Il
seguente racconto per ragazzi ha come protagonista Gabriel,
personaggio che chi ha letto il mio ebook “Voci dal seminterrato”
riconoscerà immediatamente. Credo proprio che, in un futuro non
troppo lontano, Gabriel diventerà protagonista di racconti e romanzi
tutti suoi. Nel frattempo, godetevi “il negozio di giocattoli”!
Buona Lettura
Alvise
Brugnolo
Quando
Alex, Paul, Samuel e Gabriel raggiunsero la piazza della loro piccola
città, restarono a bocca aperta. Perché lì, fra il panificio e la
biglietteria degli autobus, due edifici cadenti che portavano i segni
di una lunga esistenza di provincia, c'era un negozio nuovo. E il
bello era che nessuno dei quattro poteva giurare che non ci fosse mai
stato. Era come se, pur essendo certi di non averlo mai visto prima,
sentissero che il negozio apparteneva a quel posto da sempre, quasi
che quell'unica occhiata rivoltagli fosse bastata a convincerli della
sua presenza, altrimenti inspiegabile e fuori luogo.
«Ma
che cavolo...» scandì Alex.
«Questa
è bella.» gli fece eco Paul.
«Embè?
É soltanto un negozio, uno come tanti.» ribatté Samuel, quello che
fra i quattro era più autoritario e come tale non si lasciava
stupire mai da niente. L'unico a non dire nulla fu Gabriel. Non che
non avesse niente da dire (questo era quello che erroneamente
pensavano gli insegnati e i suoi genitori). Era solo che per
carattere preferiva ascoltare e guardare; parlare, era un'operazione
che faceva soltanto dopo aver dato la priorità alle altre due.
I
ragazzi si avvicinarono con titubanza, quasi temendo di compiere un
qualche atto illegale da riformatorio. Era un negozio d'effetto, con
la tenda parasole di un bel blu carico, sulla quale capeggiava in
lettere dorate la scritta: “L'angolo dei giocattoli”. Proprio
quello di cui la nostra città ha bisogno, pensarono tutti e
quattro, al settimo cielo per quella ventata di novità, una cosa
davvero strana per un posto sperduto e abitudinario come quello in
cui, malauguratamente, abitavano.
La
vetrina, come promesso dall'insegna, era piena di giocattoli: ai
lati, su alcune mensole, c'erano biglie, giochi di prestigio,
rompicapi, mazzi di carte e caleidoscopi di tutte le forme e
dimensioni. Dal soffitto pendevano tre o quattro maschere da
carnevale in pelle, dall'aspetto un po' sinistro, sospese mediante un
filo di nylon tanto sottile da risultare invisibile. Al centro
invece, proprio dove l'occhio era spinto a posarsi, erano state
sistemate quattro pile di giochi da tavolo, alcuni molto comuni
(c'erano Monopoli, L'allegro chirurgo, Hotel, Taboo, Trivial Pursuit
e così via), altri assolutamente fuori dall'ordinario. In fondo, un
po' defilata, c'era persino una tavola ouija, quella che si usa per
parlare con i morti. Fu allora che Gabriel parlò.
«Come
può aver aperto un negozio nuovo se non si sono mai visti lavori di
ristrutturazione?»
Era
vero. Nessuno dei quattro, nei giorni precedenti, aveva potuto vedere
quel tipico andirivieni di operai che presuppone la nuova apertura di
un'attività. Paul poi lo sapeva meglio degli altri, visto che suo
padre aveva proprio una ditta di ristrutturazione locale. Se aveva
preso in consegna il restauro di quel negozio, rifletté il ragazzo,
doveva essersi dimenticato di dirglielo e ciò era strano perché suo
padre, vedovo da meno di due anni, aveva la mania di dirgli sempre
tutto, anche le cose più inutili; era uno dei suoi modi per
interessarsi al figlio e fargli sapere che, anche se all'apparenza
poteva sembrare scorbutico, gli voleva un gran bene. Ma l'interesse
per il negozio nuovo soffocò qualsiasi altro dubbio razionale. Solo
Gabriel si era reso conto che lo spazio per un negozio, fra il
panificio e la biglietteria degli autobus, non c'era mai stato.
Ripensandoci, vedeva chiaramente le due porte affiancate, ed in mezzo
soltanto uno spazio di muro largo quanto un braccio, dove poteva
starci a malapena un cartellone pubblicitario appiccicato con quella
colla che sembra moccio. Fece per dirlo, poi si zittì, consapevole
che tutti, persino quelli che gli stavano vicino, lo consideravano un
ragazzino un po' sulle nuvole, uno insomma che si inventa le cose.
