Cari lettori,
ho così caldo che il mio cervello sta andando in fiamme. Perciò, tutto quello che sono riuscito a fare, (con l'aiuto di una borsa del ghiaccio e di un succo di frutta gelato), è stato riprendere in mano un vecchio racconto mai pubblicato. Una storia di vampiri, di cacciatori di mostri e di promesse d'amore...
Mi raccomando, commentate! Le vostre recensioni (sia positive che negative) sono sempre ben accette!
Alvise
P.S. E voi, come vi sentite? Anche nella vostra città si muore dal caldo?
IL TRENO arrivò
alla dispersa stazione di Covington Garden in perfetto orario; alle 19.30 in
punto, in contemporanea all’ultimo esangue raggio del sole morente, il quale,
superata a fatica l’algida barriera della nebbia, stava già andando a crollare
oltre le colline. Non che ci sarebbe stata una grande differenza: sia che fosse
mattino, sia che fosse crepuscolo inoltrato, una perenne luce cadaverica
dimorava su Covington Garden, il che rendeva difficile capire in che momento
della giornata si fosse. Era così da quando i cittadini avevano memoria. Ma
negli ultimi tempi il cielo, la nebbia e il lago si erano fatti più neri, tanto
neri che a stento si potevano riconoscere, così come si riconosce a fatica il
viso di una persona cara uscita con difficoltà da una lunga e debilitante
malattia.
La locomotiva,
partorendo volute di fumo grigio antracite, frenò con un gemito da moribondo e
si trascinò lemme lemme verso la porta principale della piccola stazione, poco
più di quattro mura tirate su alla bell’e meglio su un ex-campo di zucche. Lo
status di stazione le era conferito da un cartellone bianco, sorretto da una
complessa sbarra in stile liberty, su cui capeggiava la scritta Covington
Garden.
Un ultimo gemito e
il convoglio si bloccò definitivamente, con somma liberazione dei viaggiatori.
James attese che il
controllore aprisse le porte con la chiave di sicurezza, dopodiché scese, anche
se lo fece con una lentezza gravida di ricordi. Indossava un soprabito nero di
pelle, un paio di guanti foderati di pelliccia di coniglio e un cappello a
larghe tese, anch’esso nero. Nella mano sinistra stringeva una voluminosa borsa
in pelle, simile a quella di un dottore di campagna; nella destra un bastone da
passeggio con l’impugnatura d’argento: raffigurava un falco con le ali spiegate.
Il simbolo del club a cui apparteneva. Se così si poteva chiamare.
Dopo essersi
allontanato dalle porte della carrozza, l’uomo inspirò l’aria umida del luogo,
e una lacrima gli colò lungo il viso; brillò come un diamante prima che
riuscisse a carpirla e a nasconderla con un rapido movimento del braccio.
Doveva dimostrarsi forte o sarebbe crollato ancora prima di avvicinarsi a Lei.
Un movimento
catturò il suo sguardo: un gruppetto di persone gli si stava avvicinando,
tossendo per via del denso sfiato della locomotiva. Era il sindaco Bolton,
accompagnato da una manciata di impiegati baciapile e di ricche dame del luogo.
«Benvenuto Sir
James… – balbettò l’ometto, togliendosi la bombetta – La stavamo aspettando con
ansia. Tutta la città le è grata per quello che…»
«Lei dov’è?» tagliò
corto James, scrollandosi la polvere dalle falde nere del cappotto.
Il sindaco,
tremando come un uccellino intrappolato dal laccio di un bracconiere, indicò la
collina più distante. Oltre la nebbia, che un vento sottile ma deciso aveva
iniziato a sfilacciare, si intravvedeva la sagoma appuntita di un castello.
Villa Hampson. Dove
altro poteva nascondersi? pensò James, la bocca sottile stesa in un sorriso
quanto mai fuori luogo.
«Sellatemi un
cavallo. Non voglio indugiare.» sibilò, mentre la sua mano si stringeva attorno
al bastone di frassino, che scricchiolò pericolosamente. Il sindaco Bolton,
curvandosi tutto in un viscido gesto servile, annuì.
*
«Se n’è andato?
Allora?»
Chiara si sporse
oltre la porta del fienile. Spiò fra le assi di legno, poi tornò a nascondersi
nel buio. Una serie di passi attutiti si avvicinarono, mentre l’ombra
minacciosa di due esili gambe faceva capolino da sotto la porta.
James si strinse
alla sua amica. L’ombra indugiò per qualche secondo, dopodiché i passi si
allontanarono e la luce tornò a fluire, insieme al respiro dei due bambini.
