Un racconto di paura dedicato al grande maestro dell'horror, H. P. Lovecraft. Buona lettura... da brivido!
«Perché l’hai
fatto, Jack?»
Il poliziotto
parlava piano, cercando di instillare la calma nell'interrogato che gli stava
davanti. La lampadina sospesa sul tavolo dell’interrogatorio era bollente,
sembrava dovesse esplodere da un momento all’altro, i suoi filamenti di
tungsteno che vibravano come viscide antenne di insetti.
«Perché l’hai
fatto, Jack?» ripeté l’agente. L’interrogato non lo guardò neppure, era troppo
concentrato a fissare il vuoto davanti a sé, quasi riuscisse a scorgere cose
che gli altri non potevano né volevano vedere. Il suo viso portava impresso un
sorriso congelato, statico e tuttavia terribilmente anormale. Se c’era un sintomo evidente della sua pazzia era propria
la sua crudele nonchalance, l’enfatizzata espressione di innocenza che lo
avvicinava alla sobria compostezza di un cherubino degno di svolazzare fra le
nubi di una pala da altar maggiore. Ma Jack non era un angelo. Semmai era un
angelo delle tenebre, un’anima nera che si era macchiata del peggiore crimine
che la mente umana potesse concepire.
Se il poliziotto
ripensava ancora alla scena a cui aveva assistito dopo aver sfondato la porta
sigillata dell’orfanotrofio si sentiva lo stomaco sobbollire e un sentore di
vomito scivolare in bocca.
Sangue, sangue
ovunque: sui muri, sul parquet, persino sui soffitti e sui divani della grande
sala dei disegni. Quest’ultima era la stanza maggiore dell’orfanotrofio, un
ambiente pensato appositamente perché i bambini potessero sfogare il loro
talento creativo fra pennelli, matite e acquerelli. Ed era lì che erano stati
ritrovati tutti. Dal primo all'ultimo, senza distinzione di età, sesso o
colore: Jack Taylor li aveva uccisi uno ad uno, e lo aveva fatto con la bieca
freddezza di un chirurgo psicopatico uscito da un film dell’orrore. Lui,
giardiniere a tempo perso, li aveva fatti a pezzi con la lunga forbice
arrugginita con cui poteva le rose. Dopodiché, zuppo di sangue fino ai capelli,
si era seduto sulla poltrona, pacato, con una rivista di equitazione fra le
mani, e aveva attesto che gli agenti facessero irruzione e lo portassero via.
Nessun segno di pentimento aveva scalfito quel sorriso sadico, neppure quando
il capitano Mancini, preso da un moto di rabbia, lo aveva afferrato per i
capelli e gli aveva avvicinato il viso al corpo straziato di una delle sue
vittime. Una scena che era stata davvero scioccante, considerato il fatto che
Mancini aveva la nomea di essere un duro, uno che non si faceva dominare dalle
proprie emozioni.
«Perché l’hai
fatto, Jack?» chiese ancora una volta il poliziotto. Agente Campbell, detective
di primo grado, dodici anni di onorato servizio in cui aveva sventato sei
rapine e crivellato di colpi una decina di pazzi che, proprio come quel
bastardo che gli stava davanti, avevano compiuto stragi efferate senza nessun
motivo. Ma questa volta era diverso. Campbell se lo sentiva dentro: quando
incrociava gli occhi chiari e freddi di quel Jack, il cervello gli si agitava
nel cranio, il suo cuore urlava, un grido si apprestava ad uscire dalle sue
labbra, se solo lui non avesse fatto di tutto per stringerle con ogni grammo di
forza di cui disponeva.
Jack alzò lo
sguardo. L’ultima domanda non era andata perduta, in qualche modo il maniaco
era riuscito a ritornare alla realtà, si era fatto largo fra le visioni di
follia che si annidavano nella sua mente ed ora era lì, seduto sulla sedia,
accecato dalla lampadina ad incandescenza, ammanettato con le mani dietro la
schiena. Campbell ce l’aveva fatta: aveva stabilito un legame con lui. Era
fragile e incerto, e forse sarebbe durato meno di un istante, ma era pur sempre
un legame.
«Lei che dice,
agente? Per quale motivo lo avrei fatto, secondo lei?» domandò l’interrogato,
sorridendo sbilencamente.
«Zitto, sono io che
faccio le domande qui dentro!» sibilò Campbell.
«Su, non sia così
maleducato – piagnucolò il criminale, mentre un rivolo di bava gli colava a
lato della bocca fino a bagnargli il collo – Sono stato gentile, io.»
Il detective
corrugò la fronte.