«Beh,
che facciamo? Entriamo?» sussurrò Alex, con gli occhi fissi su
quelle strane maschere di cuoio. Mancava poco al carnevale, festività
che in paese amavano tutti, e nessuno dei quattro aveva ancora scelto
il travestimento per la festa. Di solito se lo costruivano da soli,
con risultati scarsi, ma l'anno precedente si erano ripromessi che
per il carnevale successivo, anche a costo di consumare tutti i loro
risparmi, avrebbero fatto un figurone. Samuel concesse il suo
permesso con un cenno della testa. Per primo entrò lui, impettito
come un galletto; Alex e Paul lo seguivano a ruota, mentre Gabriel si
fece avanti per ultimo con quel suo sguardo a metà fra l'assorto e
l'attento, uno sguardo che, complice i suoi occhi neri come il
carbone, faceva tremare le gambe a tutte le sue compagne di classe,
anche se il ragazzo, perennemente distratto, non lo poteva sapere.
Il
negozio, così come era insolito fuori, lo era anche dentro. Era sia
un negozio che un appartamento: fra i ripiani, le vetrinette e il
bancone, spuntava qua e là un mobile intruso, ora un divano letto,
ora un frigo modello anni '60, ora una stufa, ora un tavolo da pranzo
con cinque sedie. Chiunque abitasse lì dentro doveva aver
programmato di starci ben poco, vista l'aria un po' dismessa
dell'arredamento. Paul, che era il più curioso del gruppo, aprì il
frigo e poté notare che era pressoché vuoto, se non per la presenza
di quattro lattine di birra, altrettante salsicce e una scatola di
olive sottaceto ripiene di pasta al peperone.
«Ehi,
Paul. Passami un birra!» sogghignò Samuel, guardandosi attorno per
controllare che il negozio fosse davvero vuoto. Gabriel non fece in
tempo ad obiettare che una voce li fece sobbalzare:
«Da,
prendete quel che volete in mio negozio, siamo ookey?» I ragazzini
si girarono contemporaneamente verso il fondo della bottega,
chiedendosi da dove fosse sbucato quel tizio, visto che c'era
un'unica stanza e nessun'altra porta.
«Chiedo
scusa – mormorò Gabriel, abbassando gli occhi – Non volevamo
rubare.»
«No
problema, no problema, da! Prendete, prendete pure tutto, birra,
salsiccia, oliva, da? Forse tu vuole ciambelle ripiene di crema gusto
cioccolata, buone che è da impazzire?»
E
Paul, gettando un'altra occhiata nel frigo mezzo vuoto, si accorse
con stupore di una scatola trasparente che conteneva quattro
ciambelle grandi quanto una ruota di triciclo, sommerse da una
copiosa pioggia di granella di zucchero. Strano: avrebbe giurato che
prima non ci fossero.
Il
negoziante, mentre i ragazzini decidevano il da farsi, si avvicinò e
Gabriel poté osservarlo meglio. Era un uomo giovane, più o meno
sulla trentina, anche se i suoi occhi, grigi come un cielo nebbioso,
sembravano più vecchi della sua età. Portava lunghi capelli neri,
leggermente mossi e aveva un viso anonimo, tranne che per il naso,
affilato e adunco, come quello di uno sparviere. Indossava dei
pantaloni color verde marcio e un giubbotto di pelle da rocker,
sdrucito all'altezza dei gomiti. Nel complesso sembrava una persona a
posto, ma Gabriel, anche se non ne sapeva il perché, non ci avrebbe
messo la mano sul fuoco.
«Sei
russo?» gli domandò Alex, mordendosi nervosamente il labbro. Per
quanto fosse abbastanza grande da uscire da solo, ricordava ancora i
consigli ansiosi di sua madre a proposito degli sconosciuti.
«Da,
io russo, da, da! Tu buono orecchio, davvero davvero!» rispose lo
straniero, con quel suo accento buffo e allo stesso tempo intrigante.
Nel frattempo Samuel e Paul sbucarono da dietro la porta del
frigorifero con le mani stipate di cibo; Paul, affamato come al suo
solito, aveva già ingurgitato una manciata di olive, che masticava
con soddisfazione, sollecitato dal loro gusto acidulo.
