mercoledì 25 dicembre 2013

Voci dal seminterrato - Buon Natale





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e in men che non si dica potrete immergervi nella lettura. Ai miei fedeli lettori e a chi capita su questo blog per caso, auguro Buone Feste!

lunedì 23 dicembre 2013

Sotto l'albero

Davvero... io ci provo a scrivere storie allegre. Mi metto d'impegno, seduto alla scrivania, con gli occhiali in bilico sul naso, e mi dico: “Bene, Alvise. E' ora di scrivere qualcosa di allegro. Ma si, allegro, divertente. Qualcosa del tipo coppietta che dopo un battibecco si giura eterno amore, con sorrisi stereotipati, sguardi melliflui, voci da diabete. Oppure le disavventure di un piccolo barboncino che, fuggito dalla padrona durante una giornata di pioggia, ritrova la via di casa, e percorre il parco immerso nella luce calda del sole di giugno. Tutto qui? Non sai fare di meglio? Fammici pensare... la storia di un bucaneve che, dopo aver sfidato il gelo dell'inverno, fa breccia nell'algido strato di ghiaccio, preannunciando, con il suo lattiginoso candore, la voce chiara e già udibile della primavera. Su, Alvise! Che ci vorrà? Eddai, sforzati un poco.”
Eppure, nonostante tutto il mio impegno, il soprannaturale riesce ad insinuarsi sempre nel testo, quatto quatto come un aracnide, e con lui arriva il perturbante, l'ombra, la notte, l'omicidio, la paura. Forse perché il soprannaturale, pur essendo terribile, turpe, sconvolgente, risulta più vero di una realtà che di vero non ha più nulla. E allora, cari lettori, a voi non resta che godervi un altro racconto del terrore, e a me, di continuare a scriverli. A voi tutti auguro un Buon Natale. 
Alvise Brugnolo






