Ecco a voi la quarta parte della leggenda di Creekwall! Buona lettura e buone feste
Alvise
Dopo tre giorni di cammino, Ytan
raggiunse le steppe di Xunomor, vaste e vaste pianure dove non crescevano
alberi ma solo un mare d’erba verde, intervallato ad ampi spiazzi di nuda
terra. C’erano silenzi sovrumani, in quel territorio, e gli unici uomini che
Ytan incontrò erano i venditori itineranti, coi loro carretti trainati da
vecchie giumente e pigri bardotti. Il messaggero avrebbe comprato volentieri
qualcosa da mangiare da loro, ma non sapeva se i soldi nella sua bisaccia
sarebbero bastati fino alla conclusione del suo viaggio. La sua era stata una
partenza improvvisa, considerò, improvvisa e alquanto incosciente. Non era
pronto, ma forse non si poteva mai essere pronti per una missione del genere.
Camminò intensamente per quasi
una settimana, finché raggiunse Teuton, la città nella steppa: un imponente
fortilizio in legno e pietra di fiume, con le tipiche case degli abitanti del
nord, dai tetti bombati che assomigliavano a imbarcazioni rovesciate. Era una
città semplice, abitata da gente semplice: pastori, fabbri e taglialegna.
Nell’aria, un odore pungente di abete, acciaio bollente e carne alla brace.
Il messaggero venne accolto con
calore e fu subito ricevuto da Vik il Buono, il re che aveva portato la pace
tra i Teutongar e i giganti bianchi che vivevano sui crinali della montagne di
Keltar. Vik ascoltò la storia del messaggero, e lui gli raccontò della
pericolosa missione che gli era stata affidata, della lotta con la strega della
torre e della terribile maledizione che gravava sulla sua città e i suoi regni
vicini. Al termine, il buon sovrano gli offrì una stanza nel palazzo e un bagno
caldo, che Ytan non rifiutò. Dopo essersi riposato, il ragazzo cenò insieme ai
consiglieri nella Sala della Caccia, tra fiumi di birra, cosce di montone e
funghi immersi in latte cagliato di renna.
A Teuton, Ytan si rifocillò e
venne omaggiato con provviste e con il necessario per il prosieguo del suo
viaggio, ma non ebbe alcuna informazione utile riguardo alla maledizione che
affliggeva Creekwall, Lightgale, Firehall e Mightcastle. Tanto più che a
Teuton, come a Modesty, l’esercito dei Silenti non si era mai fatto vedere.
Così, all’alba del quarto giorno, ripartì ancora.
Si inoltrò per un sentierino che
portava alle montagne, stretto in una calda pelliccia di renna comprata in una
bancherella a Teuton. La neve era alta, gli arrivava quasi alla cintola. Non si
sentiva quasi più i piedi e le mani, e sottili tagli gli laceravano il viso. Il
vento lo scuoteva a sinistra e a destra, rischiando di farlo precipitare nei
burroni e nei crepacci che ogni tanto si aprivano nella neve come bocche
affamate. Nonostante tutto, dopo due giorni di marcia ininterrotta nella neve,
Ytan si lasciò le montagne di Keltar alle spalle e, incolume, proseguì a ovest,
spostandosi di poco verso sud.
Si trovò a passare in un
territorio monotono, una landa erbosa color della cenere, dove crescevano cardi
dalla tonalità sanguigna. Spirava un vento carico di oscuri presagi in quelle
terre e per questo, quando sopraggiungeva la notte, Ytan si nascondeva nelle
caverne o nelle tane lasciate libere dai cani randagi, e ripartiva solo quando
il sole, facendo capolino all’orizzonte, zittiva gli angoscianti e malevoli
rumori notturni.
Una notte di veglia, Ytan udì un
frastuono infernale provenire dal cielo; si sporse oltre l’apertura del suo
nascondiglio e fece in tempo a cogliere un guizzo infuocato tra le nubi nere:
erano i cavalieri dei Silenti, che galoppavano furiosi in cerca di esseri
viventi. Ytan si rannicchiò nella tana e chiuse gli occhi, finché il nitrito
selvaggio e non-umano dei cavalli e dei loro cavalieri si estinse
completamente; attese il sorgere del sole e ripartì, cercando di lasciare i
brutti sogni in quel buco scavato nella terra.
