venerdì 20 febbraio 2015

Libri consigliati - Mattatoio n°5 di Kurt Vonnegut



Mattatoio n°5, vero e proprio cult della letteratura di fantascienza, non è, come si potrebbe pensare, una lunga epopea ambientata in un universo immaginario e vastissimo (alla Dune, per intenderci), bensì un piccolo, concentrato e tagliente libro che si schiera silenziosamente contro le atrocità della guerra. L'autore, Kurt Vonnegut, classe 1922, era un giovane studente americano di origini tedesche, che nel 1944 si arruolò volontariamente nell'esercito alleato e partecipò attivamente al secondo conflitto mondiale. Venne catturato durante l’offensiva delle Ardenne (1944) dai soldati tedeschi e trasferito in Germania, a Dresda. Qui assistette al bombardamento della città per mano delle forze aeree alleate. Il bilancio, per chi non lo sapesse, fu disastroso: l’intera città rasa al suolo e quasi 140.000 vittime civili fra abitanti, profughi e prigionieri di guerra. Il giovane Kurt si salvò (insieme ad altri prigionieri americani, era stato rinchiuso in un ex-mattatoio, situato sottoterra, una sorta di rudimentale bunker) e poté far ritorno in patria qualche mese dopo. Furono proprio le atrocità della guerra e in particolar modo il bombardamento a segnare profondamente l’autore e a diventare, oltre vent’anni dopo, il nucleo fondante di Mattatoio n°5. 
Un libro che si schiera contro la guerra, dunque, ma che lo fa a modo suo: quella di Kurt, infatti, non è una testimonianza nuda e cruda, ma una storia semi-autobiografica, dove, all’evento storico reale, il bombardamento di Dresda, si mescola l’elemento fantascientifico: il protagonista Billy Pilgrim (una sorta di alter-ego dell’autore) è infatti un soldato capace di viaggiare nel tempo e di vivere gli eventi della sua vita continuamente, all’infinito. Attraverso uno stile breve, spezzettato, incredibilmente adatto a raffigurare le atrocità della guerra, Billy-Kurt ci racconta la sua esperienza come soldato, un’esistenza incerta, sempre divisa fra presente, passato e futuro, e analizzata con un’ironia disarmante, che ci svela le ipocrisie della nostra esistenza e ce le sbatte in faccia senza tanti complimenti. 
Non solo un grande romanzo di fantascienza, dunque, ma un grande romanzo in generale, che ci fa riflettere sull’insensatezza della guerra e tratteggia, non senza una certa dose di amarezza, la figura di un uomo ormai ridotto ad un’ombra di se stesso, un frammento perso nel tempo, nello spazio e nel significato, volendo usare una frase tratta dal The Rocky Horror Picture Show. Alla luce di tutto questo, la capacità di viaggiare nel tempo del protagonista non è tanto un dono, ma una maledizione: una presa d’atto che l’uomo non ha più certezze. La guerra l’ha incontrovertibilmente trasformato in un pellegrino, in un esule senza patria. Così va la vita. 

 “Cominciò a confondere leggermente i tempi, vide l'ultimo film in programma a ritroso […]. Era un film che parlava dei bombardieri americani durante la seconda guerra mondiale e dei loro coraggiosi equipaggi. Vista a ritroso da Billy, la storia era così: Gli aerei americani, pieni di fori e di uomini feriti e di cadaveri, ritornavano da un campo d'aviazione inglese. Quando furono sopra la Francia, alcuni caccia tedeschi li raggiunsero e risucchiarono proiettili e schegge di bombe da alcuni degli aerei e degli aviatori. Fecero lo stesso con degli apparecchi americani distrutti che erano al suolo, e questi volarono poi per unirsi alla formazione. La squadriglia aerea sorvolò una città tedesca in fiamme. I bombardieri aprirono gli sportelli delle bombe, quindi, grazie a un miracoloso magnetismo, risucchiarono le fiamme, le racchiusero nuovamente entro contenitori cilindrici d'acciaio che portarono infine nel ventre degli apparecchi. I contenitori furono sistemati ordinatamente su delle rastrelliere. […] Quando i bombardieri tornarono alla base, i contenitori di acciaio vennero tirati fuori dalle rastrelliere e rimandati negli Stati Uniti, dove c'erano degli stabilimenti impegnati giorno e notte a smantellare i cilindri e a ridurre il pericoloso materiale che contenevano a minerale. Cosa commovente, erano soprattutto donne a fare questo lavoro. I minerali vennero poi spediti a degli specialisti in zone lontane. Era loro compito rimetterli nel terreno, e nasconderli per bene in modo che non potessero mai più far del male a nessuno.”

