri coi loro cappelli, i loro vestiti sdruciti e i loro ghigni sadici. Solo in quel momento si accorse che erano sistemati in modo da formare una figura geometrica, una stelle a sette punte: un pentacolo antico, creato per intrappolare le anime degli abitanti di Stormcrow, tramutati in corvo da chissà quanti anni o secoli e costretti a volare nella prigione arcana eretta dagli spaventapasseri.
E Ytan, Ytan si era fatto intrappolare come un stupido. La sua missione era fallita miseramente ancora prima di avvicinarsi anche di poco alla sua risoluzione. Ho tradito Creekwall, si disse il ragazzo, avevano riposto le loro speranze in me e io li ho condannati. Preso dallo sconforto, chiuse gli occhi e tutto attorno si fece buio. Un buio che era un buio dell’anima.
Fu lì, in quel buio soffocante, che si ricordò delle parole di Igreine: E, nel momento in cui tutto sarà buio e il sole sembrerà non essere mai esistito, ricordati che ti ho dato questo
Il sole! Il sole di legno! Ytan lo cercò. Eppure non era lì, non poteva essere lì, perché lui non era più nel suo corpo ma in quello di un uccellaccio nero che si librava maldestramente attorno ai cieli di Stormcrow, intrappolato nel pentacolo degli spaventapasseri. Non poteva no, non poteva avercelo ancora, il sole di Igraine. Eppure… strinse le zampe. Scoprì che erano diventate mani, erano tornate mani. E quelle mani tenevano il sole di legno. Capì che la sua anima era intrappolata nel corpo del corvo ma, nonostante tutto, ancora manteneva un fragile legame con il suo vero corpo; il corpo di un ragazzo di diciotto anni, occupato in quel momento da una coscienza estranea che tuttavia si faceva sempre più debole. Sentì che il sole si scaldava nelle sue mani. Non poteva vedere quanto stava accadendo, certo che no, ma lo percepiva: era come se una luce sfolgorante si facesse largo nelle tenebre; le ombre si ritraevano ad essa, fino a condensarsi in un puntolino minuscolo, impotenti e senza più controllo. Ed ecco che il mondo tornò a farsi chiaro. Ytan smise di essere un corvo; la sua anima, ancora separata dal corpo, seguì la luce che si era nel frattempo formata nelle tenebre: era quella del sole di Igreine. La luce lo precedeva, illuminando le tenebre della maledizione. E Ytan, mentre camminava in quel tunnel oscuro, si accorse che era il lungo corridoio di un castello o di una torre. E, nel passare di fronte ad una porta aperta, vide che, seduta su un vecchio trono di legno, c’era una mummia, che lo fissava coi suoi occhi svuotati, un sorriso malefico a incresparle il volto. Era morta, ma allo stesso tempo viva, più viva di molti altri uomini.
«Resta qui, messaggero – disse ad un tratto la mummia, artigliando l’aria con le sue dita rattrappite – resta qui con me nella mia torre. Dimentica l’esercito dei Silenti e resta qui. Per sempre.»
Allora il messaggero capì che l’artefice della maledizione di Stormcrow era la principessa che si trovava nella torre di Mightcastle. Non era davvero una principessa, ma una malvagia strega, chiusa lì dentro dagli abitanti perché non potesse più nuocere. Con il tempo la leggenda era andata perduta, della strega nessuno si ricordava più. Eppure lei, nella morte, aveva acquisito maggior potere. La sua ombra si era stesa fino a toccare la pacifica cittadina di Stormcrow. Si era impossessata degli spaventapasseri, li aveva animati con la sua magia nera; lentamente, nelle teste svuotate di quegli esseri era germogliata un’intelligenza malvagia. Si erano accordati con la strega: loro si sarebbero accontentati dei corpi degli abitanti, li avrebbero occupati per poter diventare esseri viventi a tutti gli effetti; a lei invece sarebbero andate le anime degli uomini, intrappolate nei corvi perché non potessero fuggire o stabilire un nuovo legame coi loro vecchi corpi.  Ecco il segreto di Stormcrow!
«Non oserai fermarmi – gridò Ytan, rivolto alla mummia – io sono in missione per Creekwall!»
Allora la mummia si alzò dal trono e gli venne incontro, un passo alla volta, mentre il suo vestito, vecchio di secoli, cadeva a pezzi, mostrando la pelle dura come cuoio che vi stava sotto. Ytan ebbe paura, una paura folle, ma la luce, percependo il suo terrore, si fece ancora più forte. Un grido si levò allora nel buio della torre; la mummia cercò di avanzare, ma per ogni passo che compiva un lembo della sue essenza veniva trascinato via, veniva consumato dalla luce che usciva dal sole di Igreine. Ridotta ad uno scheletro infuocato, la strega si accartocciò su se stessa e sparì in un lampo di luce rossa. Nello stesso istante, la torre di Mightcastle tremò, si fessurò e crollò. L’incantesimo di Stormcrow era sciolto: i corvi tornarono ad essere corvi, gli spaventapasseri semplici spaventapasseri, gli uomini di nuovo uomini.
Ytan si risvegliò nel suo corpo. Si trovava al centro della piazza, all’ombra della statua di Sir Gorlock. Il sole era appena sorto e la nebbia, se c’era stata, era totalmente scomparsa. La maledizione della strega, finalmente, era rotta. Ytan si rialzò, fra le mani il sole di Igreine, che era tornato ad essere un semplice oggetto di legno. O forse lo era sempre stato?
Che abbia sognato tutto quanto? si disse il ragazzo, frastornato. Ma ecco che gli abitanti, i veri abitanti, uscirono dalle case, ululando di gioia al nuovo giorno.
«Viva lo straniero! – gridavano – viva il liberatore!»
Si fece avanti il signore di Stormcrow, un vecchio dall’aria saggia, con lunghi capelli bianchi.
«Quattrocento anni, quattrocento anni intrappolati qui. E poi sei arrivato tu, straniero. Ci hai ridato la libertà e ora potremo riprendere le nostre vite dove le avevamo lasciate.»
Ytan chinò la testa in segno di rispetto. Il vecchio si avvicinò ancora e lo abbracciò.
«Ma questo è un oggetto elfico – disse, non appena vide il sole di Igreine fra le mani del messaggero – dove lo hai preso, straniero? Porta impresso il simbolo della casata degli Urundar, gli elfi del reame oltre Keltar. Una casata scomparsa da almeno un secolo. Dove l’hai trovato?»
E Ytan, non volendo rivelare l’identità di Igreine, disse di averlo trovato in un campo lì vicino. Il vecchio, intuendo i sentimenti del ragazzo, non chiese più nulla.
Il resto del giorno trascorse all’insegna del divertimento: si fece una gran festa, con spiedi, litri di birra e canti. Ytan rise e ballò insieme agli altri, ma la sua mente era occupata dalla missione che doveva compiere. Non aveva molti motivi per gioire, visto il viaggio che lo attendeva.
Verso sera il messaggero si congedò e si recò nella stanza che il signore di Stormcrow, che di nome faceva Guldar, gli aveva preparato nel palazzo. Trovò il vecchio che lo aspettava seduto nella sala del caminetto.
«Se fossi in te, messaggero, andrei a trovare gli elfi. Non sono che un’ombra del popolo che erano un tempo, ma fra loro ci sarà sicuramente chi ti saprà dare un consiglio per la tua maledizione. Non amano gli stranieri e molto spesso li uccidono, ma tu che porti il sole degli Urundar avrai più possibilità di avvicinarli.» detto questo, augurò la buonanotte al suo ospite e sparì. Ytan raggiunse la sua alcova, spense la candela e si addormentò.
Dormì saporitamente e ripartì all’alba del giorno successivo, lasciandosi una Stormcrow esultante alle spalle.

