mercoledì 25 dicembre 2013

Voci dal seminterrato - Buon Natale





Come dite? Non avete ancora acquistato l'ebook Voci dal seminterrato, una raccolta di racconti del fantastico e del terrore che sapranno regalarvi un Natale da brivido? Non preoccupatevi: la soluzione è a portata di click! Seguite il link 
e in men che non si dica potrete immergervi nella lettura. Ai miei fedeli lettori e a chi capita su questo blog per caso, auguro Buone Feste!

lunedì 23 dicembre 2013

Sotto l'albero

Davvero... io ci provo a scrivere storie allegre. Mi metto d'impegno, seduto alla scrivania, con gli occhiali in bilico sul naso, e mi dico: “Bene, Alvise. E' ora di scrivere qualcosa di allegro. Ma si, allegro, divertente. Qualcosa del tipo coppietta che dopo un battibecco si giura eterno amore, con sorrisi stereotipati, sguardi melliflui, voci da diabete. Oppure le disavventure di un piccolo barboncino che, fuggito dalla padrona durante una giornata di pioggia, ritrova la via di casa, e percorre il parco immerso nella luce calda del sole di giugno. Tutto qui? Non sai fare di meglio? Fammici pensare... la storia di un bucaneve che, dopo aver sfidato il gelo dell'inverno, fa breccia nell'algido strato di ghiaccio, preannunciando, con il suo lattiginoso candore, la voce chiara e già udibile della primavera. Su, Alvise! Che ci vorrà? Eddai, sforzati un poco.”
Eppure, nonostante tutto il mio impegno, il soprannaturale riesce ad insinuarsi sempre nel testo, quatto quatto come un aracnide, e con lui arriva il perturbante, l'ombra, la notte, l'omicidio, la paura. Forse perché il soprannaturale, pur essendo terribile, turpe, sconvolgente, risulta più vero di una realtà che di vero non ha più nulla. E allora, cari lettori, a voi non resta che godervi un altro racconto del terrore, e a me, di continuare a scriverli. A voi tutti auguro un Buon Natale. 
Alvise Brugnolo






Gage saltellava sul divano come un tarantolato, scombussolando i cuscini che Maya, sua madre, aveva riposto con precisione geometrica lungo tutto lo schienale. Il salotto era stato addobbato in modo chic, con lunghi festoni color oro e argento, che si sposavano bene con il tenore dei mobili in mogano e con l'aria complessiva della casa, una gigantesca villa nel quartiere più in vista di Londra. Mentre fuori imperversava una nevicata di proporzioni epiche, con gli alberi quasi spezzati dalle raffiche di vento gelido, all'interno c'era un tepore sonnolento per via del grande caminetto acceso, un focolare tanto alto e largo da sembrare una porta per un altro mondo. Le fiamme crepitavano allegramente, illuminando le poltrone sulle quali sedevano, uno di fronte all'altro, i coniugi Miller. Maya e George Miller, il grande imprenditore edile e sua moglie, immersi in un silenzio sepolcrale, con i nasi infilati in giornali e riviste cariche di frivolezze.
«Stasera arriva Babbo Natale! E mi porterà tanti regali, io lo so!» urlava a squarciagola Gage, violando il silenzio quasi sacro della villa. George alzò gli occhi dal giornale, occhi furbi, nascosti dietro un paio di occhiali con la montatura dorata, e sorrise amorevolmente al figlioletto che non la smetteva di star fermo. Avrebbe voluto leggere il quotidiano in pace, ma non se la sentiva di intimare a Gage di starsene zitto e tranquillo. E se poi se la fosse presa a male? Era suo figlio e mai e poi mai avrebbe permesso che qualcuno ne infrangesse i desideri, tanto meno se a farlo era lui stesso. Maya era della sua stessa idea: nata in una famiglia nobile di elevate possibilità economiche, era cresciuta nella bambagia, senza preoccupazioni di alcun tipo, tranne forse quella di avere pettinature ricercate e sempre alla moda. Nessuno le aveva mai detto di no e quindi non le sembrava così strano che suo figlio, come lei, odiasse sentirselo dire. Ed era proprio così. Gage era allergico al no come George lo era al fieno e ai pollini. Solo che a Gage non veniva il naso rosso o gli occhi gonfi, ma solo una crisi isterica in grado di infrangere tutti i cristalli di Boemia messi in bella mostra nella vetrinetta dietro al comò.
«Babbo Natale non esiste, stupido!» esclamò una voce aspra alle loro spalle. Tutti e tre si girarono, consapevoli di quello che avrebbero visto: gli occhi carichi di disprezzo di Samantha, la sorella più grande di Gage. Samantha aveva quindici anni, i capelli rosso fuoco, e tre piercing sul naso. Vestiva sempre di nero, forse per rimarcare il fatto che era la pecora nera della famiglia, la figlia che i Miller col senno di poi non avrebbero mai voluto far nascere, anche se non lo avrebbero mai ammesso solo per salvare le apparenze e la quiete familiare. Una quiete che però era precaria quanto la pace fra Stati Uniti e Unione Sovietica, durante la guerra fredda. Troppo problematica, Samantha. Troppo diversa. A dieci anni, invece che iscriversi a danza classica o ad equitazione come tutte le coetanee di buona famiglia, si era messa in testa di voler fare muay thai. A dodici, aveva scatenato una rissa in classe che le era costata la sospensione per tre settimane. A tredici anni aveva voluto impegnarsi nel sociale e dedicare tutti i week-end ad accudire i barboni. Se Maya ci pensava le salivano ancora i brividi lungo la schiena e le veniva su in gola il gusto del caviale che aveva degustato a colazione. Come se ciò non bastasse, mentre i suoi genitori volevano che facesse l'avvocato o che studiasse economia, Samantha aveva giurato che manco morta avrebbe intrapreso la carriera universitaria, perché preferiva darsi fuoco piuttosto che diventare come loro. Avrebbe preferito, testuali parole, andare a vivere sotto un ponte.
Samantha scese le scale lentamente, facendo scivolare sinistramente le mani bianche, con le unghie smaltate di nero, lungo il corrimano. Gage si era fermato e la guardava con fastidio, come se lei non fosse altro che uno scarafaggio e lui la mano che teneva la bomboletta di insetticida.
«Babbo Natale non esiste – ripeté lei – e sai perché? Perché se esistesse veramente non porterebbe niente a te, bamboccio viziato che non sei altro. E la volete sapere una cosa? Se davvero ci fosse una giustizia a questo mondo, non solo Babbo Natale non dovrebbe portare niente a te, Gage, ma neanche a mamma e papà. Dirò di più. Per quello che avete fatto voi due nella vostra vita, dovrebbe portarvi un sacco pieno di carbone e con quello darvi fuoco. E' questo che meritate.»
George lasciò cadere il giornale e si alzò in piedi, furibondo.