mercoledì 11 febbraio 2015

Il carillon

Un breve racconto fantastico. Un castello, un segreto da svelare, un mondo magico da scoprire. Buona lettura




Kora era nata, avrebbe vissuto e sarebbe morta nello stesso castello. Questo le fu chiaro già dal quinto anno di età. Era il perché a non esserle chiaro, e per quello ci mise decisamente più tempo.
Il castello era una piccola fortezza che sorgeva su di una verde collina alberata, situata nelle remote lande di Haidenschwarzen. Il paese di Haidenschwarzen, lo dice già il nome, era uno di quei paesi tutto villaggi, campi fioriti, mulini a vento e fiumi azzurrognoli. Capre ovunque, vacche al pascolo, contadine che raccoglievano ranuncoli fra i massi, salsicce di pecora messe sullo spiedo nei giorni di festa, balere aperte di giorno e di notte, ragazzotte con gonne di lana e cuffie a cuore, e uomini con baffi, pantaloncini corti e curiosi cappelli triangolari culminanti con una piuma di pavone. Questo era Haidenschwarzen, niente di più, niente di meno. Sorgeva in una vallata, incastonata e difesa da una catena montuosa che aveva la forma di un anello e per questo, da tutti gli abitanti, veniva chiamata Schturmwagen. Era davvero un bel posto, Haidenschwarzen, non abbastanza grande da fomentare la sete di potere e non abbastanza piccolo da suscitare invidie, pettegolezzi e malcontento.
Kora, però, questo bel paese non l’aveva mai visto, se non attraverso le vetrate della Sala Grande che, colorate com’erano, le restituivano un’immagine particolarmente distorta dei campi, dei boschi e delle case che attorniavano la fortezza. Ve l’ho già detto che non poteva uscire in alcun modo, no? Per Kora c’era stato, c’era e ci sarebbe sempre stato solamente il castello. Ci vivevano lei, il Nonno (il conte Kurtz Von Rustung che, al suo nome roboante, preferiva di gran lunga il soprannome “Nonno”), e la servitù, che contava ben ventitré maggiordomi meccanici e dodici balie meccaniche. Sì, avete capito bene: meccanici. Li aveva inventati il Nonno in persona, il quale si dilettava con la costruzione di telescopi, lenti bifocali, orologi, meccanismi e… carillon. A dire la verità, Kora non vedeva suo nonno molto spesso. Il conte Von Rustung compariva nella sala della colazione alle nove, puntualissimo, beveva la sua cioccolata calda, masticava celere le sue fette biscottate con burro e carne essiccata, dava un buffetto affettuoso a Kora, prendeva il giornale che Gustav, il maggiordomo meccanico più anziano e fidato, gli riponeva accanto le posate, e risaliva nei suoi alloggi, che poi erano anche il suo laboratorio.
Nemmeno il laboratorio Kora l’aveva visto molto spesso. Solo una volta, sgattaiolando silenziosa sul far della sera nell’ala ovest, aveva avuto la fortuna di vedere suo nonno uscirne; per una frazione di secondo, attraverso la porta che si richiudeva cigolando, Kora aveva visto un tavolo lunghissimo, a forma di ferro di cavallo. E su questo tavolo un altare, e su questo altare una pietra circolare, e su questa pietra circolare un cuscino. E su questo cuscino… un carillon. Un carillon bellissimo, composto da una sfera rotonda grande quanto la testa di un neonato, al cui interno baluginavano mille luci, come occhi di fata, sovrapposte ad uno sfondo nero nero. Sembrava quasi un cielo stellato. Quello sì che Kora l’aveva visto. Perché nella Sala Grande c’era una cupola di vetro e, attraverso la trasparenza della sua struttura, si potevano vedere il cielo, sia di giorno che di notte, le nuvole, gli stormi degli uccelli e tutto il firmamento.
Kora aveva guardato il carillon con bramosia, le era sembrato che entrare nel laboratorio e toccarlo fosse l’unico desiderio sensato che si dovesse provare nella vita. Ma ecco che suo nonno le si era parato davanti. Indossava, come al solito, una pesante armatura d’argento, con riflessi inchiostro, e una cappa color del cielo notturno.
«Altolà, signorina. Sei ancora piccola per scoprire il segreto del mio laboratorio. Arriverà un giorno in cui ti sarà permesso entrare, ma non adesso. Capito?» lo aveva detto bonariamente, ma i suoi occhi erano uragani pronti a portarla via. Kora si era messa a piangere a dirotto ed era scappata via, nella sua camera. Aveva sette anni, allora.
Ne passarono altri sette, senza che suo nonno facesse più menzione del laboratorio né del tavolo a forma di ferro di cavallo, né dell’altare, né della pietra circolare né del cuscino né del… carillon.
Almeno, compiuti i dieci anni, a Kora era stato dato il permesso di salire sui merli del castello e, così, si era potuta fare un’idea migliore di come fosse il paese di Haidenschwarzen. Aveva scoperto che non era affatto blu-rosso-giallo come le era sembrato da dentro il castello, attraverso le vetrate. Era semplicemente verde e azzurro, molto verde e azzurro, con boschi, campi di verze, fiumiciattoli e laghetti. Era davvero bello, ma, dopo tre anni di continue visite ai merli, il panorama divenne per Kora intollerabile come latte inacidito. Le davano fastidio persino i colombi arcobaleno, che venivano a tubare e a far nido nei doccioni e fra i buchi delle merlature.