«Lei è un pazzo,
Jack Taylor. Ma non credo che questo le risparmierà di finire sulla sedia
elettrica.»
«Sedia elettrica? –
ribatté Jack, scoppiando a ridere dissennatamente – lei crede davvero che possa
farmi paura? Non adesso. Non più. Lui… lui sta arrivando.» e, dicendo questo,
il suo viso si ritrasse dalla luce indagatrice della lampada, per immergersi
nell'ombra multiforme che sciabordava agli angoli della stanza.
«Lui chi?» ringhiò Campbell.
Jack si contorse sulla sedia, gli occhi rovesciati a mostrare il bianco, mentre
un sorriso estatico e mostruosamente deviato gli strappava via definitivamente
quel poco di umanità che ancora albergava in lui. Gridò:
«Lui, l’eccelso Yog-Sothoth, il
Tutto-in-Uno e l’Uno-in-Tutto! Yog-Sothoth è la porta, Yog-Sothoth è la chiave,
Yog-Sothoth è il guardiano! Egli esiste nel presente, nel passato e nel
futuro!»
Campbell, cercando di non
perdere il controllo, si abbarbicò con le mani al tavolo e si protese verso il
criminale, intenzionato a non lasciarsi sfuggire un briciolo di quella folle
confessione.
«Hai ucciso in nome di
Yog-Sothoth? Perché?»
«Oh, il mio padrone mi
ricompenserà… voleva tornare, lo desiderava con tutti i suoi cuori… ha scrutato
dalla sua prigione nello spazio noi, il nostro fragile mondo, sognando il
giorno del suo ritorno. E ora quel giorno è quasi arrivato. Manca poco, un
nulla in confronto all'eternità della sua attesa.»
«Perché quei bambini? – continuò
il detective – Che hanno a che fare dei bambini con il ritorno del tuo…
padrone?»
Una fiamma di malizia si accese
nella profondità della pupilla di Jack.
«Stolto, non comprendi la sua
folle fame? Un’eternità senza cibo, la sua essenza costretta a rimpicciolire e
a degradare alla forma di un battere, i suoi globi luminescenti soverchiati dal
muto nero dello spazio! Aveva fame! Un solo grido, un solo grido di Yog-Sothoth
seppe giungermi in una mattina di settembre, mentre tagliavo le siepi in
quell'orfanotrofio. Un grido disperato, che risuonò come il cozzare di due
pianeti. La Sua voce mi chiedeva di procurargli anime fresche che potessero
fornirgli l’energia necessaria per rompere le sbarre e compiere il passaggio.
Tornare qui, da noi… oh, quale dolce agonia. Quale sublime morte ci attende,
caro il mio detective Campbell. E ora toccherà a te…»
«A m-me?» mormorò l’agente.
Anche se cercava di dimostrarsi saldo rispetto alle farneticazioni di quel
decerebrato, qualcosa in quel nome lo aveva lasciato inerme, senza più
protezione contro l’orrore di quel dannato giorno di sangue e morte: Yog-Sothoth, Yog-Sothoth, Yog-Sothoth.
Era suggestione o una voce stava crescendo nella sua testa? Una voce che
sembrava provenire dallo spazio profondo?
«Sì a te, mio caro. Ne mancano
ancora cento.» sussurrò Jack Taylor, la sua voce ridotta ad un soffio gelido
come un rasoio.
«Cento? Di c-cosa?»
«Di altre anime giovani, di
anime innocenti! Non capisci, piccolo uomo? Yog-Sothoth ha scelto te per finire la missione. La tua mano
reciderà le vite che mancano. Agirai in Suo nome e porterei la distruzione
sulla Terra. Si compirà la profezia: la
mano del giusto aprirà la porta e libererà il guardiano.»
Campbell scrollò la testa come
per liberare il cervello dai morsi avidi di quelle parole.
«Friggerai sulla sedia, e poi
marcirai all'inferno!» ribatté cupo, prima che altri agenti aprissero la porta
e trascinassero via l’assassino strattonandolo. Jack continuava a ridere,
spruzzando saliva ovunque, e continuò a farlo finché, svoltato il corridoio del
commissariato, la sua risata perse forza e non poté più essere udita. Ma
Campbell la udiva ancora, la sentiva rimbombare nelle fragili pareti della sua
testa. Una risata che crebbe fino a diventare un grido lacerante, il grido di
una creatura immortale e maligna intrappolata nelle più remote regioni dello
spazio. E poi oltre quelle grida una voce, che ripeteva incessantemente la
stessa, incessante parola:
Cento, cento, cento. Cento.
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