Molto
tempo fa, in una foresta incantata – come in tutti i luoghi magici avvenivano
al suo interno fenomeni meravigliosi: spiritelli azzurri si accendevano nel
sottobosco, voci antiche si potevano udire negli incavi degli alberi o nelle
ferite della roccia, e gli animali, così io credo ancor oggi, sapevano parlare
e far di conto – in questa foresta incantata, stavo dicendo, cresceva un albero
dal tronco d'oro e dalle foglie di puro smeraldo. Ebbene, se oggi vi recaste
nel luogo in cui sorgevano questa foresta e quest'albero, trovereste soltanto
una bigia distesa brulla, con pruni, sassi e arbusti spinosi, e al centro di
essa un enorme maniero, che dà l'impressione di salire fino al cielo, e ogni
torre, guglia e pinnacolo di questo castello, puntati orgogliosamente verso il
sole, vi sembrerebbero troppo simili alle dita di una mano mostruosa, che tenti
di tirar giù gli dèi afferrandoli per le gambe mentre essi camminano, soavi,
fra le nuvole.
Ma la
storia che stiamo raccontando – perché di storia vera si tratta, non di una
leggenda inventata da un qualsiasi scribacchino munito di una spelacchiata
piuma d'oca – questa storia che stiamo raccontando, stavo dicendo, ha luogo in
quel periodo meraviglioso, quello in cui l'albero magico e la foresta incantata
crescevano in grazia e bellezza, allungando il proprio perimetro arboreo e la
propria ombra su tutti i regni circostanti. A quel tempo, la guardiana della
foresta era Alycanta, una saggia fata dalle ali di farfalla, cresciuta nei
misteri della magia come voi e io lo siamo nelle operazioni algebriche e nella
composizione di sonetti, madrigali e canzoni.
Il
compito di Alycanta era quello di sorvegliare l'albero d'oro, che altro non era
se non l'incarnazione stessa di tutta la magia del Multiverso. Per ogni foglia
che cadeva da quell'albero, infatti, un mago moriva. Per ogni bocciolo che si
seccava, un drago si inceneriva. Per ogni radice, ramo o nodo di legno che
marciva, una fata chiudeva gli occhi per sempre. Ma non c'era da preoccuparsi,
no: l'albero era così grande, ma così grande, che poteva contenere, se solo
avesse voluto, un'intera città dei giorni nostri, con tanto di cavalli,
merlature e medici della peste, quelli col becco lungo che assomigliano a
infauste cicogne venute a portare la morte piuttosto che la salvezza.
La
vita scorreva allegra, a quei tempi. Alycanta amava tutto e tutti: la foresta
rigogliosa, gli animali che vi vivevano e che passeggiavano all'ombra delle
piante, i fiori che in estate stillavano dai petali gocce dei più preziosi e
medicamentosi incensi; ma più di tutto amava il suo albero d'oro da cui
dipendeva non solo la sua vita, ma anche quella di tutte le creature incantate
come lei.
Ma in
un giorno infausto, un giorno che era chiaro e soleggiato come gli altri, il
caso volle che un giovane principe passasse, durante una battuta di caccia,
proprio nella foresta di Alycanta. Lei se ne innamorò subito e gli prestò
soccorso quando un orso di cristallo colpì il giovane al petto, lasciandolo in
fin di vita, sanguinante, adagiato nel fango della foresta come un vecchio re
sulla propria pira. Alycanta usò tutto il suo potere per lenire le ferite del
principe, e le sue ali, per qualche istante, diventarono grigie e fragili, come
se fossero fatte di cenere. Il principe nondimeno guarì e quando riaprì gli
occhi, vedendola così bella e luminosa, le giurò eterno amore. Giacquero
insieme per tutta la notte, finché fu mattino e l'Astro rifulse nel cielo.
"Lascia
che vada da mio padre – disse allora il principe ad Alycanta – e gli annunci
che sto bene e che ho trovato la mia sposa. Poi tornerò e ti porterò con me.”