Il sole illuminava pigramente la campagna, trasformando la rugiada mattutina in uno scintillio di cristalli. 

lunedì 15 dicembre 2014

La leggenda di Creekwall - Seconda parte

Seconda parte de "La leggenda di Creekwall". Buona lettura
Alvise Brugnolo

La leggenda di Creekwall - seconda parte - 20lines



Per prima cosa, Ytan avrebbe superato i cinque villaggi che sorgevano nelle campagne di Creekwall, l’uno distanziato dall’altro un paio di leghe. Erano Lightgale, Firehall, Mightcastle, Modesty e Stormcrow.
Lightgale aveva le aurore più belle di tutta la regione: quando il sole sbucava dalle colline, il campanile di Lightgale, che era dorato, brillava come una stella. Da lì il nome del villaggio.
Firehall, similmente, aveva i tramonti più incantevoli che si fossero mai visti: quando il sole andava a dormire oltre le colline, i muri delle case e dei palazzi, che erano in pietra rosa di fiume, sembravano prendere fuoco per davvero. Da lì il suo nome.
Mightcastle portava i resti di una civiltà ormai scomparsa: un unico torrione pericolante che, nonostante le pietre erose alla sua base, riusciva ancora a resistere alle ingiurie del vento. Si diceva che in quella torre avesse dimorato una bellissima principessa, rinchiusasi là dentro per fuggire ad un malvagio pretendente. Si diceva anche che la sua mummia fosse ancora lì, ma, per quanto potesse sembrare strano o assurdo, la torre non aveva porte e per di più, nella parte più alta, i muri della costruzione si facevano incredibilmente lisci, vanificando qualsiasi tentativo di scalata. Mightcastle prendeva il nome proprio da quella torre.
Modesty, rispetto agli altri villaggi, non aveva nulla di straordinario o di caratteristico, tranne forse uno dei falegnami più bravi del regno: sapeva creare bellissime statue di legno partendo da un semplice tronco d’albero e la sua fantasia, si diceva, non aveva limiti. Il suo talento, comunque, non era sufficiente a rendere Modesty un luogo da ricordare. Dalla sua umiltà, Modesty traeva il suo nome.
Infine c’era Stormcrow.
Stormcrow era famosa per i suoi campi di zucche e per i suoi spaventapasseri, così realistici da sembrare vivi. Le loro teste, davvero mostruose, erano ricavate dalle zucche dell’anno prima, essiccate sopra il camino, svuotate e poi incise con un coltello. I corvi, terrorizzati da quei guardiani spettrali, non atterravano mai su Stormcrow e pertanto se ne restavano in aria, a girare in circolo sopra il villaggio. Dai corvi che volavano a spirale nei cieli tersi della campagna, Stormcrow prendeva il suo nome.
Ytan dunque si trovò a passare attraverso tutti questi villaggi. In Lightgale e Firehall venne completamente ignorato, e per questo motivo non si fermò. Comunque, visto che il suo compito lo richiedeva, domandò ai cittadini più in vista se conoscevano una soluzione alla tragedia di Creekwall. Gli risposero che no, non lo conoscevano e che anzi, loro stessi erano stati colpiti dalla maledizione dell’esercito dei Silenti. Fu così che Ytan scoprì che non solo Creekwall era stata maledetta, ma tutta l’intera regione. O quasi.
A Lightgale, Ytan acquistò una pasta alla marmellata di fichi dal panettiere che stava sulla piazza principale, mentre a Firehall, in una locanda buia e unta nascosta in un vicoletto, trangugiò una birra scura dal retrogusto di mirtillo. Dopodiché ricominciò il suo viaggio, dirigendosi verso Mightcastle.
Per prima cosa vide la torre. Era davvero spettrale con le sue guglie e le sue tegole nere e i suoi tre comignoli tozzi e contorti, che sembravano dita slogate dai ceppi di un torturatore.
A Mightcastle, comunque, non andò molto diversamente che a Lightgale o a Firehall. Nessuno parve accorgersi di Ytan e nessuno si interessò al suo viaggio. Il ragazzo domandò e non ottenne nulla di significativo. Venne soltanto a sapere che dalla torre, durante la notte, provenivano dei lamenti terribili, come un pianto, solo che pieno d’odio e rabbia e malinconia. Tuttavia, siccome accadeva tutte le notti e non soltanto in quella di capodanno, Ytan dedusse che con l’esercito dei Silenti la torre non avesse niente a che fare. Fu un piccolo errore, ma di questo non dovete preoccuparvi: Ytan aveva molti amici invisibili che lo seguivano e che avrebbero diretto i suoi passi nella giusta direzione, su questo potete esserne certi.
A Mightcastle, Ytan acquistò una striscia di carne secca, che gli diede un po’ di energia. Riposò qualche minuto su una panchina di pietra e si mise ad osservare la torre. Gli vennero i brividi, perciò, non appena le sue gambe si furono riposate abbastanza, si rialzò e continuò il suo viaggio. Era passato mezzogiorno da un pezzo e il sole stava perdendo forza; un venticello primaverile carico di buone speranze volteggiava fra le colline. Sembrava che cantasse non so quale melodia.
Finalmente, Ytan raggiunse Modesty. Non c’erano torri, né campanili, né bei castelli, e il messaggero ne fu felice: aveva bisogno di un luogo semplice dove riposare gli occhi e il cuore, un luogo che lo cullasse in un caldo abbraccio fraterno. Non a caso, non appena entrò dalla porta principale, un semplice arco di pietra sul quale cresceva un roseto molto antico, il ragazzo venne salutato con gioia da tutti gli abitanti, che gli corsero incontro, come se non lo vedessero da tanto tempo; gli chiesero se aveva riposato, se aveva mangiato, se stava bene e se si sentiva in forze. Lo ricoprirono di attenzioni sincere, di carezze e di pacche sulle spalle. Fu portato, in mezzo al furore generale, nella sala del governatore. Non era che una casupola, in verità, una casupola modesta e che tuttavia aveva una sua dignità. Il governatore era un uomo semplice, né giovane né vecchio, vestito in modo che non si distinguesse dagli altri cittadini. Ytan si sedette alla sua scrivania e iniziò a parlare. Parlarono, parlarono e parlarono, e furono interrotti solo dall’arrivo del cuoco, che portò loro spezzatino di cinghiale con contorno di patate novelle al burro, fette di pane abbrustolito con cipolle confit e budino di semolino con l’uvetta, una delle specialità locali. Finito di mangiare, ricominciarono a parlare e così Ytan scoprì che la maledizione, a Modesty, non era mai arrivata.
«Per quale motivo?» domandò, speranzoso che il suo viaggio potesse finire così presto. Ma il governatore, dispiaciutissimo, gli disse che non sapeva bene il perché. Questo era quanto. Finirono il budino, dopodiché Ytan decise che era ora di andare. Strinse la mano al governatore e raggiunse la via principale. Gli abitanti lo salutavano dalle finestre della case, agitando fazzoletti e lanciandogli petali di rosa. Qualcuno suonava tristi note con un mandolino, altri con un violino, altri ancora con un fagotto.
Ytan camminava piano e spesso si voltava indietro; era deluso, ma allo stesso tempo felice di essere stato accolto con così tanta bontà. Salutò tutti quanti con un gesto della mano, mentre un bel sorriso si faceva largo sul suo viso magro e gentile. Uscì dalle porte della città a metà pomeriggio, mentre il sole cominciava a scendere verso le colline come una palla diretta verso il suolo, e si incamminò verso Stormcrow, l’ultimo villaggio prima dei confini del regno.