Chiara soffocò una risata mentre la sua gonna, un vecchio vestito a righe di sua
madre, si gonfiava come la vela di un clipper.
«Che c’è da
ridere?» ringhiò James. Aveva solo otto anni, ma il suo orgoglio non era poi
così diverso da quello di un uomo adulto: bastava una scintilla e divampava.
«Rido perché una
cacchina sarebbe più coraggiosa di te!» ribatté Chiara, sghignazzando
sguaiatamente. James strinse i pugni.
«Io non avevo
paura! È solo che…»
«Lo so, lo so… il
precettore Samuel fa paura a tutti.»
«A tutti tranne che
a te.» sbottò acido il bambino.
Chiara gonfiò
minacciosamente il petto. James si incantò a guardarla. Non era bella. Non
ancora, ma lui sapeva, ne era certo, che un giorno sarebbe diventata splendida,
e allora tutti i ragazzi del villaggio avrebbe smesso di prenderla in giro
perché si atteggiava da maschio e portava quel ridicolo cappellaccio sgualcito
appartenuto al padre morto in guerra. Diventerà bellissima, si disse James, e
io sarò ancora qui a guardarla. Si sbagliava, proprio come sbagliano tutti i
bambini quando promettono cose che da grandi non saranno in grado di mantenere.
«Tu pensi che sono
strana, eh James?»
James ammutolì. Lo
pensava, ma non come credeva lei. Non c’era niente di male ad essere strani,
anzi: a volte era una ricchezza, un miracolo in un mondo altrimenti troppo
grigio e amaro. Se non ci fosse stata Chiara, la vita di James a Villa Hamilton
sarebbe stata un completo disastro. E poi chi lo avrebbe aiutato a scappare da
quel tiranno del precettore Samuel, il pastore protestante più becero e tedioso
di tutta l’Inghilterra?
«Sei esattamente
come tutti gli altri…» ringhiò la bambina, voltando sfrontatamente la testa, in
un turbine di capelli biondi. James la prese per le braccia.
«No! Questo non è
vero! Non te lo permetto! Non sarei qui dopotutto…»
Giocare con Chiara
era un lusso che il giovane rampollo del conte Louis Hamilton non poteva
permettersi. Quante volte si era preso una sonora dose di cinghiate per essersi
fatto trovare in compagnia della figlia della serva! Ma James non si sarebbe
fatto piegare così facilmente. Potevano picchiarlo, chiuderlo a chiave nella
sua stanza, mandarlo in collegio a Londra, ma lui l’avrebbe sempre cercata.
Sempre.
«Sai che ti amo,
Chiara.»
Lei rise.
«L’amore è una cosa
da grandi. Tu sei solo un poppante, proprio come me.»
«No, non è così. Te
lo giuro.»
Uno scintillio di
crudele felicità si accese negli occhi verdi e magici di Chiara.
«Se fosse così
dovrai stare insieme a me per sempre. È questo il vero significato della parola
amore: l’eternità.»
«Allora sarà così.
Starò con te per sempre, giorno dopo giorno, sotto il cielo grigio di Covington
Garden. Te lo giuro per il sangue rosso che scorre nelle mie vene.»
Chiara rise di
gusto. In cuor suo sapeva che quelle non erano che parole, destinate a sparire
con il vapore di un treno rosso fiamma diretto a Londra. Ma James non lo
credeva, no. Formulare quel giuramento era stato per lui qualcosa di sacro.
Solo crescendo si era reso conto che le sue erano state solo le pazze promesse
di un bambino.
*
Villa Hampson aveva
sempre avuto un certo fascino sinistro. Dal punto di vista della struttura non
si distingueva dalle altre ville del circondario: edifici vittoriani, con ampi
portici, ciclopici colonnati e lunghe file di finestre a timpano. Queste ville,
tuttavia, avevano tutt’attorno acri e acri di campi fioriti e viali alberati,
dove conti e baronetti si riunivano ogni sabato pomeriggio a giocare a cricket
o a cacciare le volpi.
Villa Hampson in
questo faceva eccezione: da quando si aveva memoria il luogo era sempre stato
abbandonato, chiuso ai visitatori esterni, impenetrabile come un castello
medievale. Nei suoi giardini cinerei, soffocati da ciuffi di gramigna e nugoli
di insetti, soffiava un vento tombale che si percepiva persino dalla strada.
Questo era uno dei motivi per cui gli abitanti di Covington Garden giravano
alla larga dal lugubre cancello in ferro battuto, dal quale si intravvedeva,
occultata dalle fronde dei cipressi, la facciata in rovina della villa.
