Visto il successo della roulette letteraria, ho selezionato altre tre parole dal dizionario, ed ora eccomi qui, pronto per un'altra sfida. Le parole, che ricordo essere state selezionate dal caso, sono: posta, successo e crestomazia! Buon divertimento e buona lettura!
Alvise Brugnolo
Era
curioso il fatto che il professor Rocco Beretti, che di lettere era
vissuto, si sentisse morire per colpa loro, o meglio per una di esse,
una soltanto: una busta bianca, anonima, giunta con la posta del
venerdì, e sfuggita agli occhi cerulei del vecchio professore perché
scivolata sotto al mobiletto di mogano situato a destra della porta
d'ingresso, in un angolino in penombra; un posto che era perfetto per
perderci qualcosa di importante.
Rocco
Beretti viveva da solo, in un bell'appartamento situato all'ultimo
piano di un palazzo veneziano, una di quelle strutture cadenti tutta
trifore e camini, testimoni di un'epoca d'oro di cui rimane soltanto
il pallido riflesso tramandato da poesie in dialetto e libri di
storia. Dalla finestra del suo studio, il professor Beretti dominava
tutti i tetti delle altre case, e spesso il suo sguardo si perdeva in
lontananza, fino alla guglia verdastra del campanile di San Marco,
con il suo angelo sfavillante al sole fulgido dell'estate. Anche se
non lo avrebbe mai ammesso spontaneamente (era infatti un uomo che
amava definirsi “felice e solitario”), Rocco Beretti si era
sempre sentito molto solo in quella casa. Eppure dalla vita aveva
avuto tutto quello che aveva sempre desiderato: il successo. Qualche
dottorando doveva fare una ricerca su Pirandello? Contattava il
professor Rocco Beretti, l'esimio professor Rocco Beretti.
Quante volte i suoi colleghi di Oxford l'avevano invitato a tenere
una conferenza sulla narrativa europea del Novecento? Rocco Beretti
aveva perso il conto. Cinque, forse sei. Occasioni in cui lo scroscio
degli applausi aveva quasi soffocato la sua voce, ma allo stesso
tempo aveva innalzato il suo ego a vette inimmaginabili per gli altri
esseri umani. Al contrario, il ritrovamento di quella busta lo lasciò
piegato sulla poltrona come se fosse stato fulminato da un colpo
apoplettico.
Rocco
Beretti si trovava in salotto, seduto nel modo più comodo possibile,
con la mano sinistra intenta a reggere una minuscola tazza di tè e
latte, mentre con la destra si sforzava di non far sfuggire una sola
briciola di quel che restava della madeleine che aveva appena
addentato. Di fronte a lui, sopra un basso tavolino di vetro, c'era
un'edizione pregiata dello Zibaldone di Giacomo Leopardi, che il
professore, con molta attenzione, sfogliava con le uniche dita libere
che gli rimanevano, ossia l'indice e l'anulare della mano sinistra.
Leggeva e sgranocchiava, sgranocchiava e leggeva finché il suo
occhio cadde su un angolino bianco che sbucava, fastidioso come una
lisca incastrata nella trachea, dalla zampa del mobile posto in
corridoio, vicino alla porta. Che cosa sarà mai? si chiese
l'uomo, mentre si alzava controvoglia e riponeva tazzina e biscotto
sopra di un portavivande, sapientemente posto a distanze siderali
dalla sua preziosa collezione di libri. Collezione che, manco a
dirlo, occupava l'ottanta percento e forse più della sua casa.
Volumi antichi e moderni, di storia, filosofia e letteratura,
impilati l'uno sopra l'altro in torri del sapere, spesso a rischio di
crollo come la mura di Gerico se ci passavi accanto sbadatamente.