Il suo viaggio, però, fu interrotto da un evento inatteso.
Aveva appena raggiunto le indicazioni per raggiungere Stormcrow (un palo con una freccia di legno che indicava la direzione da seguire), quando udì un lamento salire da un fossato.
Che sarà mai? pensò il ragazzo, avvicinandosi circospetto. Si sporse, stando ben attento a non scivolare sul fango che si trovava ai lati nel sentiero. E lì, nell’acqua stagnante e profonda del fosso, vide che c’era una giovane donna, che stava rischiando di annegare. Era bellissima, con capelli color del fuoco e occhi come di cristallo. Accanto a lei, in bilico su un masso, c’era uno spiritello dell’acqua. Aveva la pelle verdastra, coperta di foruncoli e bolle. Sembrava un rospo, solo che aveva il viso di un neonato e un paio di occhietti malvagi e cisposi. Sulla sommità della testa aveva un bocca piccola e storta, attraverso la quale si intravvedevano dei denti gialli e aguzzi; lo spiritello li digrignava con odio, producendo un rumore davvero sinistro e raccapricciante.
«Aiuto!» gridava la ragazza, cercando di aggrapparsi al masso, ma il mostriciattolo, puntualmente, le schiacciava le dita con le sue zampacce da rana, costringendola a lasciare la presa e a finire di nuovo sott’acqua. Ancora qualche minuto e la giovane sarebbe annegata in quel rigagnolo sporco e fangoso.
Ytan non perse tempo: sapeva esattamente come comportarsi con uno spiritello del fiume. Suo padre gli raccontava sempre che quei dispettosi e malevoli abitanti delle acque temevano più di ogni altra cosa il fuoco: se si seccavano troppo, infatti, evaporavano come neve al sole.
Accadde tutto in un attimo: estratto l’acciarino dalla sua bisaccia, Ytan lo usò per appiccare il fuoco ad un ramoscello appuntito. Dopodiché, vibrando il ramo come una lancia, punzecchiò lo spiritello sulla schiena.
Quest’ultimo, strillando come un porcello, digrignò i denti e si tuffò nell’acqua, sparendo in un guizzo di bolle. Così la ragazza poté avvinghiarsi al masso e, usandolo come un appiglio, lanciarsi verso la riva. Ytan la aiutò a salire.
«Grazie, straniero. Mi hai salvata!» mormorò la ragazza, tutta tremante per la paura e per il freddo. In quel mentre una vocetta stridula salì dal rigagnolo. Era lo spiritello.
«Inutile messaggero! Il tuo viaggio è destinato all’insuccesso. Più avanti ti aspetta l’oscurità. Ti inghiottirà e sputerà le tue ossa!» detto questo, dopo una risata lugubre e oscura, l’essere si inabissò nel rigagnolo e sparì. Ytan corrugò la fronte. Che cosa intendeva dire quel maledetto diavolo? Un brivido freddo gli scese lungo la schiena: era il fiato della paura. Ma ecco che la ragazza gli si avvicinò:
«Non preoccuparti, messaggero.» mormorò, con voce soave e cristallina.
«Tu sai chi sono?» domandò incredulo il ragazzo.
«Sì, e so quali pericoli ti troverai ad affrontare. Non avere paura: riuscirai nell’impresa, ma solo se terrai gli occhi ben aperti e non ti farai ingannare dalle astuzie del male. E, nel momento in cui tutto sarà buio e il sole sembrerà non essere mai esistito, ricordati che ti ho dato questo…» detto questo, dopo aver frugato nelle sue vesti bagnate e sporche di fango, la fanciulla estrasse una piccola scultura di legno, raffigurante un sole, e la depose nelle mani insicure di Ytan. Lui la osservò con attenzione. Era solo una scultura, ben fatta, questo sì, ma niente di più.
«Ti ringrazio per questo… dono.» mormorò il ragazzo, sempre più annichilito dalla bellezza di colei che gli stava davanti. «Ma tu chi sei?»
«Sono Igreine, la moglie dello scultore di Modesty.» esclamò la fanciulla e, dopo aver chinato la testa in segno di rispetto, voltò le spalle a Ytan e si incamminò lungo la via per il villaggio di Modesty.
Il messaggero, con il cuore in tumulto, prese la strada opposta, quella che portava a Stormcrow.

