martedì 11 novembre 2014

Una notte a New Colony



La pioggia scendeva su New Colony in lunghe linee parallele, residui di lacrime sulla superficie di vetro dei grattacieli. Il buio della notte era messo all’angolo dalle luci elettriche di un’astronave da pattuglia, che virava fra i palazzi ronzando, mentre i suoi motori a ioni rilasciavano nell’aria una scia azzurra traslucida, che si rifletteva sulle pozzanghere del marciapiede come in uno specchio.
New Colony, la città della rinascita. New, perché nulla sarebbe stato come prima. Colony, perché riabitare una città dopo un olocausto nucleare era come farlo per la prima volta.
New Colony era quello che restava di New York, dopo che la terza guerra mondiale aveva messo in ginocchio gli Stati Uniti e ridotto l’Europa ad un arido terreno radioattivo. L’umanità si era ripresa in fretta. Apparentemente. Le multinazionali delle armi avevano permesso a pochi individui di arricchirsi a dismisura, contribuendo a popolare le rovine della civiltà di nuovi poveri, individui negletti che trascorrevano i loro giorni nelle discariche, a raccogliere i rifiuti tecnologici di cui la gente dei piani alti si liberava non appena usciva un nuovo modello più avanzato di robot, televisore o astro-moto. New Colony. Perché la storia era sempre un eterno ritorno, un nuovo ossimorico ritorno. Un inganno che riproponeva ingiustizie sotto nuove forme, così che non fossero riconoscibili se non da chi quelle ingiustizie le usava per potersi arricchire.
Il ronzio dell’astronave arroventò il silenzio vivo della sera, laggiù, nei dungeon della civiltà. I suoi fari si puntarono su un vicolo qualsiasi, illuminandone i muri coperti di graffiti, urina disseccata e sangue incrostato. Un gruppo di individui si tolsero da quel raggio, sparendo nei varchi salvifici che l’ombra tesseva dove i lampioni, intrappolati dai tetti di lamiera e dalle terrazze abusive, non potevano arrivare.
Fra quella folla c’era Criss. Aveva quindici anni e quella notte sarebbe stato battezzato. Procedeva nel buio, come un ratto che strisci per raggiungere l’agognato rifiuto passando sotto le gambe di chi, se solo lo avesse notato, lo avrebbe spiaccicato senza pietà. Oh, la vita di New Colony poteva essere davvero allettante per un giovane che amasse vivere pericolosamente. Il problema era che Criss non sapeva neppure chi fosse, figurarsi se poteva anche lontanamente intuire che cosa odiasse o amasse; anche se in fondo una cosa la odiava di certo: se stesso. Quel suo aspetto malaticcio, quei suoi capelli irsuti come il pelo di un animale rotolatosi nel fango e nel lerciume; il lerciume che il ragazzo era abituato ad odorare ogni volta che usciva dal suo buco di casa, un appartamento claustrofobico dove abitava con la madre alcolizzata e con il padre, un individuo insignificante che riparava droidi spazzini per tre dollari l’ora. Voleva andarsene via, Criss. Ma non aveva alcuna possibilità di farlo. Senza soldi non si va da nessuna parte. O no?
Voltò per un vicolo. Le mani incrostate di sporcizia e sperma secco di un barbone cercarono di afferrarlo, ma lui le schivò, aumentando il passo per non lasciarsi incatenare dalle ombre della Città Bassa. Nelle sue cuffiette pompavano i Savatage, un gruppo metal vecchissimo, archeologia in pratica. Figurarsi che per poter ascoltare le loro canzoni, Criss aveva dovuto rubare un lettore CD esposto in un museo di “Storia della Tecnologia” su a Detroit. New Detroit, per l’esattezza. Criss sorrise. Quella musica lo faceva sentire vivo e ciò era quello di cui aveva bisogno. Costantemente.

down in the dungeons
i'm locked away
suicide ride
i take everday
prisoner in hell
victim in pain
the dungeons are calling for me