L’ultimo proprietario della magione era stato un crudele signorotto locale, che
era stato accusato dell’omicidio di due giovani ragazze di campagna. Pare che
avesse cercato, non si sapeva se per pura crudeltà o se fosse davvero convinto
della riuscita del suo folle piano, di riportarle in vita con un macabro
rituale pagano, qualcosa che aveva a che vedere con la trasmigrazione delle
anime. Era stato catturato e impiccato dalle autorità locali, e dal 1832 la
villa era sempre rimasta chiusa, nonostante qualche malalingua avesse giurato
di scorgere, sul fare della notte, la luce di una fiammella riverberare sulle
finestre dell’ala ovest. Queste erano le dicerie che aleggiavano a Covington
Garden ed erano così radicate che quando era capitato che qualche persona,
soprattutto stranieri e bambini, sparisse misteriosamente, la colpa era stata
data al fantasma sanguinario del conte Hampson.
Chiara, ovviamente,
a queste storie non ci credeva. Lei era l’unica che, in barba ai compaesani, si
spingeva fino al cancello nero della villa, con la smania di riuscire a
superarlo e di intrufolarsi dentro quei saloni rimasti chiusi da più di
quarant’anni. Una volta era riuscita a farsi seguire nella sua folle esplorazione
proprio da James.
Lui, ventinove anni
dopo, se lo sarebbe ricordato ancora.
Era una giornata
gelida di gennaio. Aveva nevicato per tre giorni interi e Covington Garden era
rimasto bloccato dalla tormenta. Il precettore Samuel, che veniva dal vicino
villaggio di Old Borough, non aveva potuto neppure mettere il naso fuori dalla
sua villetta. E così James, vestitosi di tutto punto, aveva trascorso le sue
ore di libertà con Chiara. Avevano corso su e giù per la via, le gambe immerse
per metà nel manto bianco; si erano bersagliati di palle di neve, rischiando di
travolgere i garzoni che faticavano a ripristinare la viabilità dalle sterrate;
avevano ammonticchiato il ghiaccio e la neve per creare un ridicolo e goffo
pupazzo, che poi avevano abbattuto a sassate.
Lentamente, quasi
senza accorgersene, erano arrivati ai piedi della collina; la neve qui era più
abbondante e gli alberi, gravati dal suo peso, scricchiolavano. Alcuni erano
già schiantati, strappati senza pietà dal vento notturno. C’era un silenzio
irreale, acuito dal fatto che lassù, nei pressi di Villa Hampson, non veniva
mai nessuno, nemmeno i cervi o le lepri che infestavano i campi. James,
incapace di frenare le proprie gambe, come nel peggiore degli incubi, osservò
il cancello ossuto della villa farsi sempre più vicino; e così, prima che
potesse anche solo formulare un pensiero o trattenere l’irruenza di Chiara, le
sue mani si erano ormai strette alle gelide sbarre del cancello.
«Dici che ci abiti
davvero qualcuno?» chiese Chiara, il viso magro infilato fra lo spazio di due
sbarre.
«N-no, sono sicuro
che sia completamente v-vuota!» balbettò James, sondando con gli occhi ogni
singolo punto della facciata, finestre e doccioni compresi.
«Te la fai sotto,
non è vero?» lo schernì lei. I suoi occhi verdi gli scrutavano dentro l’anima.
«No, affatto!»
gridò James.
«Bene – fece lei –
allora dimostramelo andando a toccare quella.» e indicò una vasca per uccelli,
situata al centro esatto del lungo viale alberato che conduceva alla villa.
James deglutì. Anche da quella distanza riusciva a scorgere cose morte nella
vasca, corpi rinsecchiti di uccelli. Come se qualcuno o qualcosa li avesse
bevuti fino all’ultima goccia di sangue.
«Io… E va bene.» rispose
James, rassegnato. Ventinove anni dopo avrebbe rimpianto quella scelta; avrebbe
sacrificato la sua intera esistenza pur di annullare quel malefico giorno. Ma
ingannare il tempo era un potere che non spettava agli uomini.
