Davvero...
io ci provo a scrivere storie allegre. Mi metto d'impegno, seduto
alla scrivania, con gli occhiali in bilico sul naso, e mi dico:
“Bene, Alvise. E' ora di scrivere qualcosa di allegro. Ma si,
allegro, divertente. Qualcosa del tipo coppietta che dopo un
battibecco si giura eterno amore, con sorrisi stereotipati, sguardi
melliflui, voci da diabete. Oppure le disavventure di un piccolo
barboncino che, fuggito dalla padrona durante una giornata di
pioggia, ritrova la via di casa, e percorre il parco immerso nella
luce calda del sole di giugno. Tutto qui? Non sai fare di meglio?
Fammici pensare... la storia di un bucaneve che, dopo aver sfidato il
gelo dell'inverno, fa breccia nell'algido strato di ghiaccio,
preannunciando, con il suo lattiginoso candore, la voce chiara e già
udibile della primavera. Su, Alvise! Che ci vorrà? Eddai, sforzati
un poco.”
Eppure,
nonostante tutto il mio impegno, il soprannaturale riesce ad
insinuarsi sempre nel testo, quatto quatto come un aracnide, e con
lui arriva il perturbante, l'ombra, la notte, l'omicidio, la paura.
Forse perché il soprannaturale, pur essendo terribile, turpe,
sconvolgente, risulta più vero di una realtà che di vero non ha più
nulla. E allora, cari lettori, a voi non resta che godervi un altro
racconto del terrore, e a me, di continuare a scriverli. A voi tutti
auguro un Buon Natale.
Alvise Brugnolo
Gage
saltellava sul divano come un tarantolato, scombussolando i cuscini
che Maya, sua madre, aveva riposto con precisione geometrica lungo
tutto lo schienale. Il salotto era stato addobbato in modo chic, con
lunghi festoni color oro e argento, che si sposavano bene con il
tenore dei mobili in mogano e con l'aria complessiva della casa, una
gigantesca villa nel quartiere più in vista di Londra. Mentre fuori
imperversava una nevicata di proporzioni epiche, con gli alberi quasi
spezzati dalle raffiche di vento gelido, all'interno c'era un tepore
sonnolento per via del grande caminetto acceso, un focolare tanto
alto e largo da sembrare una porta per un altro mondo. Le fiamme
crepitavano allegramente, illuminando le poltrone sulle quali
sedevano, uno di fronte all'altro, i coniugi Miller. Maya e George
Miller, il grande imprenditore edile e sua moglie, immersi in un
silenzio sepolcrale, con i nasi infilati in giornali e riviste
cariche di frivolezze.
«Stasera
arriva Babbo Natale! E mi porterà tanti regali, io lo so!» urlava a
squarciagola Gage, violando il silenzio quasi sacro della villa.
George alzò gli occhi dal giornale, occhi furbi, nascosti dietro un
paio di occhiali con la montatura dorata, e sorrise amorevolmente al
figlioletto che non la smetteva di star fermo. Avrebbe voluto leggere
il quotidiano in pace, ma non se la sentiva di intimare a Gage di
starsene zitto e tranquillo. E se poi se la fosse presa a male? Era
suo figlio e mai e poi mai avrebbe permesso che qualcuno ne
infrangesse i desideri, tanto meno se a farlo era lui stesso. Maya
era della sua stessa idea: nata in una famiglia nobile di elevate
possibilità economiche, era cresciuta nella bambagia, senza
preoccupazioni di alcun tipo, tranne forse quella di avere
pettinature ricercate e sempre alla moda. Nessuno le aveva mai detto
di no e quindi non le sembrava così strano che suo figlio, come lei,
odiasse sentirselo dire. Ed era proprio così. Gage era allergico al
no come George lo era al fieno e ai pollini. Solo che a Gage non
veniva il naso rosso o gli occhi gonfi, ma solo una crisi isterica in
grado di infrangere tutti i cristalli di Boemia messi in bella mostra
nella vetrinetta dietro al comò.
