venerdì 31 luglio 2015

Film consigliato - Babadook





Baba dok dok dooook
-          Il Babadook


Per un amante dell’horror, Babadook era un appuntamento immancabile e io, ovviamente, non me lo sono perso. È opportuno precisare una cosa, però: Babadook non è l’horror più spaventoso degli ultimi anni. Definirlo in questo modo è stata una mera manovra commerciale, per di più una scelta infelice visto che ha creato false aspettative in chi, entrando al cinema, pensava di fare i soliti insulsi salti sulla sedia. Babadook è, senza se e senza ma, un film girato magistralmente, con una grande personalità, come non se ne vedevano da tanto tempo. Un ritorno all’horror vecchia scuola, più psicologico che granguignolesco. Perché, diciamoci la verità, tutti noi ci siamo rotti le scatole di film come Annabelle o The Possession, dove la tensione (ossia la vera protagonista di un film horror) viene affogata da litri e litri di sangue e dalle grida più o meno ridicole dell’indemoniato/a di turno.
Con Babadook è diverso. Guardare Babadook significa entrare nella quotidianità malata di Amelia, una povera donna vedova da sei anni, costretta a lavorare come infermiera e allo stesso tempo a crescere da sola un bambino ingestibile, Samuel. Il duro lavoro, le scenate isteriche del suo bambino, la vita perfetta (o che appare tale) della sorella egoista, gonfiano il risentimento e la follia di questa povera donna. In fondo, e questo non fa che potenziare il senso di frustrazione e di angoscia che pervade il film, Amelia è sola. Sempre.
Le cose non migliorano dopo il ritrovamento di un misterioso e cupo libro di favole, infilato da chissà chi nella libreria. Un libro mostruoso, che parla di questo Babadook, una specie di babau dalla forma non ben precisata, che terrorizza sia Amelia che Samuel. Liberarsi del libro è impossibile, persino bruciarlo non risolve nulla. E pian piano, proprio come il libro profetizzava, il mostro comincia a farsi vedere, a sbucare dagli angoli bui e da dietro le porte…
Gli ingredienti per un gran film ci sono tutti e Babadook non delude. La regista, Jennifer Kent, qui al suo primo lungometraggio, ci sa fare, diamine se ci sa fare. E, la cosa che rende Babadook il film horror dell’anno, è che il senso del film non si esaurisce nello spavento fine a se stesso, affatto: il mostro stesso, questo buio e serpeggiante Babadook, è la metafora di qualcos’altro, è un concentrato di dolore, di delusione, di solitudine. È la parte più buia che perseguita Amelia dalla morte del marito, che non la lascia respirare da sei anni, che soffoca ogni suo sentimento positivo nelle tenebre della gelosia. Capite già da queste premesse che Babadook non è un film adatto a tutti, di certo non da chi considera Hostel un film horror. Non ci sono “botti improvvisi” in questo film, ma una paura più sottile, meno appariscente, un tipo di paura che i film horror di questa generazione non sono più in grado di dare. Chi è uscito dal cinema dicendo “non mi ha fatto paura” oppure “il finale è proprio brutto” o ancora "questo film è una schifezza" significa che di horror non ne capisce niente e forse nemmeno di film in generale. O, ancora peggio, è cresciuto con quelle baggianate che oggi vengono spacciate come film horror, ma che non sono altro che film di serie B pieni di cliché.
Che altro dire? Ho già parlato troppo e non voglio rovinarvi il finale. Perciò… Un saluto e buon ba-ba-dok-dok a tutti! 


sabato 18 luglio 2015

Eternità

Cari lettori,
ho così caldo che il mio cervello sta andando in fiamme. Perciò, tutto quello che sono riuscito a fare, (con l'aiuto di una borsa del ghiaccio e di un succo di frutta gelato), è stato riprendere in mano un vecchio racconto mai pubblicato. Una storia di vampiri, di cacciatori di mostri e di promesse d'amore... 
Mi raccomando, commentate! Le vostre recensioni (sia positive che negative) sono sempre ben accette!
Alvise

P.S. E voi, come vi sentite? Anche nella vostra città si muore dal caldo?