«C'è
spazio per tutti, qui. Siede, siede, no preoccupa: Bogdan amico
vostro.»
Il
negoziante fece loro segno di accomodarsi al tavolo e Gabriel,
vedendo che lo sconosciuto era così ospitale, si calmò un poco e
prese posto anche lui. Si presentarono a turno. La mano di Bogdan era
gelida come la steppa russa e il suo profumo, dolce e penetrante,
aveva un che di primaverile.
«Che
aspetta ancora? Mangia, mangia, da!»
In
tre minuti le salsicce, messe a cucinare sul fuoco, furono pronte.
Mangiarono in silenzio, sotto gli occhi amichevoli di Bogdan. Samuel
fu il primo a svuotare la sua lattina di birra, seguito da Paul e
infine da Alex, che finì la bevuta con un sonoro rutto. Gabriel
bevve solo un sorso e preferì cedere il resto agli altri. Si
concesse però l'onore di sbocconcellare la ciambella zuccherina per
primo. Era davvero buona, con un retrogusto di miele e cannella.
«Cosa
state cercando qui, ragazzi cari?» chiese Bogdan, una volta che
ebbero terminato di mangiare.
«Vogliamo
quelle maschere appese lì!» bofonchiò Paul, che non aveva ancora
finito del tutto di masticare.
«Ah,
maschere! Voi sceglie bene, bene davvero! – replicò Bogdan, con
fare entusiastico – Ma qui non c'è fretta, no! Vi va di, come dice
qui da voi, giocare?»
I
quattro si guardarono incuriositi.
«A
che cosa?»
Bogdan
batté le mani, eccitato.
«Ah,
io ho gioco che vi farà impazzire. Tanto divertente che neanche ci
si crede, da!»
Si
alzò e si mise a frugare per il negozio, rischiando di far crollare
i giocattoli in equilibrio precario sulle mensole. Da una delle pile
esposte in vetrina trasse fuori un gioco da tavolo polveroso, che ad
occhio e croce doveva avere almeno cent'anni, visto quanto la
confezione era sdrucita e scolorita. I quattro ragazzini osservarono
con rispetto ultraterreno le mani bianche di Bogdan sistemare il
tabellone da gioco, un quadrato nero come un cielo notturno, sul
quale biancheggiavano delle caselle senza numeri. Ce n'erano
moltissime e per quanto Gabriel cercasse di contarle tutte, si
ritrovava sempre al punto di partenza, come se il percorso del gioco
non portasse da nessuna parte, e consistesse semplicemente in un giro
infinito, senza meta.
«Questo
gioco molto speciale, fatto da me, vi garantisco! – spiegò Bogdan – Ma ha
regole precise precise, proprio così. Bisogna stare attenti e
giocare, se no non valido, proprio no.»
I
ragazzi annuirono. Solo Gabriel non lo fece. Continuava a guardare il
tabellone ad occhi stretti. Era certo che per un istante, un solo
fugace istante, fossero comparse sul tavolo da gioco delle antiche
rune rosse, tracciate sinuosamente tutte attorno al suo bordo.
«Io
tiro dado e si inizia, ookey?» sussurrò Bogdan, sorridendo. I suoi
lunghi capelli neri gli coprivano gli occhi e quasi tutto il volto. E
la partita iniziò. Le regole erano semplici: bastava tirare il dado
e muovere la pedina lungo le caselle. Ognuna di queste aveva delle
penalità, che soltanto Bogdan conosceva; consistevano nel tornare
indietro, nel rimanere fermi un turno o nel ricominciare da capo il
proprio percorso. Era come il giro dell'oca, soltanto che su questo
l'arrivo non si poteva vedere, né se ne sentiva il bisogno. Il dado
passò di mano in mano, venne lanciato centinaia e centinaia di
volte; le pedine vennero fatte scivolare in avanti e poi indietro,
ancora avanti e poi di nuovo indietro, finché il tabellone divenne
un campo di battaglia dove vigeva una sola forza, quella del caos.
«Avevi
ragione, Bogdan. E' davvero divertente.» esclamò Samuel con fare
bambinesco, quasi non si rendesse conto di avere quindici anni e
mezzo e un filo di barba sulle guance.
«Io
te lo ho detto, da?» ribatté Bogdan, scoppiando a ridere
sgangheratamente. Fu allora che Gabriel cominciò a sentirsi stanco.