«Babbo
Natale non esiste, stupido!» esclamò una voce aspra alle loro
spalle. Tutti e tre si girarono, consapevoli di quello che avrebbero
visto: gli occhi carichi di disprezzo di Samantha, la sorella più
grande di Gage. Samantha aveva quindici anni, i capelli rosso fuoco,
e tre piercing sul naso. Vestiva sempre di nero, forse per rimarcare
il fatto che era la pecora nera della famiglia, la figlia che i
Miller col senno di poi non avrebbero mai voluto far nascere, anche
se non lo avrebbero mai ammesso solo per salvare le apparenze e la
quiete familiare. Una quiete che però era precaria quanto la pace
fra Stati Uniti e Unione Sovietica, durante la guerra fredda. Troppo
problematica, Samantha. Troppo diversa. A dieci anni, invece che
iscriversi a danza classica o ad equitazione come tutte le coetanee
di buona famiglia, si era messa in testa di voler fare muay thai. A
dodici, aveva scatenato una rissa in classe che le era costata la
sospensione per tre settimane. A tredici anni aveva voluto impegnarsi
nel sociale e dedicare tutti i week-end ad accudire i barboni. Se
Maya ci pensava le salivano ancora i brividi lungo la schiena e le
veniva su in gola il gusto del caviale che aveva degustato a
colazione. Come se ciò non bastasse, mentre i suoi genitori volevano
che facesse l'avvocato o che studiasse economia, Samantha aveva
giurato che manco morta avrebbe intrapreso la carriera universitaria,
perché preferiva darsi fuoco piuttosto che diventare come loro.
Avrebbe preferito, testuali parole, andare a vivere sotto un
ponte.
Samantha
scese le scale lentamente, facendo scivolare sinistramente le mani
bianche, con le unghie smaltate di nero, lungo il corrimano. Gage si
era fermato e la guardava con fastidio, come se lei non fosse altro
che uno scarafaggio e lui la mano che teneva la bomboletta di
insetticida.
«Babbo
Natale non esiste – ripeté lei – e sai perché? Perché se
esistesse veramente non porterebbe niente a te, bamboccio viziato che
non sei altro. E la volete sapere una cosa? Se davvero ci fosse una
giustizia a questo mondo, non solo Babbo Natale non dovrebbe portare
niente a te, Gage, ma neanche a mamma e papà. Dirò di più. Per
quello che avete fatto voi due nella vostra vita, dovrebbe portarvi
un sacco pieno di carbone e con quello darvi fuoco. E' questo che
meritate.»
George
lasciò cadere il giornale e si alzò in piedi, furibondo.
«Sentimi
bene signorinella! Non capisco perché tu ce l'abbia tanto con noi.
Non ti abbiamo mai fatto mancare nulla: puoi andare dove ti pare,
comprare ciò che ti va, vederti con chi vuoi. Che cosa abbiamo fatto
per meritarci questo?»
Maya
annuì, fissando gli occhi nel fuoco del caminetto, con la voglia di
prendere sua figlia e buttarcela dentro. Samantha batté nervosamente
il piede contro l'ultimo gradino. Il rumore che ne scaturì fu in
grado di scuotere i loro sensi, ma non le loro coscienze.
«Non
è quello che avete fatto a me o che non avete fatto a me, NO! E'
quello che avete fatto agli altri. Tu, papà! Lo sanno tutti che per
costruire il tuo impero ti sei sporcato le mani di sangue: hai
minacciato i concorrenti, hai boicottato le loro attività, hai
dichiarato il falso in tribunale, truffato migliaia di persone,
sottopagato gli operai e fatti lavorare senza sicurezza. Ne hai
uccisi quattro! Decine di figli privati dei loro genitori! Per cosa?
Per la tua Ferrari, per i tuoi completi di Armani, per il tuo ego? E
tu, mamma! Hai pensato sempre e solo a te stessa. Sei falsa, vuota e
vanesia, crudele nei tuoi gesti fino all'inverosimile. Ricordi la
zia, mamma? Tu le hai negato il tuo aiuto e lei si è uccisa!
Ricordi? Voi non meritate tutto questo, eppure la vita vi ha
favorito. Non è giusto!»
George
piegò la testa all'indietro e scoppiò a ridere.
«Non
c'è giustizia in questo mondo, cocca. Ci sono solo due tipi di
persone: i vincenti e i perdenti. I perdenti si inventano mille leggi
per impedirsi di vincere, i vincenti... I vincenti se ne fregano di
tutto e di tutti. Così è e così sarà, e nessuno può cambiare
questa cosa. Vedi questi muri, questi vetri, questo lusso? Sono miei,
MIEI, e sono disposto a tutto perché lo restino per sempre. Hai
capito?»
Samantha
scrocchiò le nocche e alzò gli occhi al cielo. Poteva sembrare che
lo facesse per sottolineare il suo ribrezzo, ma in realtà lo faceva
per nascondere le lacrime che minacciavano di caderle dagli occhi da
un momento all'altro. Fu Gage invece a scoppiare in pianto.
«Voglio
i miei regali. Voglio i miei REGALI!»
Maya
appoggiò la rivista sul bordo della poltrona e accorse a coccolare
Gage.
«Li
avrai tutti, tesoro mio. Tutti: il pony, il televisore 3D 42 pollici
e 4K, il nuovo ipad, ipod, iphone. L'universo sarà tuo!»