IL TRENO arrivò alla dispersa stazione di Covington Garden in perfetto orario; alle 19.30 in punto, in contemporanea all’ultimo esangue raggio del sole morente, il quale, superata a fatica l’algida barriera della nebbia, stava già andando a crollare oltre le colline. Non che ci sarebbe stata una grande differenza: sia che fosse mattino, sia che fosse crepuscolo inoltrato, una perenne luce cadaverica dimorava su Covington Garden, il che rendeva difficile capire in che momento della giornata si fosse. Era così da quando i cittadini avevano memoria. Ma negli ultimi tempi il cielo, la nebbia e il lago si erano fatti più neri, tanto neri che a stento si potevano riconoscere, così come si riconosce a fatica il viso di una persona cara uscita con difficoltà da una lunga e debilitante malattia.
La locomotiva, partorendo volute di fumo grigio antracite, frenò con un gemito da moribondo e si trascinò lemme lemme verso la porta principale della piccola stazione, poco più di quattro mura tirate su alla bell’e meglio su un ex-campo di zucche. Lo status di stazione le era conferito da un cartellone bianco, sorretto da una complessa sbarra in stile liberty, su cui capeggiava la scritta Covington Garden.
Un ultimo gemito e il convoglio si bloccò definitivamente, con somma liberazione dei viaggiatori.
James attese che il controllore aprisse le porte con la chiave di sicurezza, dopodiché scese, anche se lo fece con una lentezza gravida di ricordi. Indossava un soprabito nero di pelle, un paio di guanti foderati di pelliccia di coniglio e un cappello a larghe tese, anch’esso nero. Nella mano sinistra stringeva una voluminosa borsa in pelle, simile a quella di un dottore di campagna; nella destra un bastone da passeggio con l’impugnatura d’argento: raffigurava un falco con le ali spiegate. Il simbolo del club a cui apparteneva. Se così si poteva chiamare.
Dopo essersi allontanato dalle porte della carrozza, l’uomo inspirò l’aria umida del luogo, e una lacrima gli colò lungo il viso; brillò come un diamante prima che riuscisse a carpirla e a nasconderla con un rapido movimento del braccio. Doveva dimostrarsi forte o sarebbe crollato ancora prima di avvicinarsi a Lei.
Un movimento catturò il suo sguardo: un gruppetto di persone gli si stava avvicinando, tossendo per via del denso sfiato della locomotiva. Era il sindaco Bolton, accompagnato da una manciata di impiegati baciapile e di ricche dame del luogo.
«Benvenuto Sir James… – balbettò l’ometto, togliendosi la bombetta – La stavamo aspettando con ansia. Tutta la città le è grata per quello che…»
«Lei dov’è?» tagliò corto James, scrollandosi la polvere dalle falde nere del cappotto.
Il sindaco, tremando come un uccellino intrappolato dal laccio di un bracconiere, indicò la collina più distante. Oltre la nebbia, che un vento sottile ma deciso aveva iniziato a sfilacciare, si intravvedeva la sagoma appuntita di un castello.
Villa Hampson. Dove altro poteva nascondersi? pensò James, la bocca sottile stesa in un sorriso quanto mai fuori luogo.
«Sellatemi un cavallo. Non voglio indugiare.» sibilò, mentre la sua mano si stringeva attorno al bastone di frassino, che scricchiolò pericolosamente. Il sindaco Bolton, curvandosi tutto in un viscido gesto servile, annuì.