Con l’agilità e lo
sprezzo del pericolo di un bambino di dieci anni, James si avvinghiò al
cancello, si arrampicò fino alla sua sommità e lo scavalcò. Atterrò leggero, i
passi attutiti dalla neve, il respiro trattenuto in gola, gli occhi incollati
alla porta sbarrata della villa. Si voltò una sola volta, e lo sguardo ammirato
di Chiara gli diede la carica necessaria a far svanire ogni ritrosia. Si girò,
galvanizzato, e iniziò a correre, sentendosi davvero piccolo rispetto agli
alberi macilenti che lo accerchiavano da tutti i lati. Fu la corsa più rapida
di tutta la sua vita. Non guardò neppure cosa conteneva la vasca: un solo tocco
alla superficie di marmo ed era già ripartito verso la piccola figura che lo
attendeva sorridente dall’altra parte del muro. Correva come se la morte fosse alle
sue spalle. Un sospiro, una risata di trionfo, un passo dopo l’altro: il
cancello si faceva a ogni istante sempre più vicino.
Poi Chiara iniziò a
urlare.
«James! James, ti
prego… va’ più veloce! E non voltarti!»
«C-cosa c’è?» gridò
lui, senza smettere di correre.
«Zitto e fa’ come
ti ho detto!» urlò Chiara di rimando.
Ma James si voltò.
Una figura
allampanata lo stava inseguendo. Era ancora lontana, ma macinava metri ad ogni
secondo. Era rapidissima, ammantata di tenebra, come un pipistrello. E tuttavia
era un uomo o almeno si muoveva come se lo fosse, benché il suo mantello,
gonfiato dal vento, si librasse dietro le sue spalle come un paio d’ali
membranose.
James, urlando come
un pazzo, si rese conto di non aver tempo di scalare il cancello: si gettò istintivamente
attraverso le sbarre, sfuggendo per un soffio agli artigli della Creatura.
Gli eventi
successi, James non se li ricordava. Sapeva soltanto di essersi risvegliato nel
letto della sua camera, delirante e con la febbre altissima. Una cosa però gli
era rimasta impressa: il sorriso estasiato che Chiara, mentre fuggivano giù per
la collina, aveva rivolto a quel mostro senza nome.
*
Dopo quel giorno, i
rapporti fra James e Chiara si erano interrotti di colpo. Lui si era immerso
nello studio, seguendo i voleri di suo padre, e a tredici anni era partito per
Londra a bordo di un treno rosso fiamma. Dieci anni dopo sarebbe divenuto uno
dei più abili avvocati della capitale. Chiara, invece, se n’era rimasta a
Covington Garden. Le sue visite a Villa Hampson erano continuate, in gran
segreto. La paura che provava per la cosa che viveva nel buio era stata
soverchiata da un muto rispetto e dal desiderio irrefrenabile di assomigliarle.
Aveva iniziato a venerare la Creatura e, pian piano, era stata pronta ad accettare
la notte dentro di sé.
*
Villa Hampson
incombeva su James, ingoiando la sua piccola ombra in un oceano di tenebra. Lui
si guardò attorno, cercando di regolarizzare il respiro. Non era cambiato quasi
nulla da quel giorno dannato: la vasca di marmo era ancora piena di cadaveri
freschi di uccelli, gli alberi erano tutti in piedi, malati ma vivi, e il tetto
della villa si ergeva come il dito di un morto verso il cielo plumbeo. Era lui
ad essere cambiato. Non solo fisicamente, ma in profondità, dentro il suo
cuore. Eppure, nonostante tutta l’esperienza che aveva maturato a Londra, fra
le schiere dei cacciatori di vampiri conosciuti come i Falchi d’Argento, non si
sentiva affatto pronto per quell’ultima battaglia.
Non hai scelta, gli
disse una voce femminile dentro la sua testa, una voce che era quella della
piccola Chiara, la Chiara innocente della sua infanzia, che non esisteva più da
ventinove anni.
«Lo so.» borbottò
lui. Dopodiché, la mano ben stretta sul suo bastone, James drizzò le spalle ed
entrò nella villa.
*
La trovò nel salone
da ballo, la stanza più ampia e lussuoso della villa. Era appesa a testa in giù
al soffitto, quasi mimetizzata con le splendide divinità pagane raffigurate
negli affreschi. Era bella, bellissima. Proprio come lui aveva predetto. Ma la
sua profezia si era avverata per metà: mai e poi mai avrebbe immaginato che
Chiara, la bionda e lucente Chiara, sarebbe diventata una principessa della
notte, ammantata di oscurità come la Creatura che anni e anni addietro lo aveva
inseguito fino al cancello.
«Salve, Chiara.»
esclamò James, cercando di mantenere la sua voce salda.
«James. Ti stavo
aspettando…» ribatté lei. Non stava dormendo, era vigile e pericolosa come una
tigre acquattata fra gli arbusti. James la osservò allargare le ali e planare
sul pavimento di marmo insozzato di sangue secco.