Gli anni passarono come un soffio e Kora compì quindici anni. Al castello si fece una gran festa: i servitori meccanici prepararono una gigantesca torta a sei strati: crema chantilly, crema allo zabaione, cioccolato fondente, cioccolato al latte, cioccolato bianco e crema alla nocciola. Persino suo nonno, che di solito stava nella Sala Grande solo per la colazione, il pranzo e la cena, vi si trattenne più del dovuto, fino a metà pomeriggio, per festeggiare a dovere. Poi, come al solito, tornò trafelato al laboratorio, salendo le scale come se avesse avuto quarant’anni di meno. In quella stanza misteriosa, evidentemente, c’era qualcosa che richiedeva un impegno e un’attenzione continui.
Mentre mangiava la torta, il cervello di Kora lavorava alacremente. Aveva molti doni attorno a sé, in parte costruiti dal nonno e in parte acquistati dai servitori meccanici nei villaggi vicini: caleidoscopi, trottole, bambole meccaniche, puzzle, mobili dipinti, dolci e paste in quantità… eppure, il dono più grande, l’unico che desiderasse davvero, era rivedere il carillon ancora una volta. Capire cosa fosse e perché il nonno lo custodisse così gelosamente.

L’occasione propizia arrivò in un gelido giorno di novembre. Un vento selvaggio scendeva dal Schturmwagen, portando con sé echi di battaglie e pianti di Valchirie. Fiocchi di neve, come piume d’angelo, scendevano da un cielo plumbeo, ammonticchiandosi sul tetto e sulle merlature. E fu così che il gelo, strisciando sottilmente dalle fessure delle finestre, entrò dentro il castello dove finì per far congelare i meccanismi della grande pendola della Sala da Ballo. Era un orologio antico, talmente antico che giù in paese si diceva che preesistesse al castello stesso e fosse lì da sempre. Vero o non vero, era un miracolo di ingegneria e di precisione; aveva le lancette di cristallo, il quadrante di marmo bianco e il bordo in oro massiccio. Fu Kora a notare, mentre scendeva dalla sua camera per la colazione, che le lancette si erano bloccate; avvertì subito i maggiordomi e loro andarono in escandescenze, mettendosi a cigolare e scricchiolare come locomotive arrugginite.
«Il Padrone la sistemerà!» gemettero speranzosi, precipitandosi verso le scale.
Nell’esatto momento in cui li vide sparire in direzione del laboratorio del nonno, Kora si decise: avrebbe approfittato di quel fortunato diversivo per intrufolarsi nel sancta sanctorum del conte. La sua fame di sapere sarebbe stata finalmente saziata!
Il conte Kurtz Von Rustung comparve alcuni minuti dopo, vestito ancora con la camicia da notte e la papalina. Era armato di cacciaviti, lenti, bulloni e mille altre cose che sua nipote non aveva mai visto. Kora, d’altro canto, non resto lì per molto: in men che non si dica, era sparita fra le ombre della scalinata principale, che portava alla ala est e alla ala ovest. Ignorò l’ala est, con le sue armature, gli scudi e i quadri degli antenati, e si mise a percorrere l’ala ovest, decisamente più cupa e misteriosa dell’altra: aveva drappi cremisi alle pareti, candelabri neri con candele ancora più nere, e muri di mattoni sgretolati dove l’ala est aveva carta da parati con draghi, arpie e grifoni.