*

«Se n’è andato? Allora?»
Chiara si sporse oltre la porta del fienile. Spiò fra le assi di legno, poi tornò a nascondersi nel buio. Una serie di passi attutiti si avvicinarono, mentre l’ombra minacciosa di due esili gambe faceva capolino da sotto la porta.
James si strinse alla sua amica. L’ombra indugiò per qualche secondo, dopodiché i passi si allontanarono e la luce tornò a fluire, insieme al respiro dei due bambini. Chiara soffocò una risata mentre la sua gonna, un vecchio vestito a righe di sua madre, si gonfiava come la vela di un clipper.
«Che c’è da ridere?» ringhiò James. Aveva solo otto anni, ma il suo orgoglio non era poi così diverso da quello di un uomo adulto: bastava una scintilla e divampava.
«Rido perché una cacchina sarebbe più coraggiosa di te!» ribatté Chiara, sghignazzando sguaiatamente. James strinse i pugni.
«Io non avevo paura! È solo che…»
«Lo so, lo so… il precettore Samuel fa paura a tutti.»
«A tutti tranne che a te.» sbottò acido il bambino.
Chiara gonfiò minacciosamente il petto. James si incantò a guardarla. Non era bella. Non ancora, ma lui sapeva, ne era certo, che un giorno sarebbe diventata splendida, e allora tutti i ragazzi del villaggio avrebbe smesso di prenderla in giro perché si atteggiava da maschio e portava quel ridicolo cappellaccio sgualcito appartenuto al padre morto in guerra. Diventerà bellissima, si disse James, e io sarò ancora qui a guardarla. Si sbagliava, proprio come sbagliano tutti i bambini quando promettono cose che da grandi non saranno in grado di mantenere.
«Tu pensi che sono strana, eh James?»
James ammutolì. Lo pensava, ma non come credeva lei. Non c’era niente di male ad essere strani, anzi: a volte era una ricchezza, un miracolo in un mondo altrimenti troppo grigio e amaro. Se non ci fosse stata Chiara, la vita di James a Villa Hamilton sarebbe stata un completo disastro. E poi chi lo avrebbe aiutato a scappare da quel tiranno del precettore Samuel, il pastore protestante più becero e tedioso di tutta l’Inghilterra?
«Sei esattamente come tutti gli altri…» ringhiò la bambina, voltando sfrontatamente la testa, in un turbine di capelli biondi. James la prese per le braccia.
«No! Questo non è vero! Non te lo permetto! Non sarei qui dopotutto…»
Giocare con Chiara era un lusso che il giovane rampollo del conte Louis Hamilton non poteva permettersi. Quante volte si era preso una sonora dose di cinghiate per essersi fatto trovare in compagnia della figlia della serva! Ma James non si sarebbe fatto piegare così facilmente. Potevano picchiarlo, chiuderlo a chiave nella sua stanza, mandarlo in collegio a Londra, ma lui l’avrebbe sempre cercata. Sempre.
«Sai che ti amo, Chiara.»
Lei rise.
«L’amore è una cosa da grandi. Tu sei solo un poppante, proprio come me.»
«No, non è così. Te lo giuro.»
Uno scintillio di crudele felicità si accese negli occhi verdi e magici di Chiara.
«Se fosse così dovrai stare insieme a me per sempre. È questo il vero significato della parola amore: l’eternità.» 
«Allora sarà così. Starò con te per sempre, giorno dopo giorno, sotto il cielo grigio di Covington Garden. Te lo giuro per il sangue rosso che scorre nelle mie vene.»
Chiara rise di gusto. In cuor suo sapeva che quelle non erano che parole, destinate a sparire con il vapore di un treno rosso fiamma diretto a Londra. Ma James non lo credeva, no. Formulare quel giuramento era stato per lui qualcosa di sacro. Solo crescendo si era reso conto che le sue erano state solo le pazze promesse di un bambino.