«Sentimi bene signorinella! Non capisco perché tu ce l'abbia tanto con noi. Non ti abbiamo mai fatto mancare nulla: puoi andare dove ti pare, comprare ciò che ti va, vederti con chi vuoi. Che cosa abbiamo fatto per meritarci questo?»
Maya annuì, fissando gli occhi nel fuoco del caminetto, con la voglia di prendere sua figlia e buttarcela dentro. Samantha batté nervosamente il piede contro l'ultimo gradino. Il rumore che ne scaturì fu in grado di scuotere i loro sensi, ma non le loro coscienze.
«Non è quello che avete fatto a me o che non avete fatto a me, NO! E' quello che avete fatto agli altri. Tu, papà! Lo sanno tutti che per costruire il tuo impero ti sei sporcato le mani di sangue: hai minacciato i concorrenti, hai boicottato le loro attività, hai dichiarato il falso in tribunale, truffato migliaia di persone, sottopagato gli operai e fatti lavorare senza sicurezza. Ne hai uccisi quattro! Decine di figli privati dei loro genitori! Per cosa? Per la tua Ferrari, per i tuoi completi di Armani, per il tuo ego? E tu, mamma! Hai pensato sempre e solo a te stessa. Sei falsa, vuota e vanesia, crudele nei tuoi gesti fino all'inverosimile. Ricordi la zia, mamma? Tu le hai negato il tuo aiuto e lei si è uccisa! Ricordi? Voi non meritate tutto questo, eppure la vita vi ha favorito. Non è giusto!»
George piegò la testa all'indietro e scoppiò a ridere.
«Non c'è giustizia in questo mondo, cocca. Ci sono solo due tipi di persone: i vincenti e i perdenti. I perdenti si inventano mille leggi per impedirsi di vincere, i vincenti... I vincenti se ne fregano di tutto e di tutti. Così è e così sarà, e nessuno può cambiare questa cosa. Vedi questi muri, questi vetri, questo lusso? Sono miei, MIEI, e sono disposto a tutto perché lo restino per sempre. Hai capito?»
Samantha scrocchiò le nocche e alzò gli occhi al cielo. Poteva sembrare che lo facesse per sottolineare il suo ribrezzo, ma in realtà lo faceva per nascondere le lacrime che minacciavano di caderle dagli occhi da un momento all'altro. Fu Gage invece a scoppiare in pianto.
«Voglio i miei regali. Voglio i miei REGALI!»
Maya appoggiò la rivista sul bordo della poltrona e accorse a coccolare Gage.
«Li avrai tutti, tesoro mio. Tutti: il pony, il televisore 3D 42 pollici e 4K, il nuovo ipad, ipod, iphone. L'universo sarà tuo!»
Gage, eccitato da tutte quelle promesse, smise immediatamente di piangere e scoppiò a ridere, mentre i suoi piccoli occhietti da ratto brillavano di cupidigia. Samantha salì le scale di corsa, si abbandonò sul cuscino e si mise a piangere. Piangeva perché il suo fratellino era già diventato come loro, crudele, avido, disposto a tutto pur di ottenere ciò che voleva. Ma forse, pensò la ragazza prima di addormentarsi, forse c'era ancora speranza per lui. Solo il tempo poteva dirlo, ma l'attesa, lei lo sapeva, era più bruciante della verità.
La notte calò su Londra e con essa il sonno. Tutti i bambini della città e del mondo intero si erano rintanati sotto le coperte, in attesa che la notte più dolce dell'anno trascorresse e lasciasse il posto al sole nebbioso d'inverno. Sognavano dolci, giochi e sorprese, e tutti confidavano che la mattina successiva di sorprese ne avrebbero trovate a bizzeffe. E anche alla villa dei Miller avrebbero avuto una grossa sorpresa, su questo non c'era dubbio.
Gage si svegliò con un urlo prima ancora che il sole facesse capolino dall'orizzonte.
«I regali sono MIEI!»
Schizzò fuori dalle coperte, con i piedi nudi e freddi che scivolavano sulla superficie liscia del parquet. Passando davanti alla camera di sua sorella, tirò due calci con rabbia contro la porta, poi avvicinò la bocca alla serratura e mormorò astioso, in modo che solo lei potesse sentire:
«E' tutto mio, brutta stronza.» e la parola stronza, pronunciata dalla bocca di un bambino di sette anni, risultò sgradevole quanto una lama di rasoio passata con troppa foga ai lati del viso. Gage compì gli ultimi gradini della scala con un balzo solo. L'albero di Natale, addobbato fino all'inverosimile con festoni, palle di vetro, pupazzi e biscotti, giganteggiava su di lui come il vecchio cadavere di un re morto sul trono. Gage si gettò sul pavimento, scivolando fino ai pacchetti regalo nascosti dalle fronde. Rimase interdetto quando ne vide solo due. Due soli, insignificanti regali! Due soli stupidi regali che a giudicare dalla forma, più o meno rotonda, dovevano essere due palloni da basket. Il bambino, con il viso contratto dall'odio, afferrò i pacchetti e cominciò a strapparne la carta colorata con le unghie e con i denti. Regali, regali, REGALI, bisbigliava, come in preda ad un delirio febbrile. La carta sembrava non finire mai: per ogni strato che ne strappava, altri dieci sbucavano, infastidendolo a morte. Stronzi. Finalmente, il primo dei regali venne alla luce, anche se solo in parte. Capelli. Forse una bambola, pensò Gage, ancora più furioso. Lui voleva un pony, una TV e... Incuriosito, il bambino si fermò. Qualcosa gli si era appiccicato sulle dita, qualcosa di denso e colloso, come, come... Si guardò le mani. Marmellata? Ci mise pochi secondi a capire cos'era veramente. Sangue. Con gli occhi sgranati dal terrore, Gage girò l'oggetto in modo da vederlo frontalmente. Erano davvero capelli. Quella che aveva scambiato prima per un pallone e poi per una bambola, era la testa di suo padre. Nell'altro pacchetto, che il bambino come un sonnambulo si affrettò ad aprire, c'era quella di sua madre. I Miller avevano il viso contratto dalla sorpresa e dalla paura. George, i cui baffi erano incrostati di sangue secco, aveva gli occhiali dorati storti sul naso, con le lenti sfondate come il parabrezza di automobili sconquassate da un treno.
Samantha venne svegliata da un pianto disperato. Lo riconobbe subito: era Gage. Ancora intorpidita dal sonno lo raggiunse nel salone, consapevole che doveva essere successo qualcosa di terribile. Suo fratello era in ginocchio per terra, di fronte all'albero di Natale. Samantha, confusa e allarmata, si avvicinò e gli poggiò una mano sulla spalla.
«Gage, che sta succede...»
Fu solo allora che vide le teste dei genitori spiccate dal busto, inzaccherate di sangue, coi capelli spettinati. Le bocche aperte. Gli occhi sbarrati.
Urlò con tutto il fiato che aveva in gola. In quel momento il bambino si girò, con gli occhi rossi e gonfi di pianto. Non sembrava spaventato, bensì deluso e furibondo. Gridava.
«Dove sono i miei regali? Voglio i miei REGALI!»