Detto questo si allontanò dalla foresta incantata sul dorso del suo fremente
destriero. Gli zoccoli del purosangue echeggiarono fra gli alberi e fra le gole
della foresta per giorni, anche dopo che lui si fu allontanato dalla vista
acuta di Alycanta.
Ma il
principe, se per malvagità o per un anatema non lo saprei dire, si dimenticò
della fata e della promessa che le aveva fatto. Arrivato in città, indossata la
sua corona d'argento, sposò una bella fanciulla proveniente dal Nord – da
Solivann, da Teuton o da Opalia, nessuna cronaca lo può più raccontare – ebbe
tre figli e morì a cinquantadue anni, colpito da una freccia elfica scoccata
nella grande battaglia sui monti di Keltar.
Quando
Alycanta seppe quello che era successo, che il suo amato l'aveva dimenticata,
impazzì. Odiò gli uomini, le loro torri, le loro spade, le loro armature. Nella
sua follia, decise che la punizione migliore per gli uomini fosse distruggere
le magia e far sì che nessuno di loro si ricordasse che era mai esistita. Senza
più gli unicorni, i draghi, gli incantatori e le fate, gli esseri umani
avrebbero creduto di essere soli, senza speranza, destinati all'oblio eterno,
al Nulla.
Allora
Alycanta prese una grande torcia e diede fuoco al grande albero d'oro. L'intera
foresta incantata tremò quando le scintille diedero vita al più grande incendio
di cui il mondo avesse memoria. Mentre le foglie, i boccioli e le radici
bruciavano, in tutti i mondi, in tutto il Multiverso, la magia veniva
lentamente consumata, riducendosi a pulviscoli di semplice cenere. Sparirono i
draghi, i leprecauni, i leviatani, e restò solo la razionalità umana, un
edificio immenso, certo, ma vuoto come lo può essere soltanto un sepolcro. E
nessuno si ricordò più di com'era la vita quando viveva il grande albero d'oro,
quando le viverne solcavano i cieli e i demoni cornuti venivano sconfitti da
cavalieri in armatura scintillante.
Alycanta
fu l'ultima a morire. Tuttavia, prima di esalare l'ultimo respiro, diede alla
luce il figlio che aveva concepito con il principe, quel lontano giorno nella
foresta incantata.
Quel
figlio sono io, colui che vi narra questa storia. Io sono l'unico che ricorda
quei tempi, perché sono nato da Alycanta, e lei era la più potente delle
creature magiche. Per anni ho vagato nella cenere della foresta incantata,
piangendo di fronte allo scempio che mia madre aveva causato, disperandomi
perché nessun folletto rispondeva con una risata cristallina ai miei
singhiozzi. Ma poi, scavando nelle braci ancora bollenti, ho salvato un seme
proveniente dal grande albero d'oro. Era vivo, vivo!
Ora
lo sto coltivando in un vaso, celato al mondo come un ladro in una piccola
casupola nascosta nelle colline. Per ogni nuovo germoglio di smeraldo che
spunta, un uomo o una donna si svegliano con un dono, grande o piccolo che sia.
Alcuni vedono gli spiriti dei morti, altri possono guarire con il semplice
tocco delle mani, altri ancora spostano gli oggetti con la forza del pensiero,
o addormentano i nemici con il canto della loro voce. E quando il grande albero
d'oro avrà guadagnato abbastanza potere da poter sopravvivere all'aridità del
mondo, andrò a piantarlo là dove sorgeva un tempo, anche a costo di espugnare
il grande maniero che ne ha usurpato il luogo, sostituendo la magia con il
deserto del progresso umano. E allora, quando l'avrò piantato, dalle radici del
grande albero d'oro usciranno i draghi, gli unicorni, le fate, i maghi, le
streghe e tutto il Piccolo Popolo. E forse anche mia madre, Alycanta.
Allora
il cielo si riempirà di musica, gli animali smetteranno di azzannarsi, i
fratelli di uccidersi, i popoli di ingannarsi, gli incendi di propagarsi, e
ovunque, in tutto il Multiverso, regnerà la pace.
O
forse si tratta solo di una mia esile speranza?