Il sole, nel frattempo, era sempre più basso e morente.

sabato 13 dicembre 2014

La leggenda di Creekwall - Prima parte

Ecco la prima parte di un racconto fantasy ispirato alla leggenda della Caccia Selvaggia: un corteo di esseri mitologici che, nei racconti del folclore nordeuropeo, scende dal cielo per rapire e uccidere i mortali. La seconda parte arriverà a breve... Buona lettura
Alvise Brugnolo




Quella di Creekwall poteva sembrare una cittadina come tante altre. Aveva un po’ di storia dietro di sé e ciò era testimoniato dal grande castello che sovrastava le campagne circostanti; le sue torri, che culminavano con tetti di ardesia azzurra, erano il vanto degli abitanti, che le chiamavano affettuosamente “le Belle”. Leghe e leghe di campi coltivati circondavano le mura cittadine; vi crescevano spighe di grano dorato, piante di soia color del limone e lunghi filari di viti. Erano una meraviglia a vedersi. I frutteti, che si sviluppavano a ridosso dei campi e lungo l’ansa del fiume, non erano da meno. Producevano mele in abbondanza e pere e pesche e albicocche in gran quantità. A luglio, quando i frutti erano abbastanza maturi da essere raccolti, tutta Creekwall si riempiva di canti: le donne uscivano in processione, vestite di rosso, giallo o azzurro, e dietro di loro venivano gli uomini, che suonavano liuti, flauti e ocarine. Insieme cantavano. La raccolta durava diversi giorni, giorni di musica, danze e preghiere. I bambini aiutavano come potevano, ma spesso trascuravano le loro mansioni per mettersi a giocare e a fare il girotondo in mezzo alle spighe. Conclusi i giorni della raccolta, si organizzava una grande festa, una festa davvero portentosa se paragonata alle dimensioni relativamente modeste di quel borgo. Venivano montati degli enormi tendoni e, accanto a questi, una miriade di gazebi di legno chiaro, con colonnine scolpite a guisa di fiori, piante e pavoni. Nei tendoni ci si poteva sedere (c’erano lunghi tavoli in legno di quercia e numerosissimi tronchi di rovere, che fungevano da sgabelli) mentre i cuochi che provenivano dai regni vicini preparavano, davanti agli occhi dei presenti, squisiti manicaretti: zuppa di funghi di Luna (erano funghi di color acquamarina, che crescevano a ridosso della foresta degli Elfi e, una volta cotti, brillavano), costolette di maiale al miele e cannella, piccioni ripieni di castagne e mirtilli di bosco, e per finire torte di tutti i gusti possibili ed immaginabili (la preferita dagli abitanti, comunque, restava quella con crema al cioccolato e granella di pistacchio).
Da fuori venivano anche gli stranieri con i loro carrozzoni: erano abili prestigiatori, agili saltimbanchi, mirabili danzatori e musicanti di professione; portavano con loro orsi addestrati, che ballavano attorno al fuoco al ritmo della tarantella. Il grande falò che veniva acceso dentro le mura di Creekwall, al centro esatto della piazza principale, dove le strade si congiungevano in uno spiazzo circolare e sabbioso, serviva per propiziarsi la benevolenza degli dèi: si pregava che l’inverno fosse breve e mite, e che il gelo risparmiasse la vita dei bambini. In questo, Creekwall assomigliava molto a Teuton, una città della steppa che distava una ventina di leghe, i cui inverni erano, ahimé, diventati proverbiali. Eppure, a Creekwall le preghiere erano più intense che a Teuton. Perché mai, vi chiederete? È presto detto.
Ad occhi stranieri Creekwall appariva davvero come il luogo perfetto dove dimorare. Ma c’era quella cosa di cui nessuno parlava volentieri. Accadeva l’ultima notte dell’anno, quando tutta la città, spenti i lumi, era immersa nel sonno. Un vento rabbioso iniziava a spirare per le contrade, lungo le vie, fra i ponti sul fiume e fra gli interstizi delle tegole di ardesia. Serpeggiava fra i colonnati di Piazza dei Duchi, stridendo indiavolata attraverso i doccioni, le bocche dei quali, irte di zanne, erano perennemente aperte.
Il vento annunciava il suo arrivo.
L’arrivo dell’esercito dei Silenti. Scendeva dal cielo in una torma impetuosa: una moltitudine impressionante di soldati muti e ciechi, a cavallo di destrieri di fiamma che scalpitavano su un oceano di scintille. Erano guerrieri provenienti dal regno dei morti, usciti dai meandri infernali a caccia di giovani vite per il loro esercito silenzioso. Chi sarebbe stato lo sfortunato scelto per ingrossare le file di quell’esercito di mostri, questo era impossibile saperlo. L’unica cosa certa, era che, il mattino del primo giorno dell’anno, quando tutta la città si riuniva al centro della piazza, qualcuno mancava all’appello. Sempre. E a volte erano più di uno.
Era una maledizione, una terribile maledizione e, per quanto gli abitanti cercassero di porvi rimedio, niente di quello che potevano escogitare serviva a qualcosa: le mura non impedivano ai morti di passare e nemmeno le porte delle case, né le sentinelle messe a presidio dei cancelli. Chi scorgeva l’esercito dei Silenti finiva infatti per impazzire, perché, fra i soldati non-morti di quella masnada infernale, riconosceva sempre i volti di chi aveva amato.

Un giorno, stanco di quella situazione, il re di Creekwall riunì il gran consiglio nella sala più ampia del castello.
«Ministri, baroni e consiglieri – disse – è tempo di reagire. Non possiamo più permetterci di nasconderci come topi, augurandoci di non essere i prossimi. È un atteggiamento egoista. Ci sarà pure un modo per annullare questa maledizione. E noi lo troveremo.»
«E come, maestà?» rumoreggiarono i consiglieri.
«Sceglieremo a caso, fra gli abitanti, un messaggero. Avrà il compito di viaggiare in giro per il regno, di città in città, montagna dopo montagna, fiume dopo fiume, in cerca di una soluzione e, non appena l’avrà trovata, ce la porterà.»
I ministri annuirono, e così fu deciso.
In un mattino di primavera, il re radunò il popolo nella piazza del focolare. I nomi di ciascun abitante erano stati scritti su pezzi di pergamena, inseriti poi in uno scrigno attraverso una fessura nel legno. Il popolo trattenne il respiro mentre il ciambellano, impettito nella sua divisa color del cielo, estraeva con mano sicura la pergamena che avrebbe deciso il destino di uno, uno soltanto. E il foglietto portava impresso questo nome:

Ytan Seatiln

Il re allora si alzò.
«Si faccia avanti Ytan Seatiln» esclamò.
E Ytan si fece avanti. Era un ragazzo di poco più di vent’anni, alto e magro. In mezzo alla folla non si distingueva neppure.
«Sei tu, Seatiln?» gli domandò il re, incredulo che la sorte avesse deciso che il loro salvatore, il messaggero che avrebbe dovuto salvarli dall’esercito dei morti fosse proprio quel ragazzo così insignificante.
«Sì, lo sono. Sono Ytan Seatiln, il carpentiere.»
Il carpentiere! La folla si mise a brontolare a voce alta. Nessuno, nessuno aveva mai fatto caso a quel ragazzino minuto, che si appendeva ai palazzi come un ragno per riparare finestre, tegole, gradini e cimase.
«E così sia, Ytan il carpentiere – mormorò il re, con il cuore in tumulto – che gli dèi ti siano propizi e che i Silenti non ti trovino. Ora va’ e ritorna glorioso.»
E Ytan, voltate le spalle agli occhi beffardi e increduli degli abitanti, raggiunse la porta principale e uscì da Creekwall. L’ultima cosa che vide voltandosi, dopo aver camminato per un paio di leghe, furono le torri, le Belle, che lo salutarono con un guizzo di luce prima di sparire dietro ad una tozza collinetta color pastello.
Il viaggio di Ytan era appena cominciato.