*

Villa Hampson aveva sempre avuto un certo fascino sinistro. Dal punto di vista della struttura non si distingueva dalle altre ville del circondario: edifici vittoriani, con ampi portici, ciclopici colonnati e lunghe file di finestre a timpano. Queste ville, tuttavia, avevano tutt’attorno acri e acri di campi fioriti e viali alberati, dove conti e baronetti si riunivano ogni sabato pomeriggio a giocare a cricket o a cacciare le volpi.
Villa Hampson in questo faceva eccezione: da quando si aveva memoria il luogo era sempre stato abbandonato, chiuso ai visitatori esterni, impenetrabile come un castello medievale. Nei suoi giardini cinerei, soffocati da ciuffi di gramigna e nugoli di insetti, soffiava un vento tombale che si percepiva persino dalla strada. Questo era uno dei motivi per cui gli abitanti di Covington Garden giravano alla larga dal lugubre cancello in ferro battuto, dal quale si intravvedeva, occultata dalle fronde dei cipressi, la facciata in rovina della villa. L’ultimo proprietario della magione era stato un crudele signorotto locale, che era stato accusato dell’omicidio di due giovani ragazze di campagna. Pare che avesse cercato, non si sapeva se per pura crudeltà o se fosse davvero convinto della riuscita del suo folle piano, di riportarle in vita con un macabro rituale pagano, qualcosa che aveva a che vedere con la trasmigrazione delle anime. Era stato catturato e impiccato dalle autorità locali, e dal 1832 la villa era sempre rimasta chiusa, nonostante qualche malalingua avesse giurato di scorgere, sul fare della notte, la luce di una fiammella riverberare sulle finestre dell’ala ovest. Queste erano le dicerie che aleggiavano a Covington Garden ed erano così radicate che quando era capitato che qualche persona, soprattutto stranieri e bambini, sparisse misteriosamente, la colpa era stata data al fantasma sanguinario del conte Hampson.
Chiara, ovviamente, a queste storie non ci credeva. Lei era l’unica che, in barba ai compaesani, si spingeva fino al cancello nero della villa, con la smania di riuscire a superarlo e di intrufolarsi dentro quei saloni rimasti chiusi da più di quarant’anni. Una volta era riuscita a farsi seguire nella sua folle esplorazione proprio da James.
Lui, ventinove anni dopo, se lo sarebbe ricordato ancora.
Era una giornata gelida di gennaio. Aveva nevicato per tre giorni interi e Covington Garden era rimasto bloccato dalla tormenta. Il precettore Samuel, che veniva dal vicino villaggio di Old Borough, non aveva potuto neppure mettere il naso fuori dalla sua villetta. E così James, vestitosi di tutto punto, aveva trascorso le sue ore di libertà con Chiara. Avevano corso su e giù per la via, le gambe immerse per metà nel manto bianco; si erano bersagliati di palle di neve, rischiando di travolgere i garzoni che faticavano a ripristinare la viabilità dalle sterrate; avevano ammonticchiato il ghiaccio e la neve per creare un ridicolo e goffo pupazzo, che poi avevano abbattuto a sassate.
Lentamente, quasi senza accorgersene, erano arrivati ai piedi della collina; la neve qui era più abbondante e gli alberi, gravati dal suo peso, scricchiolavano. Alcuni erano già schiantati, strappati senza pietà dal vento notturno. C’era un silenzio irreale, acuito dal fatto che lassù, nei pressi di Villa Hampson, non veniva mai nessuno, nemmeno i cervi o le lepri che infestavano i campi. James, incapace di frenare le proprie gambe, come nel peggiore degli incubi, osservò il cancello ossuto della villa farsi sempre più vicino; e così, prima che potesse anche solo formulare un pensiero o trattenere l’irruenza di Chiara, le sue mani si erano ormai strette alle gelide sbarre del cancello.
«Dici che ci abiti davvero qualcuno?» chiese Chiara, il viso magro infilato fra lo spazio di due sbarre.
«N-no, sono sicuro che sia completamente v-vuota!» balbettò James, sondando con gli occhi ogni singolo punto della facciata, finestre e doccioni compresi.
«Te la fai sotto, non è vero?» lo schernì lei. I suoi occhi verdi gli scrutavano dentro l’anima.
«No, affatto!» gridò James.
«Bene – fece lei – allora dimostramelo andando a toccare quella.» e indicò una vasca per uccelli, situata al centro esatto del lungo viale alberato che conduceva alla villa. James deglutì. Anche da quella distanza riusciva a scorgere cose morte nella vasca, corpi rinsecchiti di uccelli. Come se qualcuno o qualcosa li avesse bevuti fino all’ultima goccia di sangue.
«Io… E va bene.» rispose James, rassegnato. Ventinove anni dopo avrebbe rimpianto quella scelta; avrebbe sacrificato la sua intera esistenza pur di annullare quel malefico giorno. Ma ingannare il tempo era un potere che non spettava agli uomini.
Con l’agilità e lo sprezzo del pericolo di un bambino di dieci anni, James si avvinghiò al cancello, si arrampicò fino alla sua sommità e lo scavalcò. Atterrò leggero, i passi attutiti dalla neve, il respiro trattenuto in gola, gli occhi incollati alla porta sbarrata della villa. Si voltò una sola volta, e lo sguardo ammirato di Chiara gli diede la carica necessaria a far svanire ogni ritrosia. Si girò, galvanizzato, e iniziò a correre, sentendosi davvero piccolo rispetto agli alberi macilenti che lo accerchiavano da tutti i lati. Fu la corsa più rapida di tutta la sua vita. Non guardò neppure cosa conteneva la vasca: un solo tocco alla superficie di marmo ed era già ripartito verso la piccola figura che lo attendeva sorridente dall’altra parte del muro. Correva come se la morte fosse alle sue spalle. Un sospiro, una risata di trionfo, un passo dopo l’altro: il cancello si faceva a ogni istante sempre più vicino.
Poi Chiara iniziò a urlare.
«James! James, ti prego… va’ più veloce! E non voltarti!»
«C-cosa c’è?» gridò lui, senza smettere di correre.
«Zitto e fa’ come ti ho detto!» urlò Chiara di rimando.
Ma James si voltò.
Una figura allampanata lo stava inseguendo. Era ancora lontana, ma macinava metri ad ogni secondo. Era rapidissima, ammantata di tenebra, come un pipistrello. E tuttavia era un uomo o almeno si muoveva come se lo fosse, benché il suo mantello, gonfiato dal vento, si librasse dietro le sue spalle come un paio d’ali membranose.
James, urlando come un pazzo, si rese conto di non aver tempo di scalare il cancello: si gettò istintivamente attraverso le sbarre, sfuggendo per un soffio agli artigli della Creatura.
Gli eventi successi, James non se li ricordava. Sapeva soltanto di essersi risvegliato nel letto della sua camera, delirante e con la febbre altissima. Una cosa però gli era rimasta impressa: il sorriso estasiato che Chiara, mentre fuggivano giù per la collina, aveva rivolto a quel mostro senza nome.