Gage saltellava sul divano come un tarantolato, scombussolando i cuscini che Maya, sua madre, aveva riposto con precisione geometrica lungo tutto lo schienale. Il salotto era stato addobbato in modo chic, con lunghi festoni color oro e argento, che si sposavano bene con il tenore dei mobili in mogano e con l'aria complessiva della casa, una gigantesca villa nel quartiere più in vista di Londra. Mentre fuori imperversava una nevicata di proporzioni epiche, con gli alberi quasi spezzati dalle raffiche di vento gelido, all'interno c'era un tepore sonnolento per via del grande caminetto acceso, un focolare tanto alto e largo da sembrare una porta per un altro mondo. Le fiamme crepitavano allegramente, illuminando le poltrone sulle quali sedevano, uno di fronte all'altro, i coniugi Miller. Maya e George Miller, il grande imprenditore edile e sua moglie, immersi in un silenzio sepolcrale, con i nasi infilati in giornali e riviste cariche di frivolezze.
«Stasera arriva Babbo Natale! E mi porterà tanti regali, io lo so!» urlava a squarciagola Gage, violando il silenzio quasi sacro della villa. George alzò gli occhi dal giornale, occhi furbi, nascosti dietro un paio di occhiali con la montatura dorata, e sorrise amorevolmente al figlioletto che non la smetteva di star fermo. Avrebbe voluto leggere il quotidiano in pace, ma non se la sentiva di intimare a Gage di starsene zitto e tranquillo. E se poi se la fosse presa a male? Era suo figlio e mai e poi mai avrebbe permesso che qualcuno ne infrangesse i desideri, tanto meno se a farlo era lui stesso. Maya era della sua stessa idea: nata in una famiglia nobile di elevate possibilità economiche, era cresciuta nella bambagia, senza preoccupazioni di alcun tipo, tranne forse quella di avere pettinature ricercate e sempre alla moda. Nessuno le aveva mai detto di no e quindi non le sembrava così strano che suo figlio, come lei, odiasse sentirselo dire. Ed era proprio così. Gage era allergico al no come George lo era al fieno e ai pollini. Solo che a Gage non veniva il naso rosso o gli occhi gonfi, ma solo una crisi isterica in grado di infrangere tutti i cristalli di Boemia messi in bella mostra nella vetrinetta dietro al comò.
«Babbo Natale non esiste, stupido!» esclamò una voce aspra alle loro spalle. Tutti e tre si girarono, consapevoli di quello che avrebbero visto: gli occhi carichi di disprezzo di Samantha, la sorella più grande di Gage. Samantha aveva quindici anni, i capelli rosso fuoco, e tre piercing sul naso. Vestiva sempre di nero, forse per rimarcare il fatto che era la pecora nera della famiglia, la figlia che i Miller col senno di poi non avrebbero mai voluto far nascere, anche se non lo avrebbero mai ammesso solo per salvare le apparenze e la quiete familiare. Una quiete che però era precaria quanto la pace fra Stati Uniti e Unione Sovietica, durante la guerra fredda. Troppo problematica, Samantha. Troppo diversa. A dieci anni, invece che iscriversi a danza classica o ad equitazione come tutte le coetanee di buona famiglia, si era messa in testa di voler fare muay thai. A dodici, aveva scatenato una rissa in classe che le era costata la sospensione per tre settimane. A tredici anni aveva voluto impegnarsi nel sociale e dedicare tutti i week-end ad accudire i barboni. Se Maya ci pensava le salivano ancora i brividi lungo la schiena e le veniva su in gola il gusto del caviale che aveva degustato a colazione. Come se ciò non bastasse, mentre i suoi genitori volevano che facesse l'avvocato o che studiasse economia, Samantha aveva giurato che manco morta avrebbe intrapreso la carriera universitaria, perché preferiva darsi fuoco piuttosto che diventare come loro. Avrebbe preferito, testuali parole, andare a vivere sotto un ponte.
Samantha scese le scale lentamente, facendo scivolare sinistramente le mani bianche, con le unghie smaltate di nero, lungo il corrimano. Gage si era fermato e la guardava con fastidio, come se lei non fosse altro che uno scarafaggio e lui la mano che teneva la bomboletta di insetticida.
«Babbo Natale non esiste – ripeté lei – e sai perché? Perché se esistesse veramente non porterebbe niente a te, bamboccio viziato che non sei altro. E la volete sapere una cosa? Se davvero ci fosse una giustizia a questo mondo, non solo Babbo Natale non dovrebbe portare niente a te, Gage, ma neanche a mamma e papà. Dirò di più. Per quello che avete fatto voi due nella vostra vita, dovrebbe portarvi un sacco pieno di carbone e con quello darvi fuoco. E' questo che meritate.»
George lasciò cadere il giornale e si alzò in piedi, furibondo.
«Sentimi bene signorinella! Non capisco perché tu ce l'abbia tanto con noi. Non ti abbiamo mai fatto mancare nulla: puoi andare dove ti pare, comprare ciò che ti va, vederti con chi vuoi. Che cosa abbiamo fatto per meritarci questo?»
Maya annuì, fissando gli occhi nel fuoco del caminetto, con la voglia di prendere sua figlia e buttarcela dentro. Samantha batté nervosamente il piede contro l'ultimo gradino. Il rumore che ne scaturì fu in grado di scuotere i loro sensi, ma non le loro coscienze.
«Non è quello che avete fatto a me o che non avete fatto a me, NO! E' quello che avete fatto agli altri. Tu, papà! Lo sanno tutti che per costruire il tuo impero ti sei sporcato le mani di sangue: hai minacciato i concorrenti, hai boicottato le loro attività, hai dichiarato il falso in tribunale, truffato migliaia di persone, sottopagato gli operai e fatti lavorare senza sicurezza. Ne hai uccisi quattro! Decine di figli privati dei loro genitori! Per cosa? Per la tua Ferrari, per i tuoi completi di Armani, per il tuo ego? E tu, mamma! Hai pensato sempre e solo a te stessa. Sei falsa, vuota e vanesia, crudele nei tuoi gesti fino all'inverosimile. Ricordi la zia, mamma? Tu le hai negato il tuo aiuto e lei si è uccisa! Ricordi? Voi non meritate tutto questo, eppure la vita vi ha favorito. Non è giusto!»