Fu così che, ai primi giorni di
maggio, il messaggero raggiunse finalmente la foresta di Kalimdar, il reame
degli elfi. Ytan sapeva poco degli elfi e tutte le sue informazioni derivavano
dalle leggende o dai resoconti dei fortunati viaggiatori che erano riusciti a
passare incolumi nelle loro terre. Ytan sapeva che erano gente fiera, gelosa
della propria tradizione. Sapeva che oltre un secolo prima erano scesi in
guerra contro il regno di Tinsul, che avevano cercato di espugnare Solivann, la
fortezza nella montagna, ma che avevano perso, e di questo non amavano parlare.
Sapeva anche che erano immortali, ma che potevano comunque essere uccisi.
Ytan dunque raggiunse il
limitare della foresta; in corrispondenza di un enorme sentiero, anzi una
strada, che si inoltrava nel folto degli alberi, era stato eretto un possente
cancello d’oro, presieduto ai lati da due statue gigantesche, così ben
realizzate che sembravano respirare e scrutare. Erano Syman e Rilek, gli dèi
che secondo i miti avevano creato, all’alba dei tempi, gli elfi.
Il cancello, nonostante fosse
chiuso con un lucchetto incantato, aveva delle sbarre piuttosto distanziate tra
loro e così il messaggero, anche se con un po’ di difficoltà, riuscì a passarci
attraverso. Per una volta nella sua vita, fu entusiasta di essere così magro.
Si inoltrò nel bosco, chiedendosi dove fossero i soldati a guardia del
cancello. Come gli aveva suggerito il signore di Stormcrow, indossò il sole di
Igreine in bella vista, al centro del petto.
L’aveva appena fatto, quando
alcuni arbusti al lato del sentiero si spostarono e ne uscirono fuori dodici
elfi: erano soldati vestiti con leggere armature di cuoio; non portavano elmi
ma strisce di stoffa o coroncine di legno e d’argento. Avevano tutti e dodici
un arco teso e una freccia incoccata.
«Come osi, straniero,
oltrepassare il cancello di Syman e Rilek! Gli ordini sono di uccidere seduta
stante chiunque si permetta di…» il soldato che aveva parlato si zittì non
appena notò l’amuleto che Ytan sfoggiava sopra i vestiti.
«Dove lo hai preso, quello? È il
simbolo della casata degli Urundar!»
«Mi fu donato da una donna,
Igreine.» rispose il ragazzo. Gli elfi si guardarono a lungo tra loro, sui loro
volti esili un’espressione di sorpresa e sgomento.
«Igreine? Allora non fu una…
donna a donartelo, viaggiatore, ma la regina scomparsa degli elfi, l’ultima
discendente degli Urundar che lasciò queste terre un secolo fa, quando Seretìl
prese il potere.»
«Seretìl?» domandò Ytan.
«L’attuale re degli elfi. Sarà
lui a giudicarti. E tu dovrai rispondere per quel sole.»
Detto questo, i dodici
afferrarono il ragazzo e lo trascinarono per tutta la foresta. Con grande
sorpresa di Ytan, gli alberi man mano si fecero più radi, finché, al centro del
bosco, dove sorgeva la città degli elfi, scomparvero del tutto. Guardandosi
attorno, il ragazzo notò che erano stati tagliati da lungo tempo, da almeno
cinquant’anni. Si stupì non poco, perché aveva sempre sentito che gli elfi
avevano un legame speciale con gli alberi e mai e poi mai li avrebbero tagliati
indiscriminatamente, solo per costruire palazzi e castelli nel cuore della
foresta. Ma così era e allora Ytan cominciò a capire come mai Igreine, l’ultima
degli Urundar, avesse deciso di fuggire e nascondersi tra gli umani, lontano
dalla foresta che gli elfi avevano tradito.