martedì 9 dicembre 2014

Angolo delle poesie - Il gelsomino notturno

La poesia di oggi è "Il gelsomino notturno" di Giovanni Pascoli. Contenuta nella raccolta I canti di Castelvecchio (1903), è una poesia scritta in occasione del matrimonio di un amico. Il significato della poesia, come sempre accade nelle composizioni del grande poeta emiliano, è nascosto nella sapiente descrizione notturna: il gelsomino notturno, infatti, non è altro che l'organo sessuale femminile, che, dopo la prima notte di nozze, porta con sé la gioia della maternità. Tuttavia, all'atmosfera erotica e gioiosa fa da contraltare il senso di inadeguatezza e di esclusione del poeta, che si sente come un'ape tardiva ritrovatasi senza un luogo dove riposare.




E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso a' miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.
Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento . . .
È l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

Giovanni Pascoli

domenica 7 dicembre 2014

Lucrezia - notte di città

Una storia un po' diversa dal solito. Una storia d'amore e di passione...



Chiaro di luna.
Lascia che le parole sgorghino dalla tua anima, accompagnate dalla musica malinconica che riverbera nelle tue orecchie, mentre cammini lungo la strada intasata dal traffico della città, sotto lo sguardo indagatore dei fari delle automobili. Cammini lentamente, tanto non hai né meta né scopo, porti con te solo la speranza di trovare l’ispirazione, qualsiasi essa sia: il viso assorto di un passante, il contenitore di cartone proveniente da un fast-food abbandonato sul marciapiede, le lampade al neon che irradiano una bigia luminescenza sopra la vetrina opaca di una modesta lavanderia a gettoni.
In una qualsiasi altra occasione tutti questi oggetti ti avrebbero parlato, ti avrebbero comunicato qualcosa di importante così che tu, con il talento che a volte non ti rendi conto di possedere, saresti riuscito a plasmarli, a trasformarli in qualcosa d’altro: in suoni, in parole, in frasi. In una storia.
Una storia triste, una di quelle un po’ fumose, che dopo averla letta ti lascia un groppo in gola e la voglia di sputare per liberartene. Ma gli oggetti non ti parlano, questa sera. Non ti parlano nemmeno se le note di Beethoven escono dagli auricolari più potenti che mai. Di solito il tocco del maestro ti aiuta, ti dà la concentrazione per addentrarti in quelli che altrimenti sarebbero solo oggetti comuni, rifiuti senza scopo, ombre passate sulla strada. Di solito il cemento si fessura, si sgretola, ti lascia intravedere quello che si nasconde dietro, ti fa percepire la storia che vorrebbe tu raccontassi per lui. E lo stesso accade per la carta, per il marciapiede, per il cestino dell’immondizia, per ogni cosa o persona che ti passa accanto.
Ma questa volta no, tutto ti sembra così com’è, persino la musica resta solo musica, un elenco di note messe in fila ordinatamente su un rigo, semplici stanghette spezzate culminanti in un circoletto nero. Si vede che non va, forse non è una notte bella come invece lascia presagire il disco bianco che se ne sta acceso su nel cielo come l’occhio di un albino. Chiaro di luna.
Ti avvicini a una delle tante vetrine immerse nella penombra. Il vetro è grigio e confuso, come se fosse coperto dalla condensa di una nauseabonda cucina di periferia. Ti avvicini ancora, passo dopo passo, e ti specchi, ma la superficie lucida ti rimbalza via, quasi schifata, ti ficca nella retina un’ombra biancastra che è tutto tranne che l’immagine di te stesso. Dio, come sei miserabile, uomo!
Allora inizi a farti delle domande e allo stesso tempo una voce, da qualche parte dentro di te, ti risponde.
“Perché vuoi scrivere?” Per essere diverso.
“Ti credi tanto bravo?” Sono solo uno qualunque.
“E allora, caro amico mio, non vedi che sei una contraddizione ambulante, un’incoerenza che respira? Vuoi essere diverso, eppure sei uguale esattamente a tutti gli altri. Vuoi essere diverso, ma l’unica cosa che riesci a fare è vagare senza meta nella notte, solo come un cane, con la musica di un vecchio cieco morto da più di duecent’anni che ti annacqua il cervello.”
Annuisci. Come dargli torto? Quella voce che ti sminuisce, in fondo, è la voce di tutta l’umanità. È la voce della crisi, del mondo moderno, grigio e spoglio, che non ha bisogno di sogni, progetti e speranze, ma solo di palazzi di trenta piani, file e file di finestre imprigionate nel cemento, e di automobili, tante e tante automobili, macchine ottuse dal viso d’uomo, con occhi-fanali, bocche-griglie, gambe-ruote. Intestini-tubi. Cosa puoi, tu, contro quella voce?
“Tornatene a casa, continua la voce. Non troverai l’ispirazione e anche se la trovassi non otterresti nulla. Ti porterebbe successo?” No. “Ti porterebbe ricchezza?” Tuo malgrado, neghi ancora. “Che vai cercando, dunque? Tornatene a casa e seppellisciti dentro, fai come tutti gli altri, addormentati e non pensare a nulla. Tutto deve scorrere.”
Fai per girarti e seguire quanto la voce ti ha detto, quando una nuova luce si accende sulla superficie della vetrina. Non è il globo del lampione di fronte che si riflette sul vetro e neppure il fanale maligno di una Volkswagen passata a gran velocità. Più che una luce è un colore, un rosso intenso e pieno di vita. Solo allora ti accorgi che la musica nell’mp3 è cambiata. Dalla Sonata al chiaro di luna, sei passato alla Rapsodia in blu di Gershwin. Un caleidoscopio di suoni e luci si fa strada nella tua testa; l’orchestra ti rintrona l’anima, mentre il pianoforte e il clarinetto duellano a colpi di virtuosismo.
Nel frattempo la macchia rossa si sovrappone alla tua, ti risucchia e ti dona parte del suo colore fino a lasciarti frastornato. Capisci che è il riflesso di una persona esattamente dietro di te, ad un passo da te. Molto probabilmente una donna. Ne avverti distintamente il profumo, qualcosa che ti irretisce e ti terrorizza allo stesso tempo.
“Chi sei?” chiedi allora, un po’ infastidito per quella presenza inattesa. Volevi restare solo.
“Sono Lucrezia. – risponde lei – Se sei qua fuori a quest’ora, vuol dire che stavi cercando me.” Ha una voce calda, suadente, ti aspetti quasi che faccia reazione con il gelo della strada, sollevando una nube di vapore.
“Ti sbagli – ribatti – sono qui fuori per trovare l’ispirazione. Sono uno scrittore.”
Lei ride.
“Io posso darti tutto, anche l’ispirazione. Basta che mi paghi.”
Una donna della strada. Ecco chi è quella macchia rumorosa accanto a te. Ti giri e la guardi, prima solo per qualche secondo, trattenuto da un imbarazzo che ti ammutolisce, poi sempre più insistentemente, finché non riesci più a distogliere il tuo sguardo dal suo, ed è come se ci finissi dentro. Ha dei begli occhi blu. Sono così belli che guardi solo loro e non ti soffermi su come è vestita o su come non lo è, non noti neppure che porta una gonna attillata e cortissima, che le arriva appena sotto le natiche, e per questo trema di freddo da far pietà. Ti togli le cuffie, ma la musica, non sai se sia la tua immaginazione o stia accadendo davvero, continua e non si ferma.
“Mi dispiace. Non sono quel tipo d’uomo.” rispondi, ma sotto sotto non ci credi. Non ci crede neppure lei e te lo fa capire con un sorriso disincantato.
“Non ho tutto il tempo del mondo. Ce li hai ottanta euro?” chiede.
La tua mano, quasi non riesci a controllarla, scende fino alla tasca dei jeans. Apri il portafoglio e ci butti un’occhiata dentro. Corrughi la fronte.
“Ne ho solo trenta.” mormori, indeciso se essere dispiaciuto o sollevato. Sei sempre stato un tipo confuso e anche questa volta non sei da meno, soprattutto questa volta. Lei ci pensa un po’, poi fa un gesto con la mano.
“Senti, è la tua prima volta. I cinquanta euro li offre la casa.”
Non finisce nemmeno di parlare che ti agguanta, afferrandoti per il collo della camicia, e ti trascina in un vicolo umido, un budello tanto nascosto dagli occhi della gente che è come se foste in un altro mondo, un mondo tutto per voi, immerso in un silenzio che è quasi impossibile immaginare nel cuore di una metropoli. Vi spogliate e iniziate a farlo, prima lentamente, poi sempre più forte, addossati ad un muro che quasi non si riconosce più per via dei graffiti che ne ricoprono, come tanti tatuaggi, la superficie. Lucrezia ti bacia, ti accarezza. Ti fa sentire amato. Allora non pensi più a quanto il mondo sia ingiusto, il futuro traballante, la felicità inconsistente. Semplicemente chiudi gli occhi e con il viso affondato nei suoi capelli lasci che le tue paure scivolino via e si dissolvano nell’aria inquinata della città; assapori la sua pelle, le sue labbra. Le afferri i seni da sotto la maglietta, li senti vivi sotto i tuoi palmi, quasi ti sfuggono. Ed ecco che la musica raggiunge il suo culmine, così come il tuo piacere. E proprio in quell’istante le parole finalmente arrivano, in massa, come una folla vociante; sembra quasi che non se ne siano mai andate via e forse è così, sono sempre state lì con te ma avevi solo bisogno che qualcuno te le indicasse. Dopo giorni, settimane, mesi, hai di nuovo una storia da raccontare.
La musica finisce, il vostro contatto si interrompe. Lucrezia ti schiocca un bacio sulle labbra e con un ultimo sorriso sparisce, inghiottita dalle ombre della strada. Non hai neppure il tempo di dirle che, in quei pochi minuti, ti sei perdutamente innamorato di lei, che forse tornerai tutte le sere, anche solo per vederla riflettersi su una vetrina o per sentire il suo profumo da lontano senza avere il coraggio di sfiorarla con gli occhi.