Rocco
Beretti si avvicinò al mobile strascicando le pantofole e
sbadigliando. Si chinò tra mille sbuffi e imprecazioni (imprecazioni
rigorosamente educate, era Beretti, non ce lo dimentichiamo) e trasse
fuori dalla polvere una busta. E questa da dove sbuca? pensò
il professore, prima di collegare rapidamente l'oggetto misterioso
alla posta che gli era stata recapitata ben due giorni prima. Cose
da matti, si disse tra sé e sé, infuriato che ora ci si
mettesse anche la sorte a ritardare la sua corrispondenza. Come se
non bastasse già di per sé la posta, con i suoi mille
inconvenienti, le buste non recapitate, i pacchi arrivati rotti e
infangati o addirittura non arrivati affatto. Che mondo alla
rovescia.
Non
si accorse neppure di aver strappato bestialmente la busta né di
averne estratto il testo. Si ritrovò semplicemente a leggere. La
lettera era scritta in un italiano stentato, che Rocco Beretti non
apprezzò affatto. Diceva più o meno così.
Caro Rocco, [Rocco? Come si permette?]
Teresa
Soprani
Caro Rocco, [Rocco? Come si permette?]
So
che forse non ti ricorderai proprio di me. Sono Teresa, Teresa
Soprani. [e qui Beretti credette di rimanerci secco] Sono passati
quasi vent'anni dalla tua visita all'università di Napoli. Ti
fermasti a dormire alla pensione Seguso, fintanto che rimanesti in
città per le tue lezioni. Adesso ti ricordi di me? Ero la figlia del
padrone della pensione, quella ragazza mora e impacciata che non ti
levò mai gli occhi di dosso. Io ero così giovane, una stupida
venticinquenne con tanti sogni per la testa e tu, tu un professore di
mezza età così bello e interessante che non ci credevo. Sai bene
come andò a finire. Non so proprio come dirtelo, ma non c'è altro
modo. Hai un figlio. [gli occhi del professor Beretti divennero
grandi come due buche da golf]. Non te lo dissi mai, perché sapevo
che tu non avresti apprezzato e mai e poi mai volevo che l'errore di
una notte rovinasse la tua bella vita da uomo colto di città. Ma
adesso lui è grande e ti vuole conoscere. Non sono riuscita a
fermarlo, perché lui è più testardo di un mulo, più di te e me
messi assieme. Ha detto che è giusto che un uomo bell'e fatto
conosca suo padre. Ma lui non è ancora un uomo. Ha solo vent'anni, è
solo un ragazzo in cerca di qualcuno che lo ami. Ascoltalo, se puoi.
Per quel poco tempo che sarà lì sii il buon padre che lui non ha
mai avuto! Arriverà da te per domenica.
Tua,
E
qui Rocco Beretti interruppe la lettura con un singulto prepotente,
simile al risucchio annaspante di un marinaio che, caduto dal
parapetto di una nave nel mare notturno e gelato, avesse rischiato di
annegare. I suoi occhi vacui, ora ridotti a due fessure, si
soffermarono sul calendario appeso al muro di fronte, vicino alla
copia di un'acquaforte di Degas. Domenica. Beretti non si era
mai soffermato sulla parola domenica come invece si trovò a fare in
quegli istanti concitati. DOMENICA. Si mise a smontare il suono della
parola, ne perse il significato e si ritrovò a rimontarlo a caso,
senza senso, finendo col formare una parola totalmente diversa.
DANNAZIONE.
In
quel mentre, qualcuno bussò alla porta. Il cuore di Rocco fece un
triplo tuffo carpiato. Tremando come se il suo corpo fosse diventato
improvvisamente di gelatina, Rocco appoggiò gli occhi miopi allo
spioncino dell'uscio, ma non riuscì a vedere nulla, dal momento che
la luce delle scale era troppo tenue per illuminare chiunque fosse lì
in piedi, in silenzio, dietro la porta.
«Chi
EEEEè?» gorgogliò Rocco Beretti, augurandosi che fosse solo il
postino o anche uno svaligiatore di appartamenti: tutto, piuttosto
che il figlio che non aveva mai conosciuto.
«Papà,
sono io, Tonio.» rispose una voce allegra, giovane, piena di
emozioni. Dio, mio, pensò Rocco, rendendosi conto di come
odiasse qualsiasi altrui forma di confidenza. Papà? Ma come
si permetteva di chiamarlo così, lui, che era lo studioso più
influente della narrativa del Novecento?