«Chi l’avrebbe mai
detto? James, il pauroso James, un membro dei Falchi d’Argento. Un cacciatore
di demoni. Sono davvero colpita…» lo schernì la vampira, scostando le ali in
modo da mostrare il suo fisico asciutto, armonico, pallido come alabastro.
James deglutì. Era perfetta, perfetta come una statua destinata a non subire
mai le ingiurie del tempo.
«Sei qui per
uccidermi?» fece lei, sorridendo con crudeltà. James annuì, anche se solo Dio
sapeva quanto gli costasse farlo.
«Ho zittito per
troppo tempo la mia coscienza – mormorò, più rivolto a se stesso che a lei –
per troppo tempo ho pregato che le voci che mi giungevano dal paese non fossero
vere… ma ora è venuto il tempo di regolare i conti. Hai finito di succhiare la
vita agli abitanti di Covington Garden, demone!»
Il viso eburneo di
Chiara si adombrò e i suoi occhi divennero rosso fiamma.
«Sciocco! Credi che
sia io il vero male del mondo? Credi che sia il mio maleficio a rendere
Covington Garden ancora più buio? Ti sbagli! È il fumo dell’industria, è il frastuono
della macchine che prima o poi vi ricoprirà tutti. Vuoi uccidermi? Accomodati.
Ma stai pur certo che te ne pentirai. Tu lo sai che io sono l’ultima della mia
specie. Morta io, morirà anche l’ultima goccia di irrazionalità che ancora
esisteva in questo mondo. E allora sarai solo, James. Invecchierai, e vedrai il
mondo che hai tanto amato perdere ogni fascino e diventare un deserto d’anime.
Non ci sarà più posto per te, né per i Falchi d’Argento.»
«Questo lo so –
ribatté James – Ma non posso lasciarti in vita. Non dopo quello che hai fatto!»
«Oh, io uccido è
vero – sibilò Chiara – ma lo faccio per necessità. Voi uomini, invece, lo fate
per avidità. Chi è allora il vero mostro, eh James?»
Lui non rispose.
Indugiare avrebbe soltanto complicato le cose. Si tolse il cappotto, lasciò
cadere il cappello, e assunse una posizione d’attacco, così come aveva fatto
molte e molte altre volte, nei luoghi più oscuri e morti del mondo, nelle
cripte nebbiosa di Praga e fra i castelli in rovina della Transilvania. Allora
Chiara estrasse i canini e sfoderò le unghie.
«Bene, conte
Hamilton. Viene ad ammazzarmi, se ne sei capace.»
E James, sguainata
la lama d’argento che teneva celata nel bastone, partì all’attacco.
*
Starò con te per
sempre, giorno dopo giorno, sotto il cielo grigio di Covington Garden. Te lo
giuro per il sangue rosso che scorre nelle mie vene.
«Ti ricordi questa
promessa, James?»
«Sì, la ricordo
come fosse ieri.» mormorò lui, guardando l’alba sorgere oltre la linea delle
colline e illuminare una pianura che continuava all’infinito.
«Mi hai ucciso, non
è vero?» chiese Chiara. James la guardò a lungo. Era come la ricordava, la
Chiara innocente, la Chiara che aveva otto anni e indossava il vecchio vestito
a righe di sua madre e il cappellaccio appartenuto al padre morto in guerra.
Era come se gli eventi che l’avevano condotta fra gli artigli della Creatura
non avessero mai avuto luogo. D’altronde, la maledizione che albergava nel suo
corpo non era riuscita ad oltrepassare il velo della morte.
«Sì, ti ho uccisa.
Ti ho infilzata al cuore.»
«Allora perché sei
qui?» chiese lei, guardandolo storto. James si guardò il petto. C’era una
ferita profonda, ormai completamente rimarginata, all’altezza del suo cuore.
Emanava una luce brillante, lattescente.
«Mi sono suicidato
con la mia stessa spada.» rispose, scoppiando a ridere di gusto. Si guardò le
mani. Erano tornate le mani piccole di un bambino, candide e senza macchie di
sangue. Chiara si alzò in piedi, furibonda.
«Sei uno stupido,
James! Perché l’hai fatto?»
Lui non rispose. Si
limitò ad allungarle la mano. E Chiara, aggrottando la fronte, la afferrò. Si
alzarono in piedi e senza più parlare si diressero verso il sole nascente,
camminando su colline dorate e pianure di cristallo.
Di fronte a loro,
c’era solo l’eternità.