E allora capisci che per quanto il mondo possa cambiare, esisterà sempre qualcosa per cui sognare, vivere o morire. Resterà sempre qualcosa di cui scrivere.

martedì 2 dicembre 2014

Il Viaggiatore

Un breve racconto dedicato al tema del viaggio. Un uomo, la solitudine e un percorso per scoprire se stesso...



Il deserto roccioso dello Utah si estende sotto i tuoi occhi fino all’orizzonte; un infinito mare arancione composto da guglie, pinnacoli e valloni che sembrano stati scolpiti nell'arenaria da un Dio pieno di estro creativo. Se è vero che la città si presenta come la gloria della razionalità umana, il baluardo di un umanesimo costretto a confrontarsi con la propria mortalità, qui, nella natura selvaggia, è l’immortalità a regnare sovrana. Un’immortalità che si manifesta attraverso l’immutabilità del paesaggio più aspro degli Stati Uniti, e forse del mondo intero.
I tuoi polmoni si dilatano mentre il profumo dolce della sabbia e della polvere di roccia ti solletica i sensi. Ti incammini, zaino in spalla, senza sapere dove ti porteranno i tuoi piedi o quale sarà il tuo giaciglio quando il sole tramonterà all’orizzonte.
Il vero Viaggiatore gode delle piccole e grandi cose nello stesso istante, i suoi sensi sono stati addestrati a captare il tutto, a dilatarsi e a restringersi senza soluzione di continuità. Lei questo non l’ha mai capito, per questo non è lì con te, e ti ritrovi solo con te stesso.
“Lo Utah? Non c’è niente nello Utah!” ti ha detto quando le hai proposto di partire per un viaggio on the road.
“Lì c’è tutto quello che serve. Sole. Aria. Terra.” le hai risposto.
“E poi? Dopo che avremo visto il deserto e ascoltato i suoi silenzi, dove andremo?”
“E poi, e poi… come sei noiosa. Poi si vedrà.” le rispondi, mentre una grande delusione si fa spazio nella tua anima.
Siete troppo diversi, te ne rendi conto solo adesso. È per questo che lei sceglie di sparire dalla tua vita. Prende le sue borse firmate, indossa le sue scarpe col tacco, la sua sciarpa di seta e se ne va sbattendo la porta. L’ultima cosa che senti di lei è il trolley che ruggisce lungo il corridoio del secondo piano. È un rumore che non ha significato in quel deserto o se l’aveva adesso l’ha perduto.
Il vero Viaggiatore non considera né la partenza né l’arrivo. Per te sono soltanto due punti per cui deve passare necessariamente la retta dell’esperienza. È questo il tuo credo. Per viaggiare davvero ci si deve lasciare il passato alle spalle e il futuro, in quanto tale, non deve essere più consistente della sabbia che ti passa accanto tagliandoti il viso, o del vapore che sale verso il cielo dalle rare pozze d’acqua torbida che si avvistano ogni tanto fra le rocce. Solo così il presente acquista il valore che merita e la percorrenza diventa metafora della vita stessa.
Senza più pensieri ti immergi in un canyon scavato da un fiume evaporato da chissà quanti secoli. La forza di quelle acque fantasma si può udire ancora, nei mille fruscii che il vento suscita serpeggiando nelle scivolosità dell’alveo asciutto. Il sole ti dice addio con un ultimo bagliore mentre ti addentri nelle curve uterine della roccia. L’eco dei tuoi passi sparisce presto oltre l’ombra di un meandro abbandonato.