Rocco
Beretti aprì, non poteva fare altro, e si trovò davanti uno di quei
ragazzi di oggi, quei debosciati senza spina dorsale, maglietta nera,
pantaloni militari, anello al naso come un toro bavoso, una decina di
piercing fra orecchio, labbro e sopracciglio. Rocco aveva voglia di
urlare.
«Papà
– continuò il ragazzo – se vuoi puoi chiamarmi Totò.» e detto
questo lo abbracciò. Rocco, completamente paralizzato, accettò quel
gesto senza ricambiarlo, muto e confuso. Tonio puzzava di sudore,
sigarette e Dio sa cos'altro. Eppure, in quell'odore così diverso
dal solito, Rocco avvertì la fragranza calda di Teresa e provò,
inspiegabilmente, una morsa all'altezza del petto.
«Chebbelposticcino!»
urlò il ragazzo, nel frattempo addentratosi, senza permesso, fino al
salottino. Poggiava le mani ovunque, sui libri, sulle stampe, sulle
incisioni, sugli incunaboli, lasciandoci l'impronta unta delle sue
ditate. Rocco Beretti si tratteneva a stento dal cacciarlo di casa.
«Sentimi
un po', Tonio.» esordì il professore, stupendosi di essere ancora
in grado di esprimersi.
«Totò,
pà, Totò.»
«Sì,
come vuoi... Totò... Che cosa vuoi?»
Il
ragazzo lo guardò con aria interrogativa.
«Solo
conoscerti, pà.» rispose con la faccia trasognata, quella di chi,
dopo una lunga sofferenza, trova finalmente ciò che cercava nel
posto e nel giorno più inaspettati. Rocco lo analizzò meglio,
sperando di essersi sbagliato, ma non cambiò affatto idea. Quei
pantaloni, tutti quegli anelli e quella... quella orribile maglietta
nera con i teschi disegnati! Come se non bastasse, all'altezza del
bicipite di Tonio, spuntava un tatuaggio tribale tutto punte e corna,
una roba da galeotto incallito. Rocco scosse la testa. Suo figlio, il
figlio che non aveva mai voluto avere, doveva essere uno di quei
criminali da strapazzo, un drogato, un disadattato, uno schizzato che
andava a rubare le automobili e contribuiva a suo modo al degrado del
paese. Beretti corrucciò la fronte, con aria disgustata, convinto
che a secondi si sarebbe messo a vomitare la sua madeleine. In quel
mentre, proprio nell'esatto momento in cui Rocco pensava a tutte
queste cose, Tonio si sedette sulla poltrona e fece per allungare i
piedi sul tomo di Leopardi. Rocco glielo impedì, tuffandosi
letteralmente per afferrargli le gambe e spostarle giù, al sicuro,
sul tappeto. Non poté fare a meno di notare le scarpe da ginnastica
del ragazzo, scarpe sformate, piene di scritte fatte con lo spray.
Scarpe da teppista, senza dubbio.
«Scusa,
pà.» si schermì il ragazzo, tanto imbarazzato quanto impaurito. Se
solo non lo avesse ritenuto impossibile da un ladruncolo come lui,
Rocco Beretti ebbe l'impressione che stesse per scoppiare in lacrime.
«Fa
niente.» rispose il professore con un ansimo, consapevole che al
prossimo gesto fuori posto sarebbe esploso di rabbia.
«Raccontami
pà. Cheffaiddibbello nella ttuavvita?» domandò il ragazzo con un
accento strano, che avrebbe fatto venire la pelle d'oca a qualsiasi
commissione di maturità. Rocco ci mise qualche secondo a rispondere,
quasi ipnotizzato dai modi irruenti e poco eleganti di quel ragazzo
di strada.
«Sono
un docente universitario di fama mondiale, autore di saggi critici
fra i più apprezzati al mondo. Ho scritto anche una crestomazia
della lingua italiana, che spazia dal medioevo alla metà del
Novecento.» rispose il professore, mentre si prendeva un bicchiere
dalla vetrinetta dei superalcolici. Del buon scotch scozzese, ecco
quello che ci voleva. Un buon bicchiere di Laphroaig riempito di
ghiaccio fino all'orlo.