George piegò la testa all'indietro e scoppiò a ridere.
«Non c'è giustizia in questo mondo, cocca. Ci sono solo due tipi di persone: i vincenti e i perdenti. I perdenti si inventano mille leggi per impedirsi di vincere, i vincenti... I vincenti se ne fregano di tutto e di tutti. Così è e così sarà, e nessuno può cambiare questa cosa. Vedi questi muri, questi vetri, questo lusso? Sono miei, MIEI, e sono disposto a tutto perché lo restino per sempre. Hai capito?»
Samantha scrocchiò le nocche e alzò gli occhi al cielo. Poteva sembrare che lo facesse per sottolineare il suo ribrezzo, ma in realtà lo faceva per nascondere le lacrime che minacciavano di caderle dagli occhi da un momento all'altro. Fu Gage invece a scoppiare in pianto.
«Voglio i miei regali. Voglio i miei REGALI!»
Maya appoggiò la rivista sul bordo della poltrona e accorse a coccolare Gage.
«Li avrai tutti, tesoro mio. Tutti: il pony, il televisore 3D 42 pollici e 4K, il nuovo ipad, ipod, iphone. L'universo sarà tuo!»
Gage, eccitato da tutte quelle promesse, smise immediatamente di piangere e scoppiò a ridere, mentre i suoi piccoli occhietti da ratto brillavano di cupidigia. Samantha salì le scale di corsa, si abbandonò sul cuscino e si mise a piangere. Piangeva perché il suo fratellino era già diventato come loro, crudele, avido, disposto a tutto pur di ottenere ciò che voleva. Ma forse, pensò la ragazza prima di addormentarsi, forse c'era ancora speranza per lui. Solo il tempo poteva dirlo, ma l'attesa, lei lo sapeva, era più bruciante della verità.
La notte calò su Londra e con essa il sonno. Tutti i bambini della città e del mondo intero si erano rintanati sotto le coperte, in attesa che la notte più dolce dell'anno trascorresse e lasciasse il posto al sole nebbioso d'inverno. Sognavano dolci, giochi e sorprese, e tutti confidavano che la mattina successiva di sorprese ne avrebbero trovate a bizzeffe. E anche alla villa dei Miller avrebbero avuto una grossa sorpresa, su questo non c'era dubbio.
Gage si svegliò con un urlo prima ancora che il sole facesse capolino dall'orizzonte.
«I regali sono MIEI!»
Schizzò fuori dalle coperte, con i piedi nudi e freddi che scivolavano sulla superficie liscia del parquet. Passando davanti alla camera di sua sorella, tirò due calci con rabbia contro la porta, poi avvicinò la bocca alla serratura e mormorò astioso, in modo che solo lei potesse sentire:
«E' tutto mio, brutta stronza.» e la parola stronza, pronunciata dalla bocca di un bambino di sette anni, risultò sgradevole quanto una lama di rasoio passata con troppa foga ai lati del viso. Gage compì gli ultimi gradini della scala con un balzo solo. L'albero di Natale, addobbato fino all'inverosimile con festoni, palle di vetro, pupazzi e biscotti, giganteggiava su di lui come il vecchio cadavere di un re morto sul trono. Gage si gettò sul pavimento, scivolando fino ai pacchetti regalo nascosti dalle fronde. Rimase interdetto quando ne vide solo due. Due soli, insignificanti regali! Due soli stupidi regali che a giudicare dalla forma, più o meno rotonda, dovevano essere due palloni da basket. Il bambino, con il viso contratto dall'odio, afferrò i pacchetti e cominciò a strapparne la carta colorata con le unghie e con i denti. Regali, regali, REGALI, bisbigliava, come in preda ad un delirio febbrile. La carta sembrava non finire mai: per ogni strato che ne strappava, altri dieci sbucavano, infastidendolo a morte. Stronzi. Finalmente, il primo dei regali venne alla luce, anche se solo in parte. Capelli. Forse una bambola, pensò Gage, ancora più furioso. Lui voleva un pony, una TV e... Incuriosito, il bambino si fermò. Qualcosa gli si era appiccicato sulle dita, qualcosa di denso e colloso, come, come... Si guardò le mani. Marmellata? Ci mise pochi secondi a capire cos'era veramente. Sangue. Con gli occhi sgranati dal terrore, Gage girò l'oggetto in modo da vederlo frontalmente. Erano davvero capelli. Quella che aveva scambiato prima per un pallone e poi per una bambola, era la testa di suo padre. Nell'altro pacchetto, che il bambino come un sonnambulo si affrettò ad aprire, c'era quella di sua madre. I Miller avevano il viso contratto dalla sorpresa e dalla paura. George, i cui baffi erano incrostati di sangue secco, aveva gli occhiali dorati storti sul naso, con le lenti sfondate come il parabrezza di automobili sconquassate da un treno.
Samantha venne svegliata da un pianto disperato. Lo riconobbe subito: era Gage. Ancora intorpidita dal sonno lo raggiunse nel salone, consapevole che doveva essere successo qualcosa di terribile. Suo fratello era in ginocchio per terra, di fronte all'albero di Natale. Samantha, confusa e allarmata, si avvicinò e gli poggiò una mano sulla spalla.
«Gage, che sta succede...»
Fu solo allora che vide le teste dei genitori spiccate dal busto, inzaccherate di sangue, coi capelli spettinati. Le bocche aperte. Gli occhi sbarrati.
Urlò con tutto il fiato che aveva in gola. In quel momento il bambino si girò, con gli occhi rossi e gonfi di pianto. Non sembrava spaventato, bensì deluso e furibondo. Gridava.
«Dove sono i miei regali? Voglio i miei REGALI!»