Ed ecco, finalmente, la porta del laboratorio del conte! Ogni ruga del legno e ogni cardine trasudava mistero. Deglutendo per l’eccitazione, Kora spinse la porta ed entrò.
Era tutto come lo ricordava: il lungo tavolo a forma di ferro di cavallo, gli strumenti del nonno e… il carillon, adagiato sul cuscino di raso rosso. Scintillava come una perla nera sotto la luce della luna. Prima di avvicinarsi, Kora prese una alabarda appesa al muro e la sistemò in modo che la porta non potesse essere più aperta dall’esterno. Anche se era certa che la pendola avrebbe occupato il nonno a lungo, sapeva che i servitori meccanici pattugliavano frequentemente i corridoi e che dunque era probabile che spuntassero da un momento all’altro. Meglio premunirsi contro eventuali scocciatori.
Finalmente libera di godersi quello che aveva atteso per anni, Kora si avvicinò all’altare. Ecco il carillon! Che meraviglia! Era proprio come lo ricordava: una sfera contenete un cielo stellato, che ruotava costantemente su di un perno d’oro a forma di colonna corinzia. Una musica accompagnava quel lento girotondo, ma non era la musica che Kora si sarebbe aspettata da un carillon... era come un silenzio rumoroso, un fruscio proveniente da un vuoto cosmico. La ragazzina tese una mano e toccò il globo. Era caldo, pulsante, come il cuore di un bambino. Sembrava quasi…
In quell’istante, la porta del laboratorio tremò.
«KORA! Che stai FACENDO?» la voce era quella del nonno. Era una voce autoritaria, ma sotto sotto era disperata.
«Apri! Apri SUBITO!» ruggì il vecchio.
Kora indietreggiò. Era davvero terrorizzata, perché sapeva quanto il nonno fosse una persona pacata e poco propensa a scatti d’ira. Doveva averla combinata davvero grossa! Facendosi coraggio, Kora decise di aprirgli, ma non fece nemmeno in tempo ad avvicinarsi alla porta, per togliere l’alabarda, che suo nonno sfondò l’uscio. L’aveva distrutto con una mazza ferrata presa ad una delle armature dell’ala est. Si catapultò dentro, afferrò Kora e la scosse con forza.
«Ha smesso di SUONARE? Ha smesso di MUOVERSI
«Io n-non… lo s-so.» balbettò Kora. Con un ringhio leonino, il Nonno lasciò la nipotina tremante e si fiondò verso il carillon. Lo sollevò con tutta la cura possibile e, toltosi una minuscola chiave che portava appesa al collo, la usò per ricaricare il meccanismo. Dopodiché, con un soffio liberatorio, lo ripose sul cuscino. La sfera stellata continuava a girare e a produrre quello strano fruscio.
«Appena in tempo…» mormorò il vecchio, asciugandosi il sudore dalla fronte con il mantello. Dopodiché si girò verso Kora. I suoi occhi lampeggiavano.
«KORA! Come hai potuto fare una cosa del genere?»
Kora digrignò i denti e scoppiò in lacrime.
«È colpa tua, nonno! Perché, perché mi t-tieni rinchiusa in questo m-maledetto castello come una prigioniera?» singhiozzò.
Il Nonno alzò una mano guantata per controbattere… e poi la abbassò, sfibrato. Si tolse il mantello, lo lasciò cadere a terra, e si sedette su una delle tante sedie libere del laboratorio. Si sentiva stanco, perché gli anni lo avevano raggiunto con tutto il loro peso.