«Ecchesarebbe?»
rispose il ragazzo, con quel suo modo di pronunciare le parole tutte
quante attaccate, come appiccicate con l'attack.
«Lascia
perdere. Cose che tu non potresti capire.» rispose affilato il
professore, tracannando lo scotch e apprestandosi a versarsene un
altro bicchiere. Con un gesto della mano chiese al ragazzo se ne
volesse un po', ma Tonio rifiutò. Strano, si disse l'uomo,
chissà quante schifezze ha in corpo, questo scimmione tatuato.
«Senti,
pà. Avevo pensato di stare un po' qui da te, per spassarcela
insieme, come padre e figlio. Abbiamo tante ccoseddaddirci...»
Venne
interrotto dalla risata secca e malevola del padre. Questa era la
goccia che faceva traboccare il vaso. Il professor Beretti aprì la
bocca e vomitò tutta la sua rabbia.
«Tu,
fermarti qui? Non ci penso proprio. Chi ti ha detto che sarei così
stato felice di vederti, eh? E' stata tua madre?»
Tonio
ammutolì e sbiancò di colpo.
«Ma,
pà...»
«Che
cosa vuoi, eh? – sbottò il professore rosso in viso – Vuoi
soldi, eh? Vuoi soldi? Eccoteli, eccoteli qui!» e detto questo,
Rocco si mise a frugare nei cassetti del salotto, radunando tutti i
pezzi da cinquanta che trovava in un blocchetto compatto e
frusciante, che avrebbe fatto gola a chiunque, specialmente ad un
teppista come doveva essere quel ragazzo, e certo che lo era, con
tutti quei tatuaggi e quei pezzi di acciaio infilati nei lobi, nelle
narici, nelle... Quando si girò verso il figlio, Rocco venne
fulminato da uno sguardo pieno di delusione.
«Che
fai pà?»
Vedendo
che il ragazzo non aveva intenzione di accettare quel denaro, Rocco
lasciò ricadere le braccia lungo il corpo, come se avesse perduto le
forze.
«Sentimi
bene – disse sospirando – Io non sono un padre. Non lo sono mai
stato e non lo voglio essere. Mi dispiace figliolo. Non posso fare
niente per te.»
Il
ragazzo lo fissò in silenzio e Rocco non riuscì a sostenere lo
sguardo. Era uno sguardo pesante, in grado di farlo sentire niente
meno che l'ultimo uomo di questa terra, e poco importava dei suoi
saggi, delle sue lezioni, della sua carriera universitaria, del suo
successo.
«Peccato
che tu non abbia imparato niente da quei tuoi libri, pà – sbottò
Tonio, con fare amaro – Addio.»
Il
professor Rocco Beretti si ammutolì. Erano anni che non accadeva, e
precisamente da quando, più di cinquanta anni prima, era stato
bocciato ad un esame di filologia romanza. Mai e poi mai avrebbe
creduto che qualcun altro sarebbe riuscito a chiudergli la bocca
ancora. Si sbagliava. E prima ancora che riuscisse a riprendersi,
Tonio era già uscito dalla porta di casa, scrollando la testa con
l'evidente intenzione di trattenere le lacrime che gli dondolavano
pericolosamente lungo le ciglia. Ciglia dure e arcuate, come quelle
di sua madre. Il professor Beretti si lasciò cadere pesantemente
sulla poltrona. Un'unica, patetica goccia di scotch stillò dal
bicchiere, macchiando la pagina dello Zibaldone. Beretti non se ne
accorse neppure e anche se lo avesse fatto non si sarebbe scomposto.