Seretìl li attendeva in un
palazzo sontuoso, costruito con legno, marmo e oro. E anche qui le leggende
discordavano: gli elfi avevano sempre costruito sugli alberi le loro case, tra
le fronde delle piante più antiche e possenti. Adesso invece sorgevano sulla
nuda terra, come le città umane. E, esattamente come le città umane, anche
quella degli elfi mostrava in modo lampante le differenze sociali dei suoi
abitanti: c’erano case più piccole e più modeste, altre ancora più miserevoli,
mentre altre erano così grandi e dorate che abbacinavano gli occhi. E anche
questo era strano, perché Ytan aveva sempre sentito dire che tra elfo ed elfo
non c’erano differenze di ceto o di importanza. Anche il re stesso, in fondo,
veniva eletto come guida dall’assemblea dei cittadini. Come mai ora era tutto
così cambiato?
Seretìl era esattamente come
Ytan se lo era immaginato: alto e orgoglioso, con lunghi capelli color miele e
un viso affilato, come una punta di freccia. Lo attendeva al culmine di una
scalinata, assiso sopra un trono di pietra abbellito da smeraldi e zaffiri. I
suoi occhi dardeggiavano fuoco e per un istante, Ytan rivide in quegli occhi
gli zoccoli infuocati dei cavalli non-morti.
«Dove, dove hai preso quel SOLE?» ruggì il re, facendo scuotere
le cime degli alberi e fuggire uno stuolo di corvi terrorizzati.
«Mi fu donato da Igreine, regina
degli elfi.» rispose Ytan fieramente, cercando di non mostrare la sua paura.
Non appena udì quel nome, Seretìl si abbandonò senza forze sui cuscini di
broccato.
«Igreine – mormorò – la mia
amata moglie scomparsa…»
«Moglie?» domandò il ragazzo,
incredulo. Gli occhi di Seretìl dardeggiarono.
«Sono io che pongo le domande
qui, mortale! Sì, io fui il secondo marito di Igreine. Dopo la morte di
Kaladrim, ucciso nella guerra contro Solivann, Igreine sposò ME! Ma non era felice, oh no. Lei
non….capiva! Avevamo perso contro gli umani perché eravamo un popolo debole,
dovevamo far qualcosa per rafforzarci. E la soluzione era qui, attorno a noi –
e il re indicò gli alberi – Prendevamo dalla natura solo lo stretto necessario,
vivevamo fra gli alberi come scimmie… Disgustoso! Ma io avevo altre idee e il
popolo le appoggiò. Dovevamo usare la natura per diventare forti come eravamo
un tempo, elevare la razza degli elfi sopra tutte le altre! Da lunghi anni, nel
cuore della foresta, costruiamo armi per invadere i territori degli uomini:
baliste, catapulte, trabucchi… Scaviamo nel suolo della foresta, giù, nelle
viscere della terra, in cerca di metalli per costruire più spade e lance ed
elmi, e quando saremo pronti vi invaderemo e vi piegheremo! – il re sospirò –
ma Igreine non lo voleva. Una notte partì di nascosto e da quel giorno non ho
più sue notizie. Ma ora TU mi dirai dove si trova!
Dimmelo!»
Ytan scosse la testa con
veemenza.
«Non te lo dirò. Sei un tiranno,
Seretìl, e il tuo odio ha mutato gli elfi in mercenari assetati di vendetta.
Morirò, piuttosto che rivelarti dove si trova Igreine né ti dirò che cosa mi ha
portato qui, nel reame degli elfi.»
«Allora morirai. Portelo nelle
prigioni e, se fra una settimana non avrà confessato, lo appenderemo nella
pubblica piazza!»
Immediatamente, Ytan fu
sollevato dalle guardie e trascinato via dalla sala del trono. Gli occhi del
tiranno non lo lasciarono mai e il ragazzo vi vide così tanto odio e malvagità
e sete di potere, che si domandò se Seretìl non fosse caduto preda di un
incantesimo ordito dalle forze del male, un incantesimo che prendeva forza dal
cuore nero e pulsante dei Silenti.
Fu rinchiuso in una cella
scavata nel profondo della roccia. Era così bassa che il ragazzo poteva stare
soltanto disteso e tra la sua fronte e il soffitto c’erano solo due spanne.
Ytan scoppiò in lacrime. Era così che doveva andare? Aveva dunque fallito?
Sarebbe stato ucciso per la sete di vendetta di un popolo senza più valori? I
regni degli uomini sarebbero stati spazzati via? Senza risposte, il ragazzo
alla fine si addormentò e passò la sua prima notte da prigioniero.
Una notte cupa era scesa sulla
foresta Kalimdar.