Neppure il Dio che ha scolpito l’arenaria può ora sapere dove ti condurrà il tuo viaggio.

venerdì 28 novembre 2014

Star Wars - il vecchio che ritorna




Oggi, venerdì 28/11/2014, è stato trasmesso negli Stati Uniti il teaser trailer di Star Wars VII – The Force Awakens (il risveglio della forza, per noantri). Si tratta del trailer del nuovo, attesissimo film di Guerre Stellari, il settimo “parto” dell’immortale saga di George Lucas, che con questo episodio farà ripartire una terza trilogia. Si parla di questo film da quando la Disney, nel 2012, ha acquistato in toto la LucasFilm Ltd., suscitando un certo scalpore tra i fan di una delle saghe più amate di sempre.
Sebbene non possa considerarmi un fan sfegatato della serie (non sono mai andato in giro vestito da alieno peloso, né ho appese in camera gigantografie di Mark Hamill o Harrison Ford), anche io, esattamente come tutti i fan, ho amato gli episodi V-IV-VI (quelli “vecchi” per intenderci, a cavallo fra il 1977 e il 1983) mentre ho criticato quelli nuovi, ossia gli episodi I-II-III.
C’era qualcosa che mancava negli episodi nuovi che invece si ritrovava negli episodi storici della serie: il giusto equilibrio fra storia efficace e personaggi ben caratterizzati. Chi non ha amato l’iniziale titubanza di Luke o la spacconeria di Han Solo, il mercenario dal cuore d’oro che, inizialmente interessato solo al compenso, si ritrova a diventare un eroe della resistenza contro il malvagio impero Sith? E di Darth Fener, ne vogliamo parlare? Il colpo di scena, in cui il cattivo numero due del film rivela all’eroe integerrimo con cui sta combattendo di essere suo padre, è entrato nella storia e nell’immaginazione collettiva di milioni di persone.
Insomma: Star Wars è una film che ha fatto scuola, uno dei massimi esempi del genere sci-fi, o almeno l’esempio più riuscito e “commerciale”. Badate bene: ho detto “commerciale” con un’accezione totalmente positiva. E questo mi riporta però al dubbio che ho nei confronti del nuovo film, il VII. Siamo ancora in grado di fare prodotti “commerciali” di qualità, oggi, nel duemila inoltrato?
Io non ne sono più tanto sicuro. Pensiamo alle prosecuzioni moderne delle serie del passato. Quando mai sono state all’altezza dei loro vecchi modelli?
Indiana Jones (tra l’altro partorito anch’esso dalla mente poliedrica di Lucas) ne è un esempio. Il quarto episodio, Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo è uscito nel 2009. Ed è stato un gigantesco buco nell’acqua. Non c’era umanità nei personaggi, non c’era profondità; ogni attore svolgeva il ruolo che gli era stato assegnato senza verve e lo stesso valeva per la storia: era piatta e senza brio, niente a che vedere con le trame incalzanti e astute dei primi tre capitoli della saga (“solo l’uomo penitente potrà passare”, ricordate?).
Ho come l’impressione che il mondo cinematografico si sia ormai diviso in due filoni: quello impegnato, quello riflessivo, quello delle serate di gala e dei premi oscar, e quello commerciale, che sforna regolarmente prodotti senz’anima e di qualità mediocre, che sembrano tutti prodotti con lo stampino e scritti su due piedi, così, solo per avviare la macchina ingoia-soldi del marketing.
Ed ecco la domanda che mi sorge spontanea: è possibile, oggi, il ritorno di un “certo” cinema, un cinema che coniughi il lato commerciale con la qualità di buoni personaggi e di una buona storia?

Mi auguro che l’uscita di Star Wars possa dare una risposta affermativa a questa domanda. Il tempo di attesa è però ancora lungo, si prevede la proiezione nella sale non prima del dicembre 2015. Nell'attesa, gustatevi il trailer:




E voi, cosa ne pensate? Anche voi attendete il nuovo Star Wars ma temete che possa essere, come i film della saga "moderna", una delusione? Commentate qui sotto, sono curioso di sapere il vostro parere!

domenica 23 novembre 2014

Cento

Un racconto di paura dedicato al grande maestro dell'horror, H. P. Lovecraft. Buona lettura... da brivido!