Peccato che tu non abbia imparato niente da quei tuoi libri,
una frase che, anche se chi l'aveva pronunciata era scomparso,
risuonava ancora dentro il suo orecchio, facendogli vibrare tutta la
testa, occhiali e cravattino compresi. L'uomo si guardò attorno
lentamente e non riconobbe la sua casa. Ovunque c'era polvere,
silenzio, antichità. Tutti quei libri, ammonticchiati quasi fino al
soffitto, mille copertine tutte diverse, che sembravano guardarlo e
giudicarlo. Il professore li aveva letti e riletti quei libri, ne
aveva analizzato anche le più piccole minuzie grafiche, la loro
struttura, la loro intertestualità. Ma le parole di Tonio dicevano
il vero: non ne aveva mai capito davvero il contenuto. Le emozioni
umane, la passioni, l'amore, la sofferenza, tutte queste cose erano
contenute nei suoi libri, ma Rocco Beretti non poteva capirle, in
quanto non le aveva mai vissute. Poteva analizzare le parole,
conoscerne l'etimologia e gli sviluppi futuri, ma non era in grado di
parlare la lingua dei sentimenti. E la poesia, privata delle
emozioni, non è che un elenco di lettere, non tanto diverse da un
sfilza di freddi numeri aritmetici, qualcosa di razionale, certo, ma
che non può parlare al cuore degli uomini, non può toccare le loro
corde più profonde, scatenarne le passioni, ravvivarne i sogni. Hai
sbagliato tutto, esimio professor Rocco Beretti. Ripensò al viso
solare di Teresa, al suo seno prorompente, ai suoi baci infuocati. A
quel figlio così diverso da lui e che tuttavia, sotto il lato umano,
era migliore di lui. “Tonio” mormorò e si sentì perduto.
Allora
Rocco Beretti si precipitò lungo le scale, scalzo, con la camicia
aperta fino alla pancia, i capelli bianchi madidi di sudore che gli
ricadevano sopra gli occhiali dorati. Tonio, gridava, Tonio,
aspettami! Giunto in strada, il professore si trovò a
fronteggiare una folla di persone che lo guardava con disinteresse,
vide i volti terrei di uomini e donne sconosciuti, che marciavano
contro di lui a passo cadenzato, come durante una marcia funebre. E
Rocco capì che a nessuno, in fondo, importava chi lui fosse davvero.
Veneravano il suo talento, la sua cultura, ma non lui in quanto se
stesso, in quanto uomo, con i suoi difetti, con i suoi pregi, con i
suoi sogni e le sue paure.
«Tonio!»
gridò Rocco Beretti a squarciagola, ma il ragazzo era già sparito,
inghiottito dalla nebbia che, improvvisamente, era calata come un
sudario sui tetti delle case e delle chiese.
Il
sole splendeva sulla città di Napoli e la Basilica reale pontificia,
nella Piazza Plebiscito, sfavillava come un grande e antico tempio
romano. Rocco Beretti si incamminò lungo via che si lasciava la
piazza alle spalle, guardando tutto con occhi diversi, come se li
usasse per la prima volta. Dilatò le narici e respirò a pieni
polmoni l'aria viva, piena di gente, voci, sapori. Poi, arrivato nei
pressi di un parco, si fermò ed emise un sospiro ricco di ricordi.
Era arrivato.
Alla
pensione Seguso si accedeva mediante una stradina laterale, angusta e
sporca, e tuttavia piena del fascino dell'inconsueto. Teresa Soprani
lavorava lì da una vita e la pensione l'aveva vista crescere, farsi
grande, e poi invecchiare. Ora era una donna di mezza età, con il
viso composto, austero come quello delle figure sacre raffigurate nei
mosaici delle chiese romaniche. Alzò gli occhi quando sentì la
porta cigolare, un breve pianto legnoso. Osservò l'uomo che era
entrato con un misto di felicità e timore. Lo riconobbe subito, e
due lacrime le rigarono le guance. Rocco Beretti era in piedi,
sorridente, più vecchio di come lo ricordasse e in fin dei conti
neppure troppo. Sempre elegante, ma cambiato. Era più umano.
«Sei
qui?» sussurrò la donna, senza fiato. Lui si avvicinò con gli
occhi lucidi e le prese le mani.
«Dammi
la camera migliore, Teresa. Mi fermerò a lungo.»
Nessun commento:
Posta un commento