*

Dopo quel giorno, i rapporti fra James e Chiara si erano interrotti di colpo. Lui si era immerso nello studio, seguendo i voleri di suo padre, e a tredici anni era partito per Londra a bordo di un treno rosso fiamma. Dieci anni dopo sarebbe divenuto uno dei più abili avvocati della capitale. Chiara, invece, se n’era rimasta a Covington Garden. Le sue visite a Villa Hampson erano continuate, in gran segreto. La paura che provava per la cosa che viveva nel buio era stata soverchiata da un muto rispetto e dal desiderio irrefrenabile di assomigliarle. Aveva iniziato a venerare la Creatura e, pian piano, era stata pronta ad accettare la notte dentro di sé.

*

Villa Hampson incombeva su James, ingoiando la sua piccola ombra in un oceano di tenebra. Lui si guardò attorno, cercando di regolarizzare il respiro. Non era cambiato quasi nulla da quel giorno dannato: la vasca di marmo era ancora piena di cadaveri freschi di uccelli, gli alberi erano tutti in piedi, malati ma vivi, e il tetto della villa si ergeva come il dito di un morto verso il cielo plumbeo. Era lui ad essere cambiato. Non solo fisicamente, ma in profondità, dentro il suo cuore. Eppure, nonostante tutta l’esperienza che aveva maturato a Londra, fra le schiere dei cacciatori di vampiri conosciuti come i Falchi d’Argento, non si sentiva affatto pronto per quell’ultima battaglia.
Non hai scelta, gli disse una voce femminile dentro la sua testa, una voce che era quella della piccola Chiara, la Chiara innocente della sua infanzia, che non esisteva più da ventinove anni.
«Lo so.» borbottò lui. Dopodiché, la mano ben stretta sul suo bastone, James drizzò le spalle ed entrò nella villa.