Finalmente arrivò nel luogo dell’appuntamento, una delle poche stradine della città vecchia che non fossero state spazzate via dall’esplosione della bomba atomica avvenuta nel 2063 nel centro di Manhattan. Lì, messosi a sedere con aria spavalda sopra un taxi giallo che ormai era diventato un rimasuglio schifato persino dalla ruggine, attese.
Da in fondo alla strada giunsero delle voci strafottenti. Alcuni individui poco raccomandabili uscirono nella luce di un fioco lampione sanguigno e si avvicinarono.
Erano quelli della gang dei Legionari. Erano in sei: cinque bulli in canottiera nera, guidati da un uomo dall’aria feroce, una montagna di muscoli a petto nudo, col tatuaggio di un teschio chiodato che gli galleggiava all’altezza degli addominali. Portava una catena con la quale faceva sprizzare scintille dall’asfalto. Criss si alzò in piedi e andò loro incontro.
«Ehi, bamboccio! Pronto per la tua serata?»
Criss annuì. L’altro gli schiaffò un pugno all’altezza dello stomaco. Il ragazzo si accartocciò su se stesso, poi, visto che gli altri sghignazzavano, tornò in piedi cercando di non mostrare dolore.
«Seguimi.» fece il capo di Legionari. Indossava dei pantaloni attillati di pelle nera e degli stivali che sembravano gli schinieri trafugati di un’armatura medievale. Camminarono ancora per qualche metro, poi il Legionario, che si faceva chiamare Gast, indicò un palazzo.
«Ecco. Quello è il tuo obiettivo.»
Criss ammutolì. Il palazzo era gigantesco. Non era di vetro e acciaio come la quasi totalità dei grattacieli della città nuova, ma di marmo. Enormi colonne attorniavano l’entrata principale, coperta da un timpano triangolare simile a quello dei templi greci, ormai ridotti in polvere laggiù nella vecchia Europa. Nessuno dei presenti aveva la benché minima idea di cosa fosse quel posto e se qualcuno lo aveva saputo, era probabile che ormai fosse morto da tempo.
«Cosa devo fare?»
«Lì dentro ci abita un vecchio. Deve essere molto ricco visto il posto. Beh, tu ci vai dentro e ci porti i suoi soldi. E un pezzo della sua pelle. Allora sarai dei nostri.»
«Della sue p-pelle?» mormorò il ragazzo, cominciando a sudare freddo.
«Della sua pelle! Che sei, sordo? Su, non ti abbiamo mica chiesto di ucciderlo, non ti pare?»
Criss ci pensò su.
«D’accordo.» disse infine, mordendosi le labbra. I sei annuirono soddisfatti. Lo portarono sul retro dell’edificio, dove c’era una finestrella rotta e lo issarono, in modo che lui potesse infilarcisi dentro. Criss trattenne il respiro e, in un lampo, era già all’interno.
Il palazzo era buio. Criss accese l’accendino che portava sempre in tasca e lo puntò in alto. I soffitti erano a cassettoni di legno dorato. Sui muri c’erano ciclopiche finestre che facevano passare poco o niente della malata luce al neon di New Colony. Criss deglutì e continuò a procedere in quel vasto luogo. Ed ecco, una luce si palesò nell’oscurità. Silenziosamente, il ragazzo le si avvicinò.
Vide un vecchio, seduto su una poltrona, con una lampada in mezzo alle gambe e qualcosa di rettangolare in mano. Per quanto avesse cercato di arrivare di soppiatto, il vecchio sapeva benissimo che era entrato. Anzi, si può dire che lo stesse aspettando.
«Benvenuto, ragazzo mio. Io sono Mr. Gibbs. Siediti pure.»
Criss, un accendino nella mano destra, un piccolo coltello a serramanico nell’altra, cadde in ginocchio e si mise a piangere.
«Io non lo volevo fare, signore – disse fra i singhiozzi – è che sono così arrabbiato e deluso. Il mondo mi sembra ingiusto e io mi sento così debole per cambiarlo.»