Gage,
eccitato da tutte quelle promesse, smise immediatamente di piangere e
scoppiò a ridere, mentre i suoi piccoli occhietti da ratto
brillavano di cupidigia. Samantha salì le scale di corsa, si
abbandonò sul cuscino e si mise a piangere. Piangeva perché il suo
fratellino era già diventato come loro, crudele, avido, disposto a
tutto pur di ottenere ciò che voleva. Ma forse, pensò la ragazza
prima di addormentarsi, forse c'era ancora speranza per lui. Solo il
tempo poteva dirlo, ma l'attesa, lei lo sapeva, era più bruciante
della verità.
La
notte calò su Londra e con essa il sonno. Tutti i bambini della
città e del mondo intero si erano rintanati sotto le coperte, in
attesa che la notte più dolce dell'anno trascorresse e lasciasse il
posto al sole nebbioso d'inverno. Sognavano dolci, giochi e sorprese,
e tutti confidavano che la mattina successiva di sorprese ne
avrebbero trovate a bizzeffe. E anche alla villa dei Miller avrebbero
avuto una grossa sorpresa, su questo non c'era dubbio.
Gage
si svegliò con un urlo prima ancora che il sole facesse capolino
dall'orizzonte.
«I
regali sono MIEI!»
Schizzò
fuori dalle coperte, con i piedi nudi e freddi che scivolavano sulla
superficie liscia del parquet. Passando davanti alla camera di sua
sorella, tirò due calci con rabbia contro la porta, poi avvicinò la
bocca alla serratura e mormorò astioso, in modo che solo lei potesse
sentire:
«E'
tutto mio, brutta stronza.» e la parola stronza, pronunciata
dalla bocca di un bambino di sette anni, risultò sgradevole quanto
una lama di rasoio passata con troppa foga ai lati del viso. Gage
compì gli ultimi gradini della scala con un balzo solo. L'albero di
Natale, addobbato fino all'inverosimile con festoni, palle di vetro,
pupazzi e biscotti, giganteggiava su di lui come il vecchio cadavere
di un re morto sul trono. Gage si gettò sul pavimento, scivolando
fino ai pacchetti regalo nascosti dalle fronde. Rimase interdetto
quando ne vide solo due. Due soli, insignificanti regali! Due soli
stupidi regali che a giudicare dalla forma, più o meno rotonda,
dovevano essere due palloni da basket. Il bambino, con il viso
contratto dall'odio, afferrò i pacchetti e cominciò a strapparne la
carta colorata con le unghie e con i denti. Regali, regali,
REGALI, bisbigliava, come in preda ad un delirio febbrile. La
carta sembrava non finire mai: per ogni strato che ne strappava,
altri dieci sbucavano, infastidendolo a morte. Stronzi.
Finalmente, il primo dei regali venne alla luce, anche se solo in
parte. Capelli. Forse una bambola, pensò Gage, ancora più furioso.
Lui voleva un pony, una TV e... Incuriosito, il bambino si fermò.
Qualcosa gli si era appiccicato sulle dita, qualcosa di denso e
colloso, come, come... Si guardò le mani. Marmellata? Ci mise
pochi secondi a capire cos'era veramente. Sangue. Con gli occhi
sgranati dal terrore, Gage girò l'oggetto in modo da vederlo
frontalmente. Erano davvero capelli. Quella che aveva scambiato prima
per un pallone e poi per una bambola, era la testa di suo padre.
Nell'altro pacchetto, che il bambino come un sonnambulo si affrettò
ad aprire, c'era quella di sua madre. I Miller avevano il viso
contratto dalla sorpresa e dalla paura. George, i cui baffi erano
incrostati di sangue secco, aveva gli occhiali dorati storti sul
naso, con le lenti sfondate come il parabrezza di automobili
sconquassate da un treno.
Samantha
venne svegliata da un pianto disperato. Lo riconobbe subito: era
Gage. Ancora intorpidita dal sonno lo raggiunse nel salone,
consapevole che doveva essere successo qualcosa di terribile. Suo
fratello era in ginocchio per terra, di fronte all'albero di Natale.
Samantha, confusa e allarmata, si avvicinò e gli poggiò una mano
sulla spalla.
«Gage,
che sta succede...»
Fu
solo allora che vide le teste dei genitori spiccate dal busto,
inzaccherate di sangue, coi capelli spettinati. Le bocche aperte. Gli
occhi sbarrati.
Urlò
con tutto il fiato che aveva in gola. In quel momento il bambino si
girò, con gli occhi rossi e gonfi di pianto. Non sembrava
spaventato, bensì deluso e furibondo. Gridava.
«Dove
sono i miei regali? Voglio i miei REGALI!»