giovedì 14 novembre 2013

Grigio Ghiaccio

Un amore che finisce, la solitudine che avanza e, come una nebbia, ricopre tutto. Grigio Ghiaccio. Buona lettura. Alvise Brugnolo





La luce dell'appartamento era soffusa. L'abat-jour sulla libreria del salotto mandava flebili raggi, sottili come ragnatele, che si proiettavano sul soffitto formando un complesso gioco di riflessi. Jack si tolse le scarpe, il soprabito e il cappello. Fece tutto in punta di piedi, per paura che Kim si fosse appisolata sul divano. Kim invece era sveglia.
«Bentornato. Come è andata al lavoro?» gli chiese la donna, con lo stesso tono con cui si sarebbe rivolta ad un sintetizzatore vocale. L'uomo si avvicinò e la baciò. Le labbra di Kim erano soffici, ma gelide.
«Tutto bene.» rispose lui, pensieroso. Si piantò in mezzo alla stanza e osservò la moglie, come se non la vedesse da tanto tempo. Era sempre bellissima, nonostante fossero passati quindici anni dal loro matrimonio. Aveva mantenuto il fisico tonico, statuario, che l'aveva tanto eccitato nel giorno del loro primo incontro. I suoi capelli erano ancora d'oro e non c'era nessun intruso bianco a rovinarli. Una cosa però era cambiata. Il suo sorriso. Jack non ricordava più l'ultima volta in cui Kim gli aveva sorriso. Era diventata grigia, più grigia della città nei giorni di nebbia. Cosa succede, avrebbe voluto chiederle, che cosa ti manca? Ma non aveva il coraggio. Ti ho sempre dato tutto me stesso! Non ti è bastato? Perché sei così triste? Fingeva di non sapere, ma aveva già la risposta. Era così chiara. Kim non lo amava più. La donna gli aveva mentito. Jack se lo ricordava ancora: in un giorno di pioggia, sotto il tetto di una vecchia chiesa abbandonata, che quasi cadeva a pezzi, Kim gli aveva promesso eterno amore. Per sempre, aveva detto. Bugiarda! Giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, i suoi occhi si erano spenti, come quelli di un moribondo. La sua voce si era spenta, esaurita dietro ad un muro di silenzio e incomprensione. E' per colpa dei bambini che non sono venuti? voleva chiederle Jack, invece restò zitto. Ci avevano provato per anni, ma il test di gravidanza aveva sempre distrutto le loro speranze. Li aveva fatti crollare. E con il tempo non ci avevano provato nemmeno più. Erano rimasti solo loro due e la casa enorme, che avevano acquistato proprio in previsione dell'arrivo dei loro bambini. Illusi che siamo! Avevano desiderato voci, giochi, pianti, ma invece avevano solo stanze su stanze, vuote, con lettini vuoti, armadi vuoti, scrivanie vuote, portalampade vuoti. Anche loro erano diventati vuoti, pian piano, senza nemmeno accorgersene. Erano cambiati come la città, sempre più grigia, troppi palazzi piovuti come tante piccole tragedie, sempre meno spazio per vivere. Rivoglio quella che eri, Kim! Avevi una fiamma per me. Che fine ha fatto? E' ancora accesa, langue o è morta, morta, morta, morta, morta, morta, morta, morta, morta, MORTA?
«Perché mi guardi così?» domandò Kim, con voce piatta. Jack si sforzò di sorridere. Non si era nemmeno accorto di essere rimasto in piedi, come un pupazzo di legno, per almeno dieci minuti.
«Ti guardo perché sei bella.» rispose, tremando per l'emozione come se glielo stesse dicendo per la prima volta, in piedi, davanti agli armadietti metallici della scuola. Sei bella. Si avvicinò al divano, mentre Beethoven usciva dalle casse del sistema hi-fi, indiavolato, passionale. Vivo. Jack si inginocchiò e le abbracciò le gambe. Iniziò a baciarle, risalendo sempre più su, verso i pantaloncini corti, che enfatizzavano le curve sode della donna. Kim iniziò a ridere. Una risata che sembrava più una coltellata.
«Cosa stai facendo? Non ne ho voglia.» rispose, algida. Risuonò come: Cosa stai facendo? Non hai più diritto. Jack si rialzò, ammosciato. Voleva aprire la bocca e gridare. Amiamoci! E' solo questo che conta. La vita è una merda, ti fai un culo così per guadagnare soldi altrimenti non hai futuro, lavori come un animale fino a settant'anni e poi muori, e forse finisce tutto lì. Stare assieme ed essere felici è la sola nostra salvezza. Invece restò zitto. Si rialzò e si versò dello scotch, che consumò lentamente. Tanto non gli piaceva neppure, lo beveva solo per sentirsi più uomo. Kim era sempre lì, mummificata su quel divano. Jack guadagnava abbastanza perché sua moglie potesse scegliere di non lavorare, e lei col tempo ci aveva preso gusto. Se ne stava lì o al club. Al club spettegolava e correva sulla cyclette, in compagnia di altre donne, anche loro con soldi da sprecare in personal trainer e saune bollenti. A casa poltriva sul divano, con le gambe lisce tese, e i piedi accavallati sul pouf. Tra le mani giornali di gossip, di moda. Cose futili, amorfe, pagine su pagine piene di colori, un inganno per nascondere quello che stava dietro. Niente. Vite vuote.
«Hai sentito di George?» esclamò improvvisamente Kim.
«Chi?» rispose Jack, ancora assorto nel suo bicchiere. Kim sbuffò.
«Come chi? Il figlio di William e Kate! Ma dove vivi?»
Già. Dove vivo? Se vivere significava soltanto osservare la vita degli altri da spettatori passivi, Jack era fiero di essere morto. Morto, morto, morto, morto, MORTO. Come poteva Kim non vedere che la sua vita si dileguava ogni giorno di più? Era come se fosse già morta. Aveva tutto, ma non aveva niente. Perché i soldi non possono comprare la felicità? Perché sei così cieca, Kim? si chiese Jack e, dal momento che non aveva una risposta, si versò altri due bicchieri di scotch, questa volta con ghiaccio. Si era illuso, credendo che per loro ci fosse ancora speranza. Non ne avevano mai avuta.
«Credo che domani andrò a fare dello shopping con le mie amiche. Non ho più scarpe da mettere.»
«Non ho più scarpe da mettere? Ne hai un armadio pieno.» ribatté Jack, non riuscendo a modulare la voce, che uscì rancorosa, tagliente. Kim si voltò appena.
«Proprio non capisci. Quest'anno va il grigio, e io ho solo rosso, verde! Capisci? Verde!»
Grigio. Il grigio non passa mai di moda. Tutto è grigio. Sei un fantasma Kim. Credi di essere ancora nella tua casa, ma sei in un limbo, non ti puoi più svegliare. Anche Jack comprese di essere un fantasma. Viveva di ricordi. E solo i morti vivono di ricordi. I ricordi sono illusioni, non danno emozioni e se le danno sono falsate, increspate dal tempo, rese irriconoscibili dall'umore del presente. Fantasmi. Ma Jack sapeva come combattere tutta quella morte. Lo sapeva da anni. Il freddo si può sconfiggere. Kim parlava ancora, elogiava la sfilata di un nuovo stilista svedese dal nome impronunciabile, e la sua incredibile capacità di creare vestiti assolutamente obbrobriosi ma proprio per questo così sublimi, di una perfezione grottesca. Una mano scese furtiva sul divano. Afferrò uno dei tanti cuscini grigi. La voce di Kim si spezzò. Si dibatté a lungo sul divano. Sembrava che ci fosse ancora vita in lei, ma Jack non si sarebbe fatto ingannare. Premette il cuscino su quella bocca così fredda con ancora più forza. Ti amo, avrebbe voluto dire, ti ho sempre amata, e lo sto facendo per te, per noi. Invece rimase zitto.




lunedì 4 novembre 2013

Angolo delle poesie

La poesia di oggi è Spesso il male di vivere ho incontrato di Eugenio Montale. Contenuta in Ossi di seppia (1925), la poesia parla della sofferenza e del disagio, presenze costanti nella vita di tutti gli esseri viventi. La poesia ha una struttura antitetica: la prima quartina parla del male, la seconda del bene o piuttosto della resistenza passiva al male. Vi è un'allusione all'esistenza di un dio, ma esso è distante, è l'Indifferenza. Secondo il poeta, l'indifferenza è l'unico modo per non soffrire, in quanto ci allontana, anche se solo per un attimo, dalla realtà.





Spesso il male di vivere ho incontrato
Eugenio Montale


Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.



giovedì 31 ottobre 2013

In una notte come questa

Quale serata migliore per una storia di fantasmi? Buon Halloween a tutti! 
Alvise Brugnolo




È ora, è ora
La mezzanotte è scoccata
Le zucche sono pronte
La strada si riempie
di voci e di suoni
Un esercito di bambini
con maschere e mantelli
invade la notte
Una bambina più piccola
sotto un lenzuolo bianco
cammina nei giardini
bussa alle porte
ma nessuno le apre
Da sola se ne va
Senza una meta
Tra le mani un sacco vuoto
Incrocia molti bambini
vorrebbe fermarli
vorrebbe raccontare
la verità
Ero anch'io come voi
vorrebbe dire
Avevo anch'io sogni
Avevo anch'io la mia storia
Ma in una notte come questa
tra le mani di un mostro
ho finito la mia vita
In un canale di scolo
ora riposa
sotto un lenzuolo
intriso di sangue
La notte la piange
Cammina nei giardini
bussa alle porte
ma nessuno le apre
Da sola se ne va
Senza una meta
Tra le mani un sacco vuoto
Incrocia molti bambini
vorrebbe fermarli
vorrebbe raccontare
la verità
La grida alla notte
Solo le tenebre la ascoltano
Non bisogna temere i morti
ma i vivi.


domenica 27 ottobre 2013

Una notte

Un breve racconto del terrore, buio come la notte.





Entro nella locanda che è notte fonda. L'ho distinta nella bruma grazie alla luce delle sue finestre, che come squarci di lama fendevano l'oscurità. Il calore del suo focolare mi ha chiamato, affilato quanto la voce di una sirena, ed io ho risposto, senza indugio. Un posto per dormire è proprio quello di cui ho bisogno e l'unica cosa che il mio cuore desidera. Sono in viaggio da giorni, con la sola compagnia del mio bastone, e del mio moschetto, che porto al fianco quasi come un vecchio compare. Mi rassicura, perché non si sa mai cosa può incontrare un umile viaggiatore nelle pianure notturne dell'Alvernia, soprattutto quando il cielo è nero.
La luce del caminetto per un attimo mi acceca. Dentro non c'è nessuno, soltanto un vecchio, che ha lo sguardo fiero e disincantato di chi è abituato a comandare. Gioca con un piccolo coltello dal manico di legno, che ad una prima occhiata sembra antico quasi quanto lui. Per un attimo l'uomo alza la testa e mi guarda, poi la abbassa e continua a maneggiare la lama, senza dire una parola, come se non fosse riuscito a vedermi. Il fuoco vivo del camino sottolinea le rughe profonde del suo viso e per un attimo, forse gli occhi mi ingannano, la sua bocca diventa storta come il sorriso del diavolo.
«Cerco un posto per la notte.» mormoro timidamente, mentre mi faccio più vicino. Il legno del pavimento scricchiola sotto il mio peso. Mi levo il pastrano e lo appoggio sopra una sedia. Allora il vecchio solleva la testa e stavolta mi vede davvero.
«Che cosa ci fai qui? – rantola – credevo fossi un'ombra.»
«Sono un viaggiatore. Devo portare un dispaccio a...»
Il vecchio mi fa gesto di smettere di parlare.
«Sei uno straniero? Sì, si vede dal tuo viso. Cosa ci fai qui? – ripete – non sai che questi non sono luoghi frequentati dai timorati di Dio? Sei pazzo se credi di poter viaggiare nei reami della notte senza pagarne il prezzo.»
«Cerco solo una stanza.» ribatto io, un po' stordito, un po' rabbioso. L'uomo si alza e si avvicina a me, zoppicando e bestemmiando. E' solo allora che mi accorgo della luce lunare che entra dall'abbaino, e immerge tutta la locanda in un'atmosfera da incubo. Apro la bocca, ma il respiro mi si congela in gola. Sento dei rumori provenire dal bosco. Guaiti. Latrati. Grida. Rumore di unghie che strisciano sulla corteccia degli alberi. Poi un silenzio di morte.
«Cosa sono?» sussurro, senza riuscire a trattenere le lacrime. Gli occhi del vecchio ardono come pertugi diretti al cuore dell'inferno.