«Siediti accanto a me.» ripeté Mr. Gibbs. Il ragazzo fece come gli era stato detto e, non appena il cuscino della poltrona lo accolse, la sua bocca si aprì e lui non poté più trattenere in alcun modo le parole. Raccontò di suo padre e di sua madre, di quanto si sentisse inadeguato, delle ingiustizie del mondo, della vita dura nei sobborghi di New Colony.
«Il mio sogno – raccontò al vecchio, che se ne stava concentrato ad ascoltarlo – era quello di diventare un astronauta e di viaggiare col modulo sperimentale H-9, la colonia di terraformazione diretta su Marte. Ma ho il diabete. Già, e loro vogliono soltanto uomini sani, uomini perfetti. Sono costretto a stare qui e così non riuscirò mai a farmi una nuova vita; la miseria mi tiene agganciata con le sue catene e non c’è via di scampo.»
Mr Gibbs scosse la testa.
«C’è sempre una via d’uscita. Solo che in tempi come questi, fra schermi, astronavi e intelligenze artificiali è molto difficile vederla.»
Detto questo, chiese al ragazzo di seguirlo in una sala ancora più ampia. Il buio qui era assoluto e soltanto l’accendino del ragazzo permetteva ai due di muoversi e di non finire persi per sempre in quella carcassa della vecchia civiltà. Camminarono a lungo. Ma ecco che Mr. Gibbs si fermò, proprio all’altezza di un antico mobile di legno, come un armadio, ma senza ante e decisamente più largo. Si perdeva nell’ombra in entrambe le direzioni. Mr. Gibbs si fece passare l’accendino, che usò per scrutare meglio davanti a sé. Il mobile aveva una decina di mensole, colme di strani oggetti, simili a quello che aveva in mano il vecchio quando Criss l’aveva trovato. Mr. Gibbs ne prese uno e, dopo averlo osservato a lungo, quasi venerandolo, lo passò al ragazzo. Era freddo e liscio al tatto. Criss non aveva mai visto niente del genere in vita sua, se non nelle fotografie appartenute a suo nonno o nei vecchi film che trasmettevano raramente sullo schermo. Il vecchio sorrise.
«Non serve un’astronave per viaggiare. – disse malinconicamente – Non serve denaro per cambiare la propria vita. Serve solo la cultura.»
Detto questo, indietreggiò nell’ombra e sparì. Criss, trattenendo il respiro, l’accendino come un faro a guidarlo nel labirinto dell’antico palazzo, cercò un’uscita secondaria che potesse fargli eludere la pattuglia dei Legionari. La trovò e presto fu fuori, sotto le luci artificiali di New Colony. Si infilò l’oggetto sotto la giacca e corse a casa. Sua madre era mezza svenuta sul divano, una bottiglia di rum abbandonata fra le sue mani gonfie e unte. Suo padre doveva ancora tornare. Criss risalì silenzioso in camera, chiuse la porta e accese il vecchio lampadario, che ciondolava dal soffitto come un pipistrello.
Ora che riusciva finalmente a vederci, poté studiare meglio il suo regalo.
Mr. Gibbs non aveva mentito: gli aveva davvero dato qualcosa che gli avrebbe permesso, pur restando nello stesso posto, di viaggiare, di crescere, di imparare. Qualcosa che gli avrebbe garantito di costruirsi un futuro, permettendogli di sfuggire alla morsa di una società calcolatrice e senza umanità. Criss crebbe, lottò per poter frequentare la scuola che i ragazzi della Città Alta avevano il diritto di frequentare ma che tanto snobbavano; si diplomò a pieni voti, fu ammesso all’università pubblica di New Colony e dopo nove anni divenne un avvocato rispettato da tutti. Ma nonostante tutto il suo successo, la sua fama e la sua ricchezza, portò sempre nel cuore Mr. Gibbs, che gli aveva regalato il suo primo... libro.


Nessun commento:

Posta un commento