Era come se la sua giovinezza stesse lentamente sgocciolando via,
lasciandolo vuoto e inerme, un frutto privato del suo succo da una
colonia di vermi voraci. Tenere le palpebre aperte divenne una vera
impresa. Che mi succede? Cercò di alzarsi dal tavolo, ma
qualcosa lo teneva legato alla sedia. Si guardò le mani. Erano
diventate di un colorito violaceo.
«Ragazzi
– biascicò – qui si sta facendo tardi. A casa ci staranno di
sicuro aspettando.»
«Lasciaci
giocare in pace.» gli risposero Alex e Samuel all'unisono. I suoi
amici avevano il volto terreo e gli occhi spalancati. Eppure
continuavano a lanciare i dadi, e lo facevano come se fosse la cosa
più importante della loro vita, come se dai numeri ottenuti nel
prossimo lancio dipendesse la sorte del mondo intero. Paul, invece,
aveva la testa reclinata sul petto e respirava debolmente, ogni
soffio più vago ed esanime del precedente.
«Non
vuoi più giocare, da?» lo apostrofò Bogdan, tamburellando le mani
sul bordo del tabellone. Il suo volto era tanto in ombra che Gabriel
si chiese se avesse ancora una faccia, da qualche parte, sotto quei
capelli lunghi e neri.
«No...io...»
mormorò il ragazzo, mentre i suoi occhi scendevano lungo il braccio
dell'uomo, fino al quadrante dell'orologio. Erano trascorse dieci ore
da quando erano entrati in quello strano negozio. Dieci lunghissime
ore. Non è possibile,
pensò Gabriel. Non può
essere. E poi una voce
risuonò. Scappa. Non è
come sembra. Con
grande forza di volontà, il ragazzo si alzò. Ci fu come il rumore
di uno strappo e un lampo, un lampo accecante color sangue. E Gabriel
si ritrovò disteso sul pavimento della bottega mentre Alex, Samuel,
Paul e Bogdan rimanevano ancorati al tabellone corvino, continuando a
lanciare quei maledetti dadi.
Il
ragazzo si rialzò e corse di nuovo al tavolo. Cominciò ad urlare
con tutto il fiato che aveva in gola i nomi dei suoi amici, ma per
quanto rumore facesse, non riusciva ad attirare la loro attenzione.
Provò ad afferrarli per le mani, per le braccia, a prenderli a calci
sugli stinchi e a pugni sulla nuca, ma non ottenne nulla,
assolutamente nulla. Bogdan rideva, mentre i visi dei suoi amici si
facevano più smunti e i loro occhi sempre più stanchi. E allora
Gabriel afferrò l'accendino che Samuel portava sempre nella tasca
del suo giubbino. Un guizzo, una fiamma, e il tabellone prese fuoco
assieme ai dadi e alle pedine. Allora tutta la bottega tremò, mentre
Bogdan si alzava in piedi, urlando in modo gutturale tutto il suo
odio. Il tavolo si rovesciò, facendo sì che le fiamme divampassero
ovunque, sulle sedie, sul letto, sulla vetrina. Fu solo allora che
Alex, Samuel e Paul si svegliarono di soprassalto dal loro torpore
d'incubo, sbavanti per il terrore.
«Via, via VIA!»
gridò Gabriel, spingendo i suoi amici fuori da quel posto infernale,
ridotto ad una tomba crepitante. Prima di seguirli, Gabriel si voltò
ancora una volta verso il fondo della bottega, ormai totalmente
divorato dalle fiamme. In mezzo all'incendio, in piedi, c'era il
negoziante. Era diventato nero, completamente nero, come avvizzito.
«Io
so chi sei! – gridò Gabriel – Tu sei un upyr.»
«Mi
hai battuto, piccolo uomo, da!» ululò Bogdan «Ma tu hai vinto
battaglia, non guerra. Ci sono centinaia di cose, come me, là
fuori. Non potrai esserci sempre!»
«Ti
sbagli.» ribatté Gabriel e, detto questo, si lanciò attraverso la
vetrina, che il calore aveva fatto esplodere verso l'esterno in
centinaia di frammenti mortali. Le fiamme finirono ciò che avevano
iniziato e quando Gabriel si rialzò, pulendosi dalla polvere della
strada, vide che al posto del negozio era ritornato il solito muro,
con il solito cartellone pubblicitario. Alla sua destra e alla sua
sinistra, dov'erano sempre stati, c'erano la biglietteria degli
autobus e il panificio, dal quale fluiva un profumo di frittelle e di
pane appena sfornato.