«Sono qui per noi. Sono demoni. Streghe. Fantasmi. Sono i messaggeri della Nostra Signora. Credevi forse di vivere per sempre? Sciocco! La mia anima è pronta. E la tua?»

domenica 20 ottobre 2013

Finché morte non vi separi

Può la morte fermare un amore sincero? Un racconto del terrore per un argomento sconvolgente. Buona lettura! Alvise Brugnolo




Il campanile rintocca, profondo. E' una campana da morto, e risuona lugubre nell'aria invernale, come un grido. Le porte della chiesa si aprono ed esce il feretro, seguito da una fila di persone ritirate nei loro baveri e nei loro colli di pelliccia di coniglio. E' una folla nera come uno stuolo di cornacchie e altrettanto rumorosa. Sono venuti tutti ad omaggiare la giovane Rita. Era una ragazza a posto la Rita, anche se non si può dire certo che fosse molto fedele al povero marito, Ed. Eccolo uscire sul sagrato. Povero diavolo. Le voleva molto bene. Un paio di vecchie comari annuiscono, una lascia cadere addirittura una lacrima di cerimoniale amarezza. Ed scende i gradini con lentezza, ma non sembra particolarmente distrutto. Anzi, qualcuno dice che è in qualche modo solare, anche se vestito di nero come tutti loro. La bara viene caricata sul carro funebre da due uomini volenterosi. Qualcuno osserva che è il modo in cui tutti se ne andranno. Le comari annuiscono ancora. Qualcuno tossisce. Il viso di Ed è imperscrutabile. Bacia la bara e qualcuno giura di sentirlo bisbigliare a presto. Prima di partire per il cimitero la folla si avvicina ad Ed. Lo sommergono di baci, abbracci e strette di mano. Anche pacche sulle spalle. Com'è composto, poverino. Dite che sapesse che Rita lo tradiva? Io credo di no. Si avvicina anche Bob. Tutti sanno che era lui l'amante della moglie. L'uomo si sforza di non sembrare troppo addolorato.
«Mi dispiace Ed. Era una donna perfetta.» sussurra Bob, tendendo la mano a Ed. Il vedovo non risponde al gesto.
«Lo è ancora.» dice.
Bob ammutolisce. Ed sorride. Nessuno sa il perché.

Dalla Gazzetta di Blearwick, 10 novembre 2013
Sono entrati nella notte, con l'oscurità come complice. Hanno distrutto molte lapidi del piccolo cimitero di paese, trafugando persino una bara, quella di Rita Stewart, morta nemmeno una settimana fa. Jim Dannon, il custode del museo, sostiene di sapere chi sia stato.
«Stranieri – dice con acrimonia – vengono nel nostro paese per delinquere. Se ne tornassero da dove sono venuti!»
Attorno al povero Ed, vedovo della giovane donna, si stringe l'affetto del paese e delle forze dell'ordine, già mobilitate per rintracciare ed arrestare i colpevoli. L'accusa è quella di atti vandalici e profanazione. Ma cosa può spingere ad un gesto così sacrilego ed efferato? Ne abbiamo parlato con il Dottor S. Thompson, psicologo criminale, che da anni si occupa [...]

Rapporto della polizia. 14 novembre 2013.
Abbiamo fatto irruzione nell'appartamento di Ed Stewart alle ore 22.15. La prima cosa che ci ha colpito è stato l'odore. Impossibile da dimenticare: era quello di un cadavere in decomposizione. Abbiamo trovato Ed seduto al tavolo della sala da pranzo. Sulla sedia di fronte a lui, in una posizione innaturale, c'era il corpo di Rita Stewart, deceduta da quasi tre settimane. Ed non sembrava confuso, era lucido. Ci ha chiesto più volte quale fosse il problema. Sembrava non capire. Il corpo di Rita era stato vestito e messo in posa. Davanti a lei erano stati posizionati un piatto di minestra e un bicchiere di vino. Tra le dita rigide della mano destra era stato infilato un cucchiaio. Abbiamo proceduto all'arresto. Ed ha opposto resistenza. Mentre lo trascinavamo via per portarlo alla centrale continuava a gridare:
Come fate a non capire? Lei è viva! Guardatela, è viva!
Ora è davvero perfetta!


mercoledì 9 ottobre 2013

Figli del mare

In ricordo della tragedia avvenuta a Lampedusa. Credo non serva aggiungere altro.





Il sole è sopra la mia testa. Brucia. La mia pelle è salata e anche lei brucia. Non mi fa dormire. Mi guardo attorno e vedo solo mare, non un albero, non una montagna, non una casa. La mia l'ho lasciata alle spalle, insieme al passato e alla mia famiglia, che non so se rivedrò mai più. Non ho più né un passato né un presente. Cerco un futuro ma qui vedo solo mare, sempre e solo mare, fermo, morto. Silenzio. Vorrei piangere, ma non ne ho la forza. Tutto mi è un peso. Mi giro. Dietro di me uomini come me, esattamente uguali a me. Hanno il viso come il mio, ed è lo stesso di tutti gli altri uomini. Anche loro hanno la pelle che brucia e gli occhi rossi, stanchi. E' come se fossimo tutti fratelli, perché la speranza ci unisce. Eppure è una speranza che fa male. Anche lei brucia, come il sole, come il sale, come la povertà. Una donna mi sorride e con quel gesto mi fa capire che siamo tutti figli del mare. Cala la notte. Il sole se ne va. Adesso abbiamo freddo e ci stringiamo ancora di più gli uni agli altri, finché diventiamo una cosa sola. Non ho neppure la forza di dormire. Terra. Qualcuno grida. Terra. La vedo anch'io. Ci sono delle luci in fondo e sembrano stese sull'acqua come un filo di perle. Alcuni di noi prendono una coperta. Vogliono segnalare la nostra presenza agli uomini che vivono nella Terra dei Sogni, laggiù, dove ci aspetta il futuro. Una fiamma si accende, ma è troppo fuoco. Troppo fuoco. Tutto brucia ancora una volta. Le fiamme mi circondano. L'odore del cherosene e del fumo mi soffocano, mi fanno vomitare. Nella barca non ho scampo, nessuno ha più scampo. Devo tuffarmi. Mi getto nell'acqua nera, che mi inghiotte come un sudario, e non vedo più niente.


Chi mi salverà adesso?

domenica 6 ottobre 2013

Le Torri di Opalia

Ecco un vecchio racconto fantasy. Gustatevelo, perché per qualche tempo non vedrete più racconti fantastici, dal momento che ho deciso di provare altri generi! Per scoprire quali, continuate a visitare il mio blog! A presto! 
Alvise