«Hai ragione, Kora… – borbottò il vecchio – è tutta colpa mia. Ma ci sono stato costretto… Ahimè… Abbiamo una responsabilità immensa, sulle nostre spalle, che tu non puoi capire. Ma ora ti spiegherò: fu tuo padre il primo a violare la regola che ci impediva di uscire da qui. Il castello ci protegge, è stato creato apposta. Perché se moriamo, non possiamo portare a termine ciò per cui siamo stati creati e questa sarebbe una cosa terribile, una cosa innominabile! Tu, povera nipote mia, hai pagato per il peccato di tuo padre, come sempre accade. Tuo padre era un ribelle e questo in circostanze normali sarebbe stato fantastico. Ma noi normali non lo siamo, oh no! Accade che un giorno, a mia insaputa, tuo padre uscì dalle mura del castello per vedere il paese di Haidenschwarzen. La sua intenzione era di visitare i villaggi vicini e ritornare sul fare della sera. Ma fece tardi e la sorte gli si scagliò contro. Calò l’oscurità e lui non seppe più ritrovare il sentiero di pietre rosse che porta al castello; mise un piede in fallo, scivolò e cadde in un burrone. Lo ritrovammo una settimana dopo, con il collo rotto. Povero ragazzo! A quel punto, la discendenza familiare sarebbe stata spezzata e tutto ciò che avevamo costruito, destinato a sparire nel nulla. Fortunatamente tuo padre si era sposato un mese prima e tua madre, che la sua anima riposi in pace, ti portava già in grembo. Avevamo perso una generazione, ma non due. Potevamo ancora servire al nostro scopo.»
«Non capisco, nonno! – gridò Kora disperata – Quale scopo? Cosa ci può essere di così importante? Qual è il grande segreto della famiglia Rustung?»
Il nonno indicò la sfera sul cuscino.
«Il… carillon?» domandò Kora incredula.
«Credi che sia davvero un carillon, quello? Guardalo bene… Che cosa sembra in realtà?»
«Sembra un… pianeta.»
Il Nonno rise.
«Solo un pianeta? Oh no, nipotina mia. È un intero universo. Un intero universo con migliaia di pianeti, miliardi di persone, numeri incalcolabili di stelle…»
«Un universo? E chi l’ha costruito?»
«Noi, Kora. Noi, la famiglia Rustung. O meglio: i nostri avi l’hanno creato e noi ora e per sempre ne saremo i custodi.»
«L’hanno creata i nostri avi?»
«Sì, Kora. Siamo sempre stati una famiglia di creatori di universi, noi Von Rustung.»
Kora si avvicinò di più al carillon. Se si concentrava bene, riusciva a vedere i pianeti e, sulla superficie di quest’ultimi, minuscoli puntolini che si muovevano: persone.
«E così ora noi ne siamo i custodi?» mormorò, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime di fronte a quella meraviglia. Il nonno le si avvicinò e le pose una mano sulla spalla.
«Proprio così, Kora. Il nostro compito è vegliare su questo universo, proteggerlo in tutti i modi, dalle minacce interne ed esterne, ripararlo se qualcosa non va per il verso giusto. E girare la chiave quando il movimento sta per finire.»
«Sennò?»
«Sennò il movimento finirà, nipotina mia, e i pianeti e le stelle e gli esseri viventi diventeranno quello che un tempo erano: materia inerte.»
«Adesso capisco tutto… da noi dipende la sopravvivenza di un intero universo. Ma, nonno… se noi siamo creatori di universi, chi è che ha creato noi?»
«Ah, questa è la domanda! Ma è una domanda perniciosa, ingannevole. Il tuo bisnonno, mio nonno, Jorg Rolf Von Rustung, ci stette così a pensare che rischiò di mandare tