Un breve racconto fantastico. Un castello, un segreto da svelare, un mondo magico da scoprire. Buona lettura
Kora era nata, avrebbe vissuto e
sarebbe morta nello stesso castello. Questo le fu chiaro già dal quinto anno di
età. Era il perché a non esserle
chiaro, e per quello ci mise decisamente più tempo.
Il castello era una piccola
fortezza che sorgeva su di una verde collina alberata, situata nelle remote
lande di Haidenschwarzen. Il paese di Haidenschwarzen, lo dice già il nome, era
uno di quei paesi tutto villaggi, campi fioriti, mulini a vento e fiumi
azzurrognoli. Capre ovunque, vacche al pascolo, contadine che raccoglievano
ranuncoli fra i massi, salsicce di pecora messe sullo spiedo nei giorni di
festa, balere aperte di giorno e di notte, ragazzotte con gonne di lana e
cuffie a cuore, e uomini con baffi, pantaloncini corti e curiosi cappelli
triangolari culminanti con una piuma di pavone. Questo era Haidenschwarzen,
niente di più, niente di meno. Sorgeva in una vallata, incastonata e difesa da
una catena montuosa che aveva la forma di un anello e per questo, da tutti gli
abitanti, veniva chiamata Schturmwagen. Era davvero un bel posto,
Haidenschwarzen, non abbastanza grande da fomentare la sete di potere e non
abbastanza piccolo da suscitare invidie, pettegolezzi e malcontento.
Kora, però, questo bel paese non
l’aveva mai visto, se non attraverso le vetrate della Sala Grande che, colorate
com’erano, le restituivano un’immagine particolarmente distorta dei campi, dei
boschi e delle case che attorniavano la fortezza. Ve l’ho già detto che non
poteva uscire in alcun modo, no? Per Kora c’era stato, c’era e ci sarebbe
sempre stato solamente il castello. Ci vivevano lei, il Nonno (il conte Kurtz
Von Rustung che, al suo nome roboante, preferiva di gran lunga il soprannome
“Nonno”), e la servitù, che contava ben ventitré maggiordomi meccanici e dodici
balie meccaniche. Sì, avete capito bene: meccanici.
Li aveva inventati il Nonno in persona, il quale si dilettava con la
costruzione di telescopi, lenti bifocali, orologi, meccanismi e… carillon. A
dire la verità, Kora non vedeva suo nonno molto spesso. Il conte Von Rustung
compariva nella sala della colazione alle nove, puntualissimo, beveva la sua
cioccolata calda, masticava celere le sue fette biscottate con burro e carne
essiccata, dava un buffetto affettuoso a Kora, prendeva il giornale che Gustav,
il maggiordomo meccanico più anziano e fidato, gli riponeva accanto le posate,
e risaliva nei suoi alloggi, che poi erano anche il suo laboratorio.
Nemmeno il laboratorio Kora
l’aveva visto molto spesso. Solo una volta, sgattaiolando silenziosa sul far della
sera nell’ala ovest, aveva avuto la fortuna di vedere suo nonno uscirne; per
una frazione di secondo, attraverso la porta che si richiudeva cigolando, Kora
aveva visto un tavolo lunghissimo, a forma di ferro di cavallo. E su questo
tavolo un altare, e su questo altare una pietra circolare, e su questa pietra
circolare un cuscino. E su questo cuscino… un carillon. Un carillon bellissimo,
composto da una sfera rotonda grande quanto la testa di un neonato, al cui
interno baluginavano mille luci, come occhi di fata, sovrapposte ad uno sfondo
nero nero. Sembrava quasi un cielo stellato. Quello sì che Kora l’aveva visto.
Perché nella Sala Grande c’era una cupola di vetro e, attraverso la trasparenza
della sua struttura, si potevano vedere il cielo, sia di giorno che di notte,
le nuvole, gli stormi degli uccelli e tutto il firmamento.
Kora aveva guardato il carillon
con bramosia, le era sembrato che entrare nel laboratorio e toccarlo fosse
l’unico desiderio sensato che si dovesse provare nella vita. Ma ecco che suo
nonno le si era parato davanti. Indossava, come al solito, una pesante armatura
d’argento, con riflessi inchiostro, e una cappa color del cielo notturno.
«Altolà, signorina. Sei ancora
piccola per scoprire il segreto del mio laboratorio. Arriverà un giorno in cui
ti sarà permesso entrare, ma non adesso. Capito?» lo aveva detto bonariamente,
ma i suoi occhi erano uragani pronti a portarla via. Kora si era messa a
piangere a dirotto ed era scappata via, nella sua camera. Aveva sette anni,
allora.
Ne passarono altri sette, senza
che suo nonno facesse più menzione del laboratorio né del tavolo a forma di
ferro di cavallo, né dell’altare, né della pietra circolare né del cuscino né
del… carillon.
Almeno, compiuti i dieci anni, a
Kora era stato dato il permesso di salire sui merli del castello e, così, si
era potuta fare un’idea migliore di come fosse il paese di Haidenschwarzen.
Aveva scoperto che non era affatto blu-rosso-giallo come le era sembrato da
dentro il castello, attraverso le vetrate. Era semplicemente verde e azzurro,
molto verde e azzurro, con boschi, campi di verze, fiumiciattoli e laghetti.
Era davvero bello, ma, dopo tre anni di continue visite ai merli, il panorama
divenne per Kora intollerabile come latte inacidito. Le davano fastidio persino
i colombi arcobaleno, che venivano a tubare e a far nido nei doccioni e fra i
buchi delle merlature.
Gli anni passarono come un
soffio e Kora compì quindici anni. Al castello si fece una gran festa: i
servitori meccanici prepararono una gigantesca torta a sei strati: crema
chantilly, crema allo zabaione, cioccolato fondente, cioccolato al latte,
cioccolato bianco e crema alla nocciola. Persino suo nonno, che di solito stava
nella Sala Grande solo per la colazione, il pranzo e la cena, vi si trattenne più
del dovuto, fino a metà pomeriggio, per festeggiare a dovere. Poi, come al
solito, tornò trafelato al laboratorio, salendo le scale come se avesse avuto
quarant’anni di meno. In quella stanza misteriosa, evidentemente, c’era
qualcosa che richiedeva un impegno e un’attenzione continui.
Mentre mangiava la torta, il
cervello di Kora lavorava alacremente. Aveva molti doni attorno a sé, in parte
costruiti dal nonno e in parte acquistati dai servitori meccanici nei villaggi
vicini: caleidoscopi, trottole, bambole meccaniche, puzzle, mobili dipinti,
dolci e paste in quantità… eppure, il dono più grande, l’unico che desiderasse
davvero, era rivedere il carillon ancora una volta. Capire cosa fosse e perché
il nonno lo custodisse così gelosamente.
L’occasione propizia arrivò in
un gelido giorno di novembre. Un vento selvaggio scendeva dal Schturmwagen,
portando con sé echi di battaglie e pianti di Valchirie. Fiocchi di neve, come
piume d’angelo, scendevano da un cielo plumbeo, ammonticchiandosi sul tetto e
sulle merlature. E fu così che il gelo, strisciando sottilmente dalle fessure
delle finestre, entrò dentro il castello dove finì per far congelare i
meccanismi della grande pendola della Sala da Ballo. Era un orologio antico,
talmente antico che giù in paese si diceva che preesistesse al castello stesso
e fosse lì da sempre. Vero o non vero, era un miracolo di ingegneria e di
precisione; aveva le lancette di cristallo, il quadrante di marmo bianco e il
bordo in oro massiccio. Fu Kora a notare, mentre scendeva dalla sua camera per
la colazione, che le lancette si erano bloccate; avvertì subito i maggiordomi e
loro andarono in escandescenze, mettendosi a cigolare e scricchiolare come
locomotive arrugginite.
«Il Padrone la sistemerà!»
gemettero speranzosi, precipitandosi verso le scale.
Nell’esatto momento in cui li
vide sparire in direzione del laboratorio del nonno, Kora si decise: avrebbe
approfittato di quel fortunato diversivo per intrufolarsi nel sancta sanctorum
del conte. La sua fame di sapere sarebbe stata finalmente saziata!
Il conte Kurtz Von Rustung
comparve alcuni minuti dopo, vestito ancora con la camicia da notte e la
papalina. Era armato di cacciaviti, lenti, bulloni e mille altre cose che sua
nipote non aveva mai visto. Kora, d’altro canto, non resto lì per molto: in men
che non si dica, era sparita fra le ombre della scalinata principale, che
portava alla ala est e alla ala ovest. Ignorò l’ala est, con le sue armature,
gli scudi e i quadri degli antenati, e si mise a percorrere l’ala ovest,
decisamente più cupa e misteriosa dell’altra: aveva drappi cremisi alle pareti,
candelabri neri con candele ancora più nere, e muri di mattoni sgretolati dove
l’ala est aveva carta da parati con draghi, arpie e grifoni.
Ed ecco, finalmente, la porta
del laboratorio del conte! Ogni ruga del legno e ogni cardine trasudava
mistero. Deglutendo per l’eccitazione, Kora spinse la porta ed entrò.
Era tutto come lo ricordava: il
lungo tavolo a forma di ferro di cavallo, gli strumenti del nonno e… il
carillon, adagiato sul cuscino di raso rosso. Scintillava come una perla nera
sotto la luce della luna. Prima di avvicinarsi, Kora prese una alabarda appesa
al muro e la sistemò in modo che la porta non potesse essere più aperta
dall’esterno. Anche se era certa che la pendola avrebbe occupato il nonno a
lungo, sapeva che i servitori meccanici pattugliavano frequentemente i corridoi
e che dunque era probabile che spuntassero da un momento all’altro. Meglio
premunirsi contro eventuali scocciatori.
Finalmente libera di godersi
quello che aveva atteso per anni, Kora si avvicinò all’altare. Ecco il
carillon! Che meraviglia! Era proprio come lo ricordava: una sfera contenete un
cielo stellato, che ruotava costantemente su di un perno d’oro a forma di
colonna corinzia. Una musica accompagnava quel lento girotondo, ma non era la
musica che Kora si sarebbe aspettata da un carillon... era come un silenzio
rumoroso, un fruscio proveniente da un vuoto cosmico. La ragazzina tese una
mano e toccò il globo. Era caldo, pulsante, come il cuore di un bambino.
Sembrava quasi…
In quell’istante, la porta del
laboratorio tremò.
«KORA! Che stai FACENDO?» la voce era quella del nonno.
Era una voce autoritaria, ma sotto sotto era disperata.
«Apri! Apri SUBITO!» ruggì il vecchio.
Kora indietreggiò. Era davvero
terrorizzata, perché sapeva quanto il nonno fosse una persona pacata e poco
propensa a scatti d’ira. Doveva averla combinata davvero grossa! Facendosi
coraggio, Kora decise di aprirgli, ma non fece nemmeno in tempo ad avvicinarsi
alla porta, per togliere l’alabarda, che suo nonno sfondò l’uscio. L’aveva
distrutto con una mazza ferrata presa ad una delle armature dell’ala est. Si
catapultò dentro, afferrò Kora e la scosse con forza.
«Ha smesso di SUONARE? Ha smesso di MUOVERSI?»
«Io n-non… lo s-so.» balbettò Kora.
Con un ringhio leonino, il Nonno lasciò la nipotina tremante e si fiondò verso
il carillon. Lo sollevò con tutta la cura possibile e, toltosi una minuscola
chiave che portava appesa al collo, la usò per ricaricare il meccanismo.
Dopodiché, con un soffio liberatorio, lo ripose sul cuscino. La sfera stellata
continuava a girare e a produrre quello strano fruscio.
«Appena in tempo…» mormorò il
vecchio, asciugandosi il sudore dalla fronte con il mantello. Dopodiché si girò
verso Kora. I suoi occhi lampeggiavano.
«KORA! Come hai potuto fare una cosa
del genere?»
Kora digrignò i denti e scoppiò
in lacrime.
«È colpa tua, nonno! Perché,
perché mi t-tieni rinchiusa in questo m-maledetto castello come una
prigioniera?» singhiozzò.
Il Nonno alzò una mano guantata
per controbattere… e poi la abbassò, sfibrato. Si tolse il mantello, lo lasciò
cadere a terra, e si sedette su una delle tante sedie libere del laboratorio.
Si sentiva stanco, perché gli anni lo avevano raggiunto con tutto il loro peso.
«Hai ragione, Kora… – borbottò
il vecchio – è tutta colpa mia. Ma ci sono stato costretto… Ahimè… Abbiamo una
responsabilità immensa, sulle nostre spalle, che tu non puoi capire. Ma ora ti
spiegherò: fu tuo padre il primo a violare la regola che ci impediva di uscire
da qui. Il castello ci protegge, è stato creato apposta. Perché se moriamo, non
possiamo portare a termine ciò per cui siamo stati creati e questa sarebbe una
cosa terribile, una cosa innominabile! Tu, povera nipote mia, hai pagato per il
peccato di tuo padre, come sempre accade. Tuo padre era un ribelle e questo in
circostanze normali sarebbe stato fantastico. Ma noi normali non lo siamo, oh
no! Accade che un giorno, a mia insaputa, tuo padre uscì dalle mura del
castello per vedere il paese di Haidenschwarzen. La sua intenzione era di
visitare i villaggi vicini e ritornare sul fare della sera. Ma fece tardi e la
sorte gli si scagliò contro. Calò l’oscurità e lui non seppe più ritrovare il
sentiero di pietre rosse che porta al castello; mise un piede in fallo, scivolò
e cadde in un burrone. Lo ritrovammo una settimana dopo, con il collo rotto.
Povero ragazzo! A quel punto, la discendenza familiare sarebbe stata spezzata e
tutto ciò che avevamo costruito, destinato a sparire nel nulla. Fortunatamente
tuo padre si era sposato un mese prima e tua madre, che la sua anima riposi in
pace, ti portava già in grembo. Avevamo perso una generazione, ma non due.
Potevamo ancora servire al nostro scopo.»
«Non capisco, nonno! – gridò
Kora disperata – Quale scopo? Cosa ci può essere di così importante? Qual è il
grande segreto della famiglia Rustung?»
Il nonno indicò la sfera sul
cuscino.
«Il… carillon?» domandò Kora
incredula.
«Credi che sia davvero un
carillon, quello? Guardalo bene… Che cosa sembra in realtà?»
«Sembra un… pianeta.»
Il Nonno rise.
«Solo un pianeta? Oh no,
nipotina mia. È un intero universo. Un intero universo con migliaia di pianeti,
miliardi di persone, numeri incalcolabili di stelle…»
«Un universo? E chi l’ha
costruito?»
«Noi, Kora. Noi, la famiglia
Rustung. O meglio: i nostri avi l’hanno creato e noi ora e per sempre ne saremo
i custodi.»
«L’hanno creata i nostri avi?»
«Sì, Kora. Siamo sempre stati
una famiglia di creatori di universi, noi Von Rustung.»
Kora si avvicinò di più al
carillon. Se si concentrava bene, riusciva a vedere i pianeti e, sulla
superficie di quest’ultimi, minuscoli puntolini che si muovevano: persone.
«E così ora noi ne siamo i
custodi?» mormorò, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime di fronte a
quella meraviglia. Il nonno le si avvicinò e le pose una mano sulla spalla.
«Proprio così, Kora. Il nostro
compito è vegliare su questo universo, proteggerlo in tutti i modi, dalle
minacce interne ed esterne, ripararlo se qualcosa non va per il verso giusto. E
girare la chiave quando il movimento sta per finire.»