In cima ad una vecchia collina, gialla in inverno e verde d’estate, viveva una donna molto vecchia, con i capelli d’argento e gli occhi come carbone. Viveva lì da sempre, tanto che solo la montagna poteva riconoscere, in quel viso segnato dalla vita, la piccola bambina che era stata un tempo.
Nella pianura che si estendeva oltre le finestre della sua casupola, sorgeva una grande città, con torri d’avorio e mura di ferro. Sul campanile più alto svettava un gonfalone con ricamato un drago rampante, e quando il vento soffiava dal mare, il tessuto si animava e l’animale sembrava volare davvero, vomitando fuoco. Era una città di mercanti e navigatori, ricca come nemmeno Naarit, leggendaria oasi del deserto, era stata durante il suo periodo d'oro. Ma sono gli dei a decidere il destino degli uomini e in un anno infausto, quando sembrava che la città fosse sul punto di espandersi e fiorire ancora di più, essi decisero che la punizione per quei cittadini così fortunati fosse una terribile pestilenza, un flagello che potesse ricordare agli uomini che in fondo non erano altro che polvere tenuta insieme da un sottile soffio caduco. Gli dèi scelsero come araldi del morbo piccoli ratti dal pelo fulvo e dagli occhi infuocati, con denti appuntiti come aghi da sarta. Nel giro di poco tempo quella grande città che aveva tanto significato per gli uomini era decaduta e sul punto di sparire per sempre. Costruire è difficile, ma distruggere è facile. I mortali lo impararono a proprie spese.
Ma un bel giorno, la vecchina che viveva sulla collina, che altro non era se non una potentissima strega buona, forse la più potente di tutte, venne a sapere della terribile maledizione che gravava sulla città e sui suoi abitanti. Glielo riferì un corvo dal piumaggio bianco e dal becco rosso sangue. Arrivato in un giorno di tempesta, il volatile si appollaiò sul bastone della donna e dopo essersi arruffato per asciugarsi dalla pioggia, gracchiò una sola parola:
“Morte!”
E così la vecchina indossò il suo mantello di lana, spense il caminetto con uno schiocco delle dita e si avviò verso la strada che portava alla città. Non doveva niente a quella gente, ma la sua magia era al sevizio dei più bisognosi. Superate le mura, sui merli delle quali non vigilava anima viva, la strega venne colpita dall'odore di malattia e putrefazione che aleggiava nell'aria; proveniva dai cumuli di cadaveri ammassati agli angoli delle strade e dagli esseri, nei quali era ormai impossibile trovare qualcosa di umano, che arrancavano gemendo lungo le vie impolverate e lorde di icori. Distesa sul sagrato del Tempio, una donna velata abbracciava il corpo del neonato morto da diversi giorni, un corpicino coperto da piaghe purulente e raggrinzito su se stesso. Gli occhi della strega si riempirono di lacrime e il suo cuore di madre, anche se figli non ne aveva mai avuti, si mise a sanguinare.
Facendo appello alle sue conoscenze del mondo arcano, la donna si apprestò a scacciare la malattia. Non aveva mai tentato un incantesimo così impegnativo, ma il suo potere era antico e solido come le radici delle montagne. Si pose al centro esatto della piazza, dove le strade si incontravano e qui si mise a cantare in una lingua sconosciuta, così antica che la sapevano parlare solo gli alberi e gli spiriti della terra. Un forte vento iniziò a spirare, una grande luce tinse di bianco il cielo e il male venne scacciato per sempre da quelle terre.
La vecchia strega venne portata in trionfo per le vie della città. Il popolo la coprì di fiori e di baci e il Re la nominò servitrice del reame, donandole una piccola proprietà accanto alle mura, un grazioso palazzo dal quale si poteva ammirare il Mercato e il Palazzo di Giustizia torreggiare alla luce del sole.
Passarono molti anni e la città tornò lo splendido gioiello che era stata. La pestilenza era solo un brutto ricordo, un avvenimento di cui non era permesso parlare, se non nel giorno scelto per onorare la memoria delle vittime.
E la strega visse nella città per molti anni, sola in quella grande casa di marmo, abbellita da arazzi viola alle pareti e da ritratti di sconosciuti che fissavano la fissavano alteri nelle notti di inverno.
Passarono lunghi anni e per quanto la vecchia fosse potente, arrivò il giorno in cui la sua magia non le sarebbe servita a nulla. La morte bussò al portone del palazzo per riscuotere il suo pagamento. Entrò nuovamente dalla finestra il corvo bianco con il becco rosso che gracchiava insensatamente la stessa lugubre parola: morte, morte, morte!
E in quel momento la donna capì di essere sola al mondo, ed ebbe paura. Gridò a gran voce dalla finestra, chiedendo che qualcuno la soccorresse e le stesse accanto negli ultimi momenti di vita. Le bastava il contatto gentile di una mano umana chiusa nelle sue dita secche e macchiate dalla vecchiaia. Ma nessuno le prestò ascolto. La folla continuava a camminare lungo le strade polverose, con gli occhi bassi e le orecchie insensibili. La strega si rese conto che l'avevano dimenticata.
Allora, impaurita e irata, li maledisse. Stese le mani verso il cielo, lanciò un ultimo anatema e morì. Nello stesso istante in cui la sua anima si perse nell'Eterno Altrove, vi fu un terremoto e al centro della città si aprì una voragine terribile, un colossale buco che si perdeva in un buio ultraterreno. Era una via che collegava il mondo dei vivi a quello dei morti. E gli abitanti assistettero con orrore agli spettri degli avi che iniziavano a strisciare per risalire, invadere il mondo e distruggerlo con il loro respiro gelido e mortale.
Ma c'era un altro mago in città. Non era potente quanto la vecchia strega, ma conosceva molti validi incantesimi. L'uomo fece piovere dal cielo ghiaccio, condannando la città e i suoi abitanti alla distruzione, ma in questo modo uno spesso strato di gelo coprì la voragine come uno scudo di vetro, diventando l'unica protezione in grado di tenere i morti relegati nei loro cupi reami.

E ancora adesso, chi si trova a passare per Opalia, tra le torri ghiacciate e iridescenti che il sole fa brillare come diamanti, prega gli dei quando avverte sulla superficie ghiacciata sinistri scricchiolii e affretta il passo con il cuore gonfio di terrore.  

giovedì 5 settembre 2013

E-book - Voci dal seminterrato





Sono felice di annunciarvi che il mio primo e-book, "Voci dal seminterrato" è online su Amazon. Si tratta di una raccolta di racconti del fantastico e del terrore, con qualche sfumatura fantascientifica. Ho sempre amato il genere e perciò ho deciso di farne il mio primo esperimento letterario. Per maggiori informazioni visitate http://www.amazon.it/Voci-dal-seminterrato-ebook/dp/B00EZB5LUY/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1378383688&sr=8-1&keywords=alvise+brugnolo

sabato 17 agosto 2013

Videogiochi e Violenza





Nell'ultima puntata di Superquark, è andato in onda un servizio piuttosto discutibile sul mondo dei videogiochi. Nel servizio, alcuni psicologi cercavano di dimostrare quanto i videogiochi violenti aumentassero l'aggressività di alcuni soggetti, tutti adolescenti. Il servizio, piuttosto breve e approssimativo, non teneva minimamente conto del background dei soggetti né della loro indole e si limitava a mostrare un paio di esperimenti piuttosto riduttivi e al limite del ridicolo, nel tentativo di dimostrare quanto si era affermato. Un esempio: il soggetto che aveva appena terminato di giocare al videogioco di guerra, diventava protagonista di una serie di “tiri” mancini giocati ai propri compagni, veri e propri comportamenti al limite del sadismo. Ora, non potrebbe essere che il primo soggetto presentasse un carattere tendenzialmente violento e perciò non imputabile al videogioco, piuttosto che il suo atteggiamento fosse stato modificato proprio dalla partita appena conclusa? L'esperimento non era in grado di dimostrare nessuna delle due eventualità, risolvendosi, a mio parere, con un nulla di fatto.
Servizio a parte, il binomio fra videogiochi e violenza è attualmente un tema molto dibattuto. Molti genitori si schierano contro i videogiochi e, anche se può sembrare strano, in molte parti degli Stati Uniti, diverse comunità religiose hanno organizzato roghi di videogiochi (sì come nel Medioevo!), per “salvare” i propri figli dalle loro insidie. Ma siamo davvero sicuri che l'imputare ai videogiochi la colpa dell'aggressività dei propri figli non sia piuttosto uno “scaricabarile” delle proprie responsabilità di genitori? Videogiochi e film violenti possono costituire un pericolo solo per chi non è stato educato al rispetto della vita altrui ed è il genitore il primo e più importante educatore. Videogiochi o genitori irresponsabili, dunque? Credo non serva un esperimento per scegliere la risposta giusta.
Personalmente credo che il videogioco, se utilizzato in maniera responsabile e senza abusarne, può costituire un passatempo divertente e persino istruttivo, e senza dubbio una sana competizione con altri giocatori, se equilibrata e priva di estremismo e connotazioni razziali, non può essere che positiva e da incoraggiare.

E voi cosa ne pensata sull'argomento? Fatemi sapere commentando qui sotto!

giovedì 4 luglio 2013

Il Circo dei Meccanici - Quarta e ultima parte


Ed ecco l'ultima parte de Il Circo dei Meccanici. Se vi è piaciuto, non dimenticate di commentare! E se trovate errori, o incongruenze rispetto alle parti precedenti, vi invito a segnalarmele! Buona lettura! 





Gyk non ricordava nemmeno come fosse entrato nel tendone, dopo la decapitazione di Sknoll. Era troppo scioccato per rendersi conto di dove i piedi lo stessero portando. Fatto sta che si ritrovò tra le prime file, pressato dalla ressa, vicino al palco interno su cui Karid aveva fatto trasferire se stesso e il suo scranno. Otto guardie in armatura alla sua sinistra e altre otto alla sua destra, armate di scudo e lancia, vigilavano attentamente la folla, alzando il pugno se qualcuno accennava un movimento sospetto. Karid stava in mezzo a loro, con la corona d'oro incendiata dalle torce e il viso luciferino rilassato, carico di gioia sprezzante. Sapeva che il suo potere ora non aveva più limiti.
Gyk non aveva nemmeno la forza di odiarlo. Il fuoco che gli aveva attizzato il cuore quando aveva visto il corpo di Sknoll giacere esanime, un fuoco che era un'esortazione alla rivolta, si era già spento. Guardando i suoi compagni, si accorse che anche i loro animi erano svuotati. I volti degli abitanti erano il ritratto della rassegnazione. Gli occhi vuoti, apatici, si posavano con poco interesse sulle ballerine e sui giocolieri che avevano già iniziato a dare spettacolo, sulle note penetranti di un sitar. Un mangiatore di fuoco eruttò dalla gola una colata di fiamme, che sfiorò Gyk per un soffio. Il ragazzo socchiuse gli occhi e si augurò di risvegliarsi altrove. Quando la fiamma si estinse, nel tendone si udirono dei flebili battiti di mani; qualcuno si era già dimenticando di Sknoll e si stava godendo lo spettacolo. Qualcuno addirittura sorrideva. Gyk li guardò con rabbia, perché lui avrebbe ricordato per sempre il sacrificio del fuorilegge.
I mangiatori di fuoco si unirono in cerchio e crearono una portentosa bolla di fuoco che si gonfiò fino ad esplodere in una miriade di vapori violacei. Un oooooh si alzò dalla folla e Gyk fu costretto a battere le mani, rapito da quel trucco. Poi fu il turno dei prestigiatori veri e propri. Gyk rimase a bocca aperta quando un affascinante mago del Nord, un vecchio segaligno con una folta barba bianca, si sfilò dall'orecchio un serpente velenoso e con un rapido schiocco delle dita lo tramutò in acqua. Gyk rise con gioia, cullato dall'estasi. Karid aveva l'aria soddisfatta e quando il mago ebbe finito, lo ringraziò con un cenno del capo.
Si esibirono altri maghi, provenienti dai mille regni che costellavano la terra. Ognuno portava una magia diversa, suscitando l'ammirazione della folla. Il culmine dell'eccitazione venne raggiunta quando un mago dell'Est si fece cospargere di olio e si gettò nelle fiamme di una pira. Sparì in una fiammata, per poi ricomparire, incolume, sul lato opposto del palco. Un boato della folla si alzò quando il mago, con falsa umiltà, si esibì in un cerimoniale inchino di ringraziamento. Gyk si unì al coro di ammirazione che saliva dalla folla, un'eruzione di grida di felicità e stupore. Il ragazzo non osava neppure respirare, per paura di distrarsi ed interrompere lo spettacolo.
Nel frattempo la testa di Sknoll, infilata sopra una picca al centro della piazza, era stata invasa da un nugolo di zanzare e mosche del deserto.
Gli applausi ora facevano tremare il terreno e salivano fino al cielo, così che nel deserto il silenzio era stato sconfitto per la prima volta.
Improvvisamente si aprì un sipario, che fino a quel momento era restato completamente celato, e ne uscirono fuori i Dieci Saggi, i più grandi inventori del mondo, accompagnati dai loro apprendisti e dalle loro creazioni. Karid si protese ancora di più in avanti, per poi abbandonarsi sulla sedia, visibilmente impaziente e annoiato. Il turno della Ballerina non era ancora arrivato.
Sulle note dell'Orchestra Meccanica, sfilarono le macchine, automi dalle sembianze umane che si comportavano come esseri umani, suscitando in alcuni stupore e in altri un brivido di avversione. Tra il furore generale, due automi combattenti improvvisarono un duello di spada; si trapassarono più volte all'altezza del cuore, ma non caddero mai. Non potevano veramente morire. Alla fine il più grosso dei due fu costretto a finire l'altro tagliandolo in mille pezzettini; alcuni di questi si muovevano ancora quando i Dieci Saggi proclamarono il vincitore.
E di colpo le torce nel tendone si spensero. Un ipnotizzante profumo di incenso si levò nell'aria, magico come le notti nel deserto. L'Orchestra cambiò melodia: una romantica sinfonia affidata alla musica struggente degli archi commosse il cuore degli spettatori, facendo affiorare qualche lacrima negli occhi di chi l'amore l'aveva trovato e già perduto. Le tende si misero a danzare, sospinte da un alito di vento, infine si spostarono, sistemandosi ai lati del palco in uno sbuffo di tessuto. Dall'ombra delle quinte avanzò la Ballerina.
Non era come Gyk se l'aspettava. Era molto più bella. Il più abile tra i pittori non sarebbe riuscito che a catturarne solo una pallida immagine, un vacuo riflesso. Era così rapida ed aggraziata mentre ballava, da sembrare un'ombra. Eppure era lì, tangibile, reale e desiderabile.
Danzava con grande leggiadria, volteggiando davanti agli occhi della folla, che era improvvisamente ammutolita e la guardava con occhi lucidi e bramosi. Le fiamme delle torce furono sul punto di spegnersi  ancora una volta, quando lei passò sul bordo del palco; e sembrava anch'essa una fiamma, un guizzo di fuoco che aveva assunto sembianze umane.
Gyk cercò di sfiorarle una caviglia di bronzo, ma lei si ritrasse, e il ragazzo afferrò solo l'aria calda che gravitava all'interno del tendone.
L'automa ballò per quella che sembrò un'eternità, e alla fine la folla non ebbe neppure la forza di applaudire. Solo allora la Ballerina si voltò e guardò Karid attraverso gli occhi blu come preziosi zaffiri. Il Tiranno provò un brivido lungo la schiena: attraverso le pupille della fanciulla riusciva a guardare se stesso. Lentamente, quasi volando nell'aria, la Ballerina si avvicinò al trono, e per un attimo fu come se l'angelo più bianco del paradiso fosse sul punto di inoltrarsi nella foresta più oscura del mondo. Karid con un gesto intimò alle guardie di abbassare le lance che loro, prontamente, avevano già messo in resta per tenere l'automa a distanza di sicurezza. Karid non temeva più nessuno, ora che il suo avversario era morto.
Gyk trattenne il respiro quando la Ballerina si avvicinò a Karid, tanto da toccargli il viso e accarezzargli la barba grigia e pungente, sinuosa e lunga come un cobra. Il Tiranno tremò al tocco gelido della donna meccanica, così simile a quello della sua nutrice, l'unica donna che lo avesse amato davvero. La Ballerina avvicinò le sue labbra taglienti come ferro a quelle frementi del Re e... prima che il manipolo di guardie potesse fare qualcosa per fermarla, estrasse dalla schiena una lama ricurva, che usò per strappare la testa di Karid con un solo, violento movimento del polso.
Già perforata dalle lance appuntite delle guardie, la Ballerina fece solo in tempo a togliersi la maschera, prima di morire: non era un automa, bensì l'amata di Sknoll. Aveva portato a termine il proprio compito, così che il sacrificio di Sknoll, che si era fatto uccidere proprio perché Karid abbassasse la guardia credendosi al sicuro, non fosse stato vano.
Gli eventi successivi sono entrati nella storia. Vi fu una sollevazione popolare nell'esatto momento in cui la testa di Karid raggiunse il legno del palco, dopo essere rotolata sui gradini taglienti del trono. Il corpo del Tiranno rimase lì, sui cuscini di broccato viola, ancora scosso dal desiderio per quella seducente ballerina. La folla inferocita massacrò i soldati e prese il controllo della città. E così la democrazia ritornò a Naarit. Ma non vi furono feste, né grida di giubilo: molto sangue era stato versato per la libertà. Gyk stesso era morto, infilzato dalla spada di un soldato, e la famiglia lo pianse per tre mesi interi.

Lentamente, la vita a Naarit ritornò. Vi fu una votazione per eleggere il Primo Governatore: vinse Tioben, il mercante di gioielli che aveva stregato la folla con l'orazione in onore di Sknoll, l'eroe che li aveva salvati tutti.  