«Perché l’hai fatto, Jack?»
Il poliziotto parlava piano, cercando di instillare la calma nell'interrogato che gli stava davanti. La lampadina sospesa sul tavolo dell’interrogatorio era bollente, sembrava dovesse esplodere da un momento all’altro, i suoi filamenti di tungsteno che vibravano come viscide antenne di insetti.
«Perché l’hai fatto, Jack?» ripeté l’agente. L’interrogato non lo guardò neppure, era troppo concentrato a fissare il vuoto davanti a sé, quasi riuscisse a scorgere cose che gli altri non potevano né volevano vedere. Il suo viso portava impresso un sorriso congelato, statico e tuttavia terribilmente anormale. Se c’era un sintomo evidente della sua pazzia era propria la sua crudele nonchalance, l’enfatizzata espressione di innocenza che lo avvicinava alla sobria compostezza di un cherubino degno di svolazzare fra le nubi di una pala da altar maggiore. Ma Jack non era un angelo. Semmai era un angelo delle tenebre, un’anima nera che si era macchiata del peggiore crimine che la mente umana potesse concepire.
Se il poliziotto ripensava ancora alla scena a cui aveva assistito dopo aver sfondato la porta sigillata dell’orfanotrofio si sentiva lo stomaco sobbollire e un sentore di vomito scivolare in bocca.
Sangue, sangue ovunque: sui muri, sul parquet, persino sui soffitti e sui divani della grande sala dei disegni. Quest’ultima era la stanza maggiore dell’orfanotrofio, un ambiente pensato appositamente perché i bambini potessero sfogare il loro talento creativo fra pennelli, matite e acquerelli. Ed era lì che erano stati ritrovati tutti. Dal primo all'ultimo, senza distinzione di età, sesso o colore: Jack Taylor li aveva uccisi uno ad uno, e lo aveva fatto con la bieca freddezza di un chirurgo psicopatico uscito da un film dell’orrore. Lui, giardiniere a tempo perso, li aveva fatti a pezzi con la lunga forbice arrugginita con cui poteva le rose. Dopodiché, zuppo di sangue fino ai capelli, si era seduto sulla poltrona, pacato, con una rivista di equitazione fra le mani, e aveva attesto che gli agenti facessero irruzione e lo portassero via. Nessun segno di pentimento aveva scalfito quel sorriso sadico, neppure quando il capitano Mancini, preso da un moto di rabbia, lo aveva afferrato per i capelli e gli aveva avvicinato il viso al corpo straziato di una delle sue vittime. Una scena che era stata davvero scioccante, considerato il fatto che Mancini aveva la nomea di essere un duro, uno che non si faceva dominare dalle proprie emozioni.
«Perché l’hai fatto, Jack?» chiese ancora una volta il poliziotto. Agente Campbell, detective di primo grado, dodici anni di onorato servizio in cui aveva sventato sei rapine e crivellato di colpi una decina di pazzi che, proprio come quel bastardo che gli stava davanti, avevano compiuto stragi efferate senza nessun motivo. Ma questa volta era diverso. Campbell se lo sentiva dentro: quando incrociava gli occhi chiari e freddi di quel Jack, il cervello gli si agitava nel cranio, il suo cuore urlava, un grido si apprestava ad uscire dalle sue labbra, se solo lui non avesse fatto di tutto per stringerle con ogni grammo di forza di cui disponeva.
Jack alzò lo sguardo. L’ultima domanda non era andata perduta, in qualche modo il maniaco era riuscito a ritornare alla realtà, si era fatto largo fra le visioni di follia che si annidavano nella sua mente ed ora era lì, seduto sulla sedia, accecato dalla lampadina ad incandescenza, ammanettato con le mani dietro la schiena. Campbell ce l’aveva fatta: aveva stabilito un legame con lui. Era fragile e incerto, e forse sarebbe durato meno di un istante, ma era pur sempre un legame.
«Lei che dice, agente? Per quale motivo lo avrei fatto, secondo lei?» domandò l’interrogato, sorridendo sbilencamente.
«Zitto, sono io che faccio le domande qui dentro!» sibilò Campbell.
«Su, non sia così maleducato – piagnucolò il criminale, mentre un rivolo di bava gli colava a lato della bocca fino a bagnargli il collo – Sono stato gentile, io.»
Il detective corrugò la fronte.
«Lei è un pazzo, Jack Taylor. Ma non credo che questo le risparmierà di finire sulla sedia elettrica.»
«Sedia elettrica? – ribatté Jack, scoppiando a ridere dissennatamente – lei crede davvero che possa farmi paura? Non adesso. Non più. Lui… lui sta arrivando.» e, dicendo questo, il suo viso si ritrasse dalla luce indagatrice della lampada, per immergersi nell'ombra multiforme che sciabordava agli angoli della stanza.
«Lui chi?» ringhiò Campbell. Jack si contorse sulla sedia, gli occhi rovesciati a mostrare il bianco, mentre un sorriso estatico e mostruosamente deviato gli strappava via definitivamente quel poco di umanità che ancora albergava in lui. Gridò:
«Lui, l’eccelso Yog-Sothoth, il Tutto-in-Uno e l’Uno-in-Tutto! Yog-Sothoth è la porta, Yog-Sothoth è la chiave, Yog-Sothoth è il guardiano! Egli esiste nel presente, nel passato e nel futuro!»
Campbell, cercando di non perdere il controllo, si abbarbicò con le mani al tavolo e si protese verso il criminale, intenzionato a non lasciarsi sfuggire un briciolo di quella folle confessione. 
«Hai ucciso in nome di Yog-Sothoth? Perché?»
«Oh, il mio padrone mi ricompenserà… voleva tornare, lo desiderava con tutti i suoi cuori… ha scrutato dalla sua prigione nello spazio noi, il nostro fragile mondo, sognando il giorno del suo ritorno. E ora quel giorno è quasi arrivato. Manca poco, un nulla in confronto all'eternità della sua attesa.»
«Perché quei bambini? – continuò il detective – Che hanno a che fare dei bambini con il ritorno del tuo… padrone?»
Una fiamma di malizia si accese nella profondità della pupilla di Jack.
«Stolto, non comprendi la sua folle fame? Un’eternità senza cibo, la sua essenza costretta a rimpicciolire e a degradare alla forma di un battere, i suoi globi luminescenti soverchiati dal muto nero dello spazio! Aveva fame! Un solo grido, un solo grido di Yog-Sothoth seppe giungermi in una mattina di settembre, mentre tagliavo le siepi in quell'orfanotrofio. Un grido disperato, che risuonò come il cozzare di due pianeti. La Sua voce mi chiedeva di procurargli anime fresche che potessero fornirgli l’energia necessaria per rompere le sbarre e compiere il passaggio. Tornare qui, da noi… oh, quale dolce agonia. Quale sublime morte ci attende, caro il mio detective Campbell. E ora toccherà a te…»
«A m-me?» mormorò l’agente. Anche se cercava di dimostrarsi saldo rispetto alle farneticazioni di quel decerebrato, qualcosa in quel nome lo aveva lasciato inerme, senza più protezione contro l’orrore di quel dannato giorno di sangue e morte: Yog-Sothoth, Yog-Sothoth, Yog-Sothoth. Era suggestione o una voce stava crescendo nella sua testa? Una voce che sembrava provenire dallo spazio profondo?
«Sì a te, mio caro. Ne mancano ancora cento.» sussurrò Jack Taylor, la sua voce ridotta ad un soffio gelido come un rasoio.
«Cento? Di c-cosa?»
«Di altre anime giovani, di anime innocenti! Non capisci, piccolo uomo? Yog-Sothoth ha scelto te per finire la missione. La tua mano reciderà le vite che mancano. Agirai in Suo nome e porterei la distruzione sulla Terra. Si compirà la profezia: la mano del giusto aprirà la porta e libererà il guardiano.»
Campbell scrollò la testa come per liberare il cervello dai morsi avidi di quelle parole.
«Friggerai sulla sedia, e poi marcirai all'inferno!» ribatté cupo, prima che altri agenti aprissero la porta e trascinassero via l’assassino strattonandolo. Jack continuava a ridere, spruzzando saliva ovunque, e continuò a farlo finché, svoltato il corridoio del commissariato, la sua risata perse forza e non poté più essere udita. Ma Campbell la udiva ancora, la sentiva rimbombare nelle fragili pareti della sua testa. Una risata che crebbe fino a diventare un grido lacerante, il grido di una creatura immortale e maligna intrappolata nelle più remote regioni dello spazio. E poi oltre quelle grida una voce, che ripeteva incessantemente la stessa, incessante parola:

 Cento, cento, cento. Cento.