«Sennò?»
«Sennò il movimento finirà,
nipotina mia, e i pianeti e le stelle e gli esseri viventi diventeranno quello
che un tempo erano: materia inerte.»
«Adesso capisco tutto… da noi
dipende la sopravvivenza di un intero universo. Ma, nonno… se noi siamo
creatori di universi, chi è che ha creato noi?»
«Ah, questa è la domanda! Ma è
una domanda perniciosa, ingannevole. Il tuo bisnonno, mio nonno, Jorg Rolf Von
Rustung, ci stette così a pensare che rischiò di mandare tutto al diavolo.
Impazzì e per un pelo si dimenticò di girare la chiave dell’universo. Sarebbe
stata una catastrofe immane, come puoi ben immaginare. Per fortuna mio padre,
tuo nonno, era già pronto a prendere il suo posto. E così, Jorg poté andare in
pensione e vivere gli anni che gli rimanevano in tranquillità. E ora, fra poco,
toccherà a me. Grazie a te.»
«Sì, ma non hai ancora risposta
alla mia domanda – insisté Kora – chi ha creato noi?»
«Be’ io non so la risposta,
nipotina mia. La posso solo indovinare. Immagino che, come noi abbiamo creato
l’universo che vedi qui davanti, dentro questa bolla di vetro, qualcuno che sta
sopra di noi, in un posto che non possiamo raggiungere né vedere, ha creato
noi.»
«Vuoi dire che siamo anche noi
dentro una bolla?»
«Sì e no. Possiamo essere in una
bolla, ma non è detto che sia per forza una bolla.»
«E cioè?»
«E cioè io credo che ogni
creatore di universi abbia la facoltà di crearli a suo modo. Può darsi che il
nostro creatore ci abbia dipinto su una tela e che quindi per lui i nostri
laghi, i nostri campi, le nostre montagne non siano altro che strisce di colore
a tempera. O forse siamo tutti figli di una canzone, di musica e parole
mescolate assieme, e allora le montagne, gli alberi, le persone, persino il
nostro castello sarebbero solo una sfilata di note su di un rigo musicale. O
ancora il nostro universo potrebbe essere un racconto e i suoi confini i
margini di un foglio bianco. Sì, sì… forse è così. Me lo immagino proprio così:
il nostro creatore, seduto su una poltrona, con un foglio e una penna in mano,
o con qualsiasi altra cosa usino nel suo mondo per scrivere…»
«Ma scusa, nonno… Chi ci
garantisce che il nostro creatore, quello che se ne sta su, non si dimentichi
come stava facendo il mio bisnonno di far funzionare il nostro universo?»
«Oh be’. Garanzia non ce n’è. È
come quando si va a letto. Chi può saperlo che ci risveglieremo o resteremo per
sempre nelle tenebre?»
Kora annuì.
«Ho un’ultima domanda, nonnino.»
«Sì, dimmi, bambina mia.»
«Chi c’è a monte di tutto? Cioè…
se ogni universo ha il proprio creatore, esiste un creatore di tutto, un essere
che ha dato via a tutto questo?»
Il nonno rise.
«Vedi bambina mia che è
facilissimo perdersi? La mente va, cerca, viaggia, ma non riesce a trovare la
risposta. Io questo non lo so, Kora. Può darsi di sì, può darsi di no. Forse
c’è chi ha dato il via a tutto questo o forse è stata solo la scintilla del
caso. Forse siamo imbrigliati in un cerchio eterno, in una genesi labirintica,
e allora non è più possibile sapere chi ha creato chi e quale sarà il nostro
destino ultimo. Ma una cosa la so… più ci fermiamo a pensare a queste cose,
meno ne sapremo e meno vivremo. Perciò, ora, vieni più vicina, nipotina mia: ti
mostrerò come pulire il cielo e ricaricare la luce delle stelle…»