mercoledì 26 giugno 2013

Il Circo dei Meccanici - Terza Parte






“Guardate cosa succede a chi si mette contro il nostro Re!” gridò il boia incappucciato, spingendo Sknoll verso il bordo del patibolo. Le gambe del fuorilegge non ressero e Sknoll cadde in ginocchio, con la testa reclinata sul petto, penzolante. Dalla sua bocca colava un rivolo di sangue così denso da sembrare nero.
L'avevano pestato, torturato e gettato sul palco come un pezzo di carne. Eppure non aveva emesso un lamento. E nemmeno adesso, di fronte all'ascia del boia, così affilata da rivaleggiare con la falce del Mietitore, il suo viso rifletteva alcun tipo di emozione. Era come se non la temesse nemmeno la morte. Poteva perdersi d'animo un uomo convinto che le sue idee sarebbe perdurate nei secoli, ben oltre la putrefazione del suo cadavere in una fossa comune?
Gyk si mise una mano sulla bocca, trattenendo a stento un moto di stizza e ripugnanza. Accanto a lui, tutti piangevano, le lacrime salate essiccate sui loro zigomi come tracce di calcare sul muro.
La piazza era silenziosa, anche se il tendone del Circo era stato eretto e le sue bandiere garrivano nel vento della sera. Gli artisti aspettavano a braccia conserte al di fuori del tendone e i loro volti fieri rilucevano alla luce delle lanterne che punteggiavano l'arena come rovi dati alle fiamme. Anche loro erano impassibili e Gyk si sentì fragile e inutile, un'anima dilaniata dai venti del destino.
La piazza, pur essendo una della più grandi del regno, era occupata totalmente dalla folla e dalle strutture innalzate per l'occasione. Sul lato sinistro torreggiava il trono di Karid e il ceppo lurido sul quale la vita di Sknoll sarebbe stata troncata. Sul lato destro, l'apertura del tendone era pronta a fagocitare la folla come un gorgo oceanico.
Nel frattempo le guardie avevano fatto rialzare Sknoll e il corpulento boia l'aveva fatto chinare sul ceppo. Il collo nerboruto del condannato aderì perfettamente all'incavo del legno come se quest'ultimo fosse stato scolpito con la consapevolezza che proprio Sknoll, e nessun altro, sarebbe passato sotto il suo giogo. E forse era veramente così, sapendo quanto Karid aveva meditato e sognato quel giorno. Il Tiranno, assiso sul trono e sporto leggermente in avanti, sembrava anch'esso imperturbabile, ma era solo un'impressione, perché nel suo cuore si agitava un furioso incendio. La brama di sangue lo torturava, così come anche il desiderio di vedere la Ballerina. Mancava poco ormai, solo il tempo necessario perché i tendini di Sknoll cedessero alle lusinghe della lama.
Le narici di Gyk fremettero. A stento riusciva a sopportare quello spettacolo. Il ragazzo si voltò verso sinistra e i suoi occhi caddero su Tioben. Il mercante di gioielli stava sorridendo. Fu un solo fugace, impercettibile movimento delle labbra, ma Gyk lo scorse e ne fu raccapricciato al limite del disgusto. Dunque Tioben era un uomo di Karid, un lurido leccapiedi in vesti di seta. Gyk fece fatica a trattenersi dal pugnalarlo alle spalle con il piccolo coltello che usava per pulire il pesce. E pensare che Tioben era stato un uomo del popolo, cresciuto in una topaia vicina a quella di Gyk. Poi aveva dimostrato un intuito eccezionale per gli affari e si era arricchito, diventando una delle poche eccezioni all'immobilità di Naarit. Il suo nuovo ruolo doveva avergli dato alla testa e conservare il denaro guadagnato era diventata la sua unica priorità, anche a costo di venerare Karid come un idolo. Ma Tioben stava bene attento a non rivelare la sua fedeltà, per paura di un inevitabile linciaggio. E c'erano tanti uomini come lui. Tanti vecchi e nuovi ricchi che si nascondevano tra la gente e ordivano trame per gonfiare i loro patrimoni a dismisura, a discapito del popolo che moriva di stenti e miseria. Erano loro la vera forza di Karid.
Un gesto del Tiranno e la lama del boia calò con un colpo secco.
Un unico, corposo fiotto di sangue schizzò dal collo amputato del fuorilegge. La testa di Sknoll rotolò giù dal palco, per arrestarsi in una pozza di fango con un suono liquido e spiacevole.
Non sembra più tanto eroico con la barba inzaccherata di sangue e sterco di asino, pensò Gyk scoppiando in lacrime. Karid si alzò di scatto dal trono e strinse il pugno in segno di vittoria. In risposta, le guardie batterono i loro pugni guantati sulle armature, suscitando un frastuono sinistro. La folla non si mosse né protestò.

Era come se con quell'unico colpo fosse stata tagliata la testa a tutto il popolo.

lunedì 17 giugno 2013

Il Circo dei Meccanici - Seconda parte

Ed eccovi la seconda parte del racconto. Meglio tardi che mai. Buona lettura!





Gyk si svegliò tardi quel giorno. Era la prima volta da almeno quattro anni che poteva permetterselo. Di solito si alzava presto, alle prime luci dell'alba, per aiutare il padre nell'allestimento del bancone nella Piazza del Mercato. La sua era una famiglia di onesti pescivendoli da generazioni, e ne andavano molto fieri, se mai lo si poteva essere di un'occupazione così umile. Era un lavoro duro e non pagava bene, ma non avevano niente di meglio. E poi avevano imparato che a Naarit, soprattutto da quando Karid aveva messo le radici sul suo trono d'ebano, era meglio restare al proprio posto, senza tanti grilli per la testa. Perché i sogni, si sa, potevano farti morire a Naarit. I tentativi di crearsi un futuro migliore si pagavano spesso con la disoccupazione. E la disoccupazione significava tortura e morte, in quei tempi infausti, secondo le leggi di Naarit. Karid non tollerava i parassiti, ma dimenticava che lui era il parassita più grosso di tutti. Un colossale ratto dotato di scettro e di un'infinita ingordigia.
Gyk si alzò con calma, si stiracchiò e si lavò con l'acqua bollente di una pozza sull’orlo della completa evaporazione a causa del sole cocente. Quel giorno il ragazzo non aveva fretta. Quel giorno non c'era neppure il mercato, e la piazza sembrava un cimitero immerso in un silenzio che andava gonfiandosi come un bubbone pestilenziale. Quel giorno il Circo dei Meccanici sarebbe arrivato in città e ci sarebbe stato da divertirsi.
Gyk non stava più nella pelle, così come tutti gli altri abitanti. Il ragazzo si era già immaginato quello che sarebbe avvenuto, momento per momento: prima le trombe, i tamburi ed i cimbali, poi le danzatrici del ventre e i saltimbanchi in abiti viola e tintinnanti. Il tutto sotto una pioggia di petali azzurri e coriandoli rossi come il sangue. Subito dopo, ecco arrivare i mangiatori di fuoco e di spade con i loro muscoli sfavillanti color miele e il loro indomito coraggio nell'ingoiare le fiamme e il mortale acciaio delle spade. E per ultimi gli inventori, tronfi sui loro baldacchini trasportati da servi meccanici e cigolanti, macchine meravigliose che non provavano fatica e non avevano bisogno di fermarsi per bere o riposare all'ombra dei sicomori.
E per ultima Lei.
Gyk sussultò e il suo viso si accese di un rosso intenso. Quasi non riusciva a crederci, ma quello stesso giorno l’avrebbe vista ballare. L’avrebbe vista volteggiare e fare perno sopra una gamba perfetta e liscia come bronzo, mentre teneva l’altra alzata fino a toccarsi la nuca con le piccole e regolari dita dei piedi. I suoi capelli d’oro avrebbero luccicato e turbinato come una cascata di gioielli lanciati dalle finestre dei palazzi, per il giubilo del popolo.
Gyk sospirò. Era già follemente innamorato della Ballerina Meccanica. E come lui tutti gli altri giovani di Naarit. E anche Karid, curvo sul proprio scranno come un vecchio corvo in attesa di un corpo fresco da beccare, si sentiva bruciare come un giovane ventenne di fronte alla prospettiva delle cosce vellutate di quella splendida e artificiale meretrice, della quale aveva ascoltato le lodi grazie agli ambasciatori che quotidianamente gli riferivano gli ultimi avvenimenti del suo vasto e desertico regno.
Gyk era entusiasta, ma provava anche un'incontenibile paura. Temeva che una cosa così bella non sarebbe mai potuta sopravvivere nel regime venefico e arido di Karid. Era quasi certo che il Tiranno l'avrebbe ghermita e segregata nel palazzo per il suo personale godimento, togliendola per sempre agli occhi degli altri, poveri, meschini mortali. Gyk ripensò a Sknoll e alla sua promessa. Pur avendo da poco compiuto sedici anni, ricordava ancora il putiferio suscitato dalla sua fuga e il messaggio che l'evaso aveva lanciato con una freccia sulla porta colossale del palazzo:“Tornerò e reclamerò la tua testa, Karid. Per la libertà e il popolo di Naarit”. Eppure, da quel lontano giorno di dieci anni prima, il fuorilegge non si era più fatto vivo. E dopo le severe norme di sicurezza e il raddoppiamento del servizio di guardia, la speranza che il fuorilegge riuscisse nel suo intento di trucidare il despota era naufragata e languiva nel cuore degli abitanti. Ma la notizia che le porte della città sarebbero state nuovamente aperte, aveva riacceso gli animi come una fiamma liberata dal bicchiere che stava soffocando la sua luce. Forse Sknoll stava solo attendendo un'occasione come questa per intrufolarsi in città, sostenevano alcuni. Altri però, i più disillusi, erano certi che il fuorilegge si fosse dimenticato della promessa e stesse trascorrendo la sua esistenza in un infimo bordello di qualche regno settentrionale.
Con questi pensieri Gyk raggiunse la piazza principale, che sorgeva poco distante da quella del mercato, dove venne accolto dalle grida della folla che si era radunata in attesa che giungessero notizie certe sull'ora in cui il circo si sarebbe profilato all'orizzonte.
Ma chi poteva dire con certezza quando sarebbe arrivato il carrozzone a vapore del Circo?
“Alle sette di sera” gridavano alcuni.
“No alle tre del pomeriggio!” ululavano altri.
“Idioti, lo sanno tutti che si faranno vivi già dalle nove della mattina!” rispondevano altri.
E si scatenavano risse e litigi ad ogni angolo della città, pestaggi furibondi che si acquietavano solo quando i lottatori scorgevano in lontananza i pennacchi color cremisi dei soldati di Karid, venuti a ristabilire l'ordine a suon di randello.
Ma così come tutte le cose belle sono impossibili da prevedere, il Circo giunse quando meno gli abitanti se lo aspettavano. Arrivò durante l’ora del pranzo, quando il sole era rovente e gli uomini si sentivano come montoni infilzati sullo spiedo e fatti girare sopra un grande falò. Dai merli delle mura ciclopiche e color dell'arenaria, le sentinelle videro una nube di polvere alzarsi da nord, come se un furibondo gigante si fosse messo a pestare i piedi nel tentativo di spiaccicare un elefante che aveva avuto l’ardire di abbeverarsi al suo stagno privato. Era la carovana, che si avvicinava alla città strisciando e sollevando la sabbia in mille mulinelli.
Ma nessuno guardò il carrozzone, le sue ciminiere fumanti, i suoi pistoni e le sue ruote cingolate che ruggivano come fiere della savana e rilucevano al sole. Perché in quello stesso momento giunse trafelato il pingue Leorid, l'eunuco che lavorava all'interno del palazzo e che era l'unico tramite tra il popolo e gli intrighi della corte. Arrivò ansimando e piangendo.
“Che gli dei siano dannati. – gridò – Karid ha fatto perquisire il circo a dieci leghe da qui e ha trovato Sknoll. Si era mescolato tra gli artisti, ma i soldati l'hanno riconosciuto. Lo decapiteranno stasera, prima dell'inizio dello spettacolo!”

