Ecco un vecchio racconto fantasy. Gustatevelo, perché per qualche tempo non vedrete più racconti fantastici, dal momento che ho deciso di provare altri generi! Per scoprire quali, continuate a visitare il mio blog! A presto!
Alvise
In cima ad una vecchia
collina, gialla in inverno e verde d’estate, viveva una donna molto
vecchia, con i capelli d’argento e gli occhi come carbone. Viveva
lì da sempre, tanto che solo la montagna poteva riconoscere, in quel
viso segnato dalla vita, la piccola bambina che era stata un tempo.
Nella pianura che si
estendeva oltre le finestre della sua casupola, sorgeva una grande
città, con torri d’avorio e mura di ferro. Sul campanile più alto
svettava un gonfalone con ricamato un drago rampante, e quando il
vento soffiava dal mare, il tessuto si animava e l’animale sembrava
volare davvero, vomitando fuoco. Era una città di mercanti e
navigatori, ricca come nemmeno Naarit, leggendaria oasi del deserto,
era stata durante il suo periodo d'oro. Ma sono gli dei a decidere il
destino degli uomini e in un anno infausto, quando sembrava che la
città fosse sul punto di espandersi e fiorire ancora di più, essi
decisero che la punizione per quei cittadini così fortunati fosse
una terribile pestilenza, un flagello che potesse ricordare agli
uomini che in fondo non erano altro che polvere tenuta insieme da un
sottile soffio caduco. Gli dèi scelsero come araldi del morbo piccoli
ratti dal pelo fulvo e dagli occhi infuocati, con denti appuntiti
come aghi da sarta. Nel giro di poco tempo quella grande città che
aveva tanto significato per gli uomini era decaduta e sul punto di
sparire per sempre. Costruire è difficile, ma distruggere è facile.
I mortali lo impararono a proprie spese.
Ma un bel giorno, la
vecchina che viveva sulla collina, che altro non era se non una
potentissima strega buona, forse la più potente di tutte, venne a
sapere della terribile maledizione che gravava sulla città e sui
suoi abitanti. Glielo riferì un corvo dal piumaggio bianco e dal
becco rosso sangue. Arrivato in un giorno di tempesta, il volatile si
appollaiò sul bastone della donna e dopo essersi arruffato per
asciugarsi dalla pioggia, gracchiò una sola parola:
“Morte!”
E così la vecchina
indossò il suo mantello di lana, spense il caminetto con uno
schiocco delle dita e si avviò verso la strada che portava alla
città. Non doveva niente a quella gente, ma la sua magia era al
sevizio dei più bisognosi. Superate le mura, sui merli delle quali
non vigilava anima viva, la strega venne colpita dall'odore di
malattia e putrefazione che aleggiava nell'aria; proveniva dai
cumuli di cadaveri ammassati agli angoli delle strade e dagli esseri,
nei quali era ormai impossibile trovare qualcosa di umano, che
arrancavano gemendo lungo le vie impolverate e lorde di icori.
Distesa sul sagrato del Tempio, una donna velata abbracciava il corpo
del neonato morto da diversi giorni, un corpicino coperto da piaghe
purulente e raggrinzito su se stesso. Gli occhi della strega si
riempirono di lacrime e il suo cuore di madre, anche se figli non ne
aveva mai avuti, si mise a sanguinare.
Facendo appello alle sue
conoscenze del mondo arcano, la donna si apprestò a scacciare la
malattia. Non aveva mai tentato un incantesimo così impegnativo, ma
il suo potere era antico e solido come le radici delle montagne. Si
pose al centro esatto della piazza, dove le strade si incontravano e
qui si mise a cantare in una lingua sconosciuta, così antica che la
sapevano parlare solo gli alberi e gli spiriti della terra. Un forte
vento iniziò a spirare, una grande luce tinse di bianco il cielo e
il male venne scacciato per sempre da quelle terre.
La vecchia strega venne
portata in trionfo per le vie della città. Il popolo la coprì di
fiori e di baci e il Re la nominò servitrice del reame, donandole
una piccola proprietà accanto alle mura, un grazioso palazzo dal
quale si poteva ammirare il Mercato e il Palazzo di Giustizia
torreggiare alla luce del sole.
Passarono molti anni e la
città tornò lo splendido gioiello che era stata. La pestilenza era
solo un brutto ricordo, un avvenimento di cui non era permesso
parlare, se non nel giorno scelto per onorare la memoria delle
vittime.
E la strega visse nella
città per molti anni, sola in quella grande casa di marmo, abbellita
da arazzi viola alle pareti e da ritratti di sconosciuti che
fissavano la fissavano alteri nelle notti di inverno.
Passarono lunghi anni e
per quanto la vecchia fosse potente, arrivò il giorno in cui la sua
magia non le sarebbe servita a nulla. La morte bussò al portone del
palazzo per riscuotere il suo pagamento. Entrò nuovamente dalla
finestra il corvo bianco con il becco rosso che gracchiava
insensatamente la stessa lugubre parola: morte, morte, morte!
E in quel momento la
donna capì di essere sola al mondo, ed ebbe paura. Gridò a gran
voce dalla finestra, chiedendo che qualcuno la soccorresse e le
stesse accanto negli ultimi momenti di vita. Le bastava il contatto
gentile di una mano umana chiusa nelle sue dita secche e macchiate
dalla vecchiaia. Ma nessuno le prestò ascolto. La folla continuava a
camminare lungo le strade polverose, con gli occhi bassi e le
orecchie insensibili. La strega si rese conto che l'avevano
dimenticata.
Allora, impaurita e
irata, li maledisse. Stese le mani verso il cielo, lanciò un ultimo
anatema e morì. Nello stesso istante in cui la sua anima si perse
nell'Eterno Altrove, vi fu un terremoto e al centro della città si
aprì una voragine terribile, un colossale buco che si perdeva in un
buio ultraterreno. Era una via che collegava il mondo dei vivi a
quello dei morti. E gli abitanti assistettero con orrore agli spettri
degli avi che iniziavano a strisciare per risalire, invadere il mondo
e distruggerlo con il loro respiro gelido e mortale.
Ma c'era un altro mago in
città. Non era potente quanto la vecchia strega, ma conosceva molti
validi incantesimi. L'uomo fece piovere dal cielo ghiaccio,
condannando la città e i suoi abitanti alla distruzione, ma in
questo modo uno spesso strato di gelo coprì la voragine come uno
scudo di vetro, diventando l'unica protezione in grado di tenere i
morti relegati nei loro cupi reami.
E ancora adesso, chi si
trova a passare per Opalia, tra le torri ghiacciate e iridescenti che
il sole fa brillare come diamanti, prega gli dei quando avverte sulla
superficie ghiacciata sinistri scricchiolii e affretta il passo con
il cuore gonfio di terrore.