*

La trovò nel salone da ballo, la stanza più ampia e lussuoso della villa. Era appesa a testa in giù al soffitto, quasi mimetizzata con le splendide divinità pagane raffigurate negli affreschi. Era bella, bellissima. Proprio come lui aveva predetto. Ma la sua profezia si era avverata per metà: mai e poi mai avrebbe immaginato che Chiara, la bionda e lucente Chiara, sarebbe diventata una principessa della notte, ammantata di oscurità come la Creatura che anni e anni addietro lo aveva inseguito fino al cancello.
«Salve, Chiara.» esclamò James, cercando di mantenere la sua voce salda.
«James. Ti stavo aspettando…» ribatté lei. Non stava dormendo, era vigile e pericolosa come una tigre acquattata fra gli arbusti. James la osservò allargare le ali e planare sul pavimento di marmo insozzato di sangue secco.
«Chi l’avrebbe mai detto? James, il pauroso James, un membro dei Falchi d’Argento. Un cacciatore di demoni. Sono davvero colpita…» lo schernì la vampira, scostando le ali in modo da mostrare il suo fisico asciutto, armonico, pallido come alabastro. James deglutì. Era perfetta, perfetta come una statua destinata a non subire mai le ingiurie del tempo.
«Sei qui per uccidermi?» fece lei, sorridendo con crudeltà. James annuì, anche se solo Dio sapeva quanto gli costasse farlo.
«Ho zittito per troppo tempo la mia coscienza – mormorò, più rivolto a se stesso che a lei – per troppo tempo ho pregato che le voci che mi giungevano dal paese non fossero vere… ma ora è venuto il tempo di regolare i conti. Hai finito di succhiare la vita agli abitanti di Covington Garden, demone!»
Il viso eburneo di Chiara si adombrò e i suoi occhi divennero rosso fiamma.
«Sciocco! Credi che sia io il vero male del mondo? Credi che sia il mio maleficio a rendere Covington Garden ancora più buio? Ti sbagli! È il fumo dell’industria, è il frastuono della macchine che prima o poi vi ricoprirà tutti. Vuoi uccidermi? Accomodati. Ma stai pur certo che te ne pentirai. Tu lo sai che io sono l’ultima della mia specie. Morta io, morirà anche l’ultima goccia di irrazionalità che ancora esisteva in questo mondo. E allora sarai solo, James. Invecchierai, e vedrai il mondo che hai tanto amato perdere ogni fascino e diventare un deserto d’anime. Non ci sarà più posto per te, né per i Falchi d’Argento.»
«Questo lo so – ribatté James – Ma non posso lasciarti in vita. Non dopo quello che hai fatto!»
«Oh, io uccido è vero – sibilò Chiara – ma lo faccio per necessità. Voi uomini, invece, lo fate per avidità. Chi è allora il vero mostro, eh James?»
Lui non rispose. Indugiare avrebbe soltanto complicato le cose. Si tolse il cappotto, lasciò cadere il cappello, e assunse una posizione d’attacco, così come aveva fatto molte e molte altre volte, nei luoghi più oscuri e morti del mondo, nelle cripte nebbiosa di Praga e fra i castelli in rovina della Transilvania. Allora Chiara estrasse i canini e sfoderò le unghie.
«Bene, conte Hamilton. Viene ad ammazzarmi, se ne sei capace.»
E James, sguainata la lama d’argento che teneva celata nel bastone, partì all’attacco.

*

Starò con te per sempre, giorno dopo giorno, sotto il cielo grigio di Covington Garden. Te lo giuro per il sangue rosso che scorre nelle mie vene.
«Ti ricordi questa promessa, James?»
«Sì, la ricordo come fosse ieri.» mormorò lui, guardando l’alba sorgere oltre la linea delle colline e illuminare una pianura che continuava all’infinito.
«Mi hai ucciso, non è vero?» chiese Chiara. James la guardò a lungo. Era come la ricordava, la Chiara innocente, la Chiara che aveva otto anni e indossava il vecchio vestito a righe di sua madre e il cappellaccio appartenuto al padre morto in guerra. Era come se gli eventi che l’avevano condotta fra gli artigli della Creatura non avessero mai avuto luogo. D’altronde, la maledizione che albergava nel suo corpo non era riuscita ad oltrepassare il velo della morte.
«Sì, ti ho uccisa. Ti ho infilzata al cuore.»
«Allora perché sei qui?» chiese lei, guardandolo storto. James si guardò il petto. C’era una ferita profonda, ormai completamente rimarginata, all’altezza del suo cuore. Emanava una luce brillante, lattescente.
«Mi sono suicidato con la mia stessa spada.» rispose, scoppiando a ridere di gusto. Si guardò le mani. Erano tornate le mani piccole di un bambino, candide e senza macchie di sangue. Chiara si alzò in piedi, furibonda.
«Sei uno stupido, James! Perché l’hai fatto?»
Lui non rispose. Si limitò ad allungarle la mano. E Chiara, aggrottando la fronte, la afferrò. Si alzarono in piedi e senza più parlare si diressero verso il sole nascente, camminando su colline dorate e pianure di cristallo.
Di fronte a loro, c’era solo l’eternità.