E tutto il popolo guaì e si disperò, perché la speranza era morta una seconda volta.

domenica 19 maggio 2013

Il Circo dei Meccanici - Prima parte


Come promesso, eccovi un altro racconto. La seconda parte arriverà presto!
Grazie a tutti e fatemi sapere se vi è piaciuto commentando a più non posso! 






La città di Naarit era in subbuglio. E non era colpa della stagione delle piogge che quell'anno tardava ad arrivare. E neppure del deserto che si avvicinava inesorabilmente, divorando i campi.
Il motivo di tanta agitazione era l'annuncio ufficiale che gli araldi del Tiranno avevano gridato quella mattina ad ogni angolo di piazza: il famoso Circo dei Meccanici avrebbe fatto sosta proprio a Naarit e si sarebbe esibito nella Piazza Centrale, di fronte a Karid in persona.
I cittadini non potevano credere alle proprie orecchie: per motivi di sicurezza, nessuna compagnia di saltimbanchi aveva più avuto il permesso di esibirsi dentro le mura della città, da lungo tempo ormai. Era una legge promulgata per preservare l'incolumità del Tiranno, da quando il famoso fuorilegge Sknoll era riuscito ad evadere dalle umide prigioni sotterranee del palazzo, sgusciando dalle bocche fognarie come una larva fuoriesce dalle orecchie di un cadavere.
L'assassino aveva promesso che un giorno non molto lontano sarebbe ritornato, avrebbe decapitato il monarca e avrebbe ridato il governo al popolo, come a Naarit era sempre stato da quando si poteva ricordare.
Da quel giorno la città era stata completamente chiusa ai visitatori esterni e la vita dei cittadini era stata resa ancora più dura dall'introduzione di un coprifuoco ancora più austero del precedente.
La paura di Karid era più che motivata, vista l'inaudita ferocia di Sknoll e il suo inarrestabile senso di giustizia. Ma Sknoll era particolarmente pericoloso perché poteva contare sull'appoggio delle Colombe, un manipolo di reietti che avevano conquistato la Sacra Foresta e ora la difendevano dai ripetuti assalti dell'esercito di Karid. Quel labirinto di alberi era diventato in poco tempo un rifugio per chiunque volesse sfuggire al regime di Karid e desiderasse aiutare in qualsiasi modo le Colombe nel loro progetto di riconquista del Regno. Non bisognava lasciarsi ingannare dal nome poco spaventoso dei fuorilegge. Le Colombe erano infatti guerrieri a dir poco impetuosi: in più di tre anni di guerra, il Tiranno non era riuscito a conquistare un solo ettaro delle foresta, nemmeno la più misera collinetta o il più esile fiumiciattolo e ciò lo angustiava terribilmente. Aveva fatto saltare più di una testa tra i suoi generali, ma questo non gli era stato, stranamente, di alcun aiuto. E il timore che prima o poi Sknoll sarebbe sbucato dall'ombra delle colonne della Sala del Trono per tagliargli la gola, era diventata per Karid un'ossessione, tanto che il Tiranno non presenziava alle occasioni pubbliche da diverso tempo e gli unici elementi che potevano indicare, a dispetto di quello che si auguravano i sudditi, che lui fosse vivo e vegeto, erano le luci accese della sua stanza e le tasse che non dimenticava mai di esigere al primo giorno di ogni mese.
Per questo la notizia dello spettacolo lasciò tutti di stucco, tanto da zittire le comari più loquaci e trasformare la Piazza del Mercato in un cimitero silenzioso. Alcuni però non si stupirono affatto. Del resto il Circo dei Meccanici era il fenomeno più chiacchierato del momento ed era ovvio che prima o poi la notizia della sua esistenza sarebbe giunta alle orecchie del Tiranno, asserragliato da mesi nel suo palazzo di bronzo, vetro e roccia. Karid era affascinato da tutto ciò che concerneva il metallo, la scienza e i meccanismi. E il Circo dei Meccanici sembrava per lui un sogno divenuto realtà.
Il Circo era formato da un gruppo eterogeneo di artisti provenienti da tutti i luoghi della terra, anche da quelli più lontani e sconosciuti ai più. C'erano ingoiatori di spade e mangiatori di fuoco, equilibristi capaci di volteggiare sopra esili corde fatte con budella di tori, prestigiatori che si smaterializzavano in uno cortina di fumo blu, cartomanti che leggevano i tarocchi e sapevano predire il futuro in cambio di una moneta d'argento. Ma la spina dorsale dello spettacolo erano gli inventori con le loro incredibili meraviglie scientifiche. Essi sapevano produrre liquidi in grado di solidificarsi in pochi secondi e passare allo stato liquido e a quello gassoso in un battito di ciglia. E i Dieci Saggi, i più anziani e rispettati fra loro, forgiavano complessi ingranaggi, piccoli come uova di mosca, con i quali costruivano macchine capaci di togliere il fiato anche all'uomo più miscredente e avverso alla modernità. Uno dei loro capolavori, l'Orchestra Meccanica, (uno strumento in grado di suonare da solo complesse melodie per strumenti a fiato, a corde e a percussione) aveva eseguito sinfonie nelle più ricce corti del mondo. Si diceva che quel trabiccolo avesse strappato un sorriso persino all'arcigno duca di Beltoria, espressione che, come tutti già sapranno, era stata bandita dal suo regno pena l'impiccagione. E così Beltoria aveva perso il proprio duca, in favore della più garbata figlia, Lady Mankyse.
Non c'era posto sulla terra dove il nome dello spettacolo non fosse conosciuto e amato e ciò era possibile non soltanto perché Il Circo dei Meccanici sapeva strappare un sorriso sia ai grandi che ai piccini, ma anche perché dietro quella sarabanda variopinta di artisti si nascondeva la dorata prospettiva del futuro, e infatti la compagnia viaggiava su carrozzone munito di gambe d'acciaio, animate dal fiato sulfureo delle braci.
Eppure tutte quelle attrazioni non erano niente in confronto alla vera perla del Circo.
Lei.
L'unica.
Il miracolo della scienza.
La creazione più grandiosa che l'uomo fosse mai riuscito a pensare e realizzare con il solo ausilio della mente e della tecnica: La ballerina meccanica.
Era la fanciulla più bella che avesse mai calpestato il suolo del mondo e aveva la pelle d'ottone e gli occhi di vetro color cobalto come le profondità abissali dell'oceano. Il suo viso era modellato sulle fattezze della sensuale principessa di Naduna e il suo corpo era ispirato a quello di Lady Varidia del regno di Aduk. I suoi capelli era fili d'oro e le unghie delle mani conchiglie di madreperla.
Era una danzatrice eccezionale e con le leggiadre movenze del corpo, aveva fatto innamorare tutti i rampolli reali, dai deserti neri del misterioso sud fino alle steppe ghiacciate che circondano la torri trasparenti di Opalia.
Ed era proprio lei che Karid desiderava vedere e possedere. Anche a costo di rischiare la vita ed esporre il collo alla fredda lama del coltello di Sknoll.

giovedì 2 maggio 2013

Studio in corso!








Scusate se nell'ultimo mese non sono più riuscito a postare niente di interessante, ma gli esami dell'ultima sessione del secondo anno di Ca' Foscari si fanno sempre più vicini e la mia voglia di studiare sempre più sottile. Quando tutto sarà finito aggiornerò al più presto il blog! A presto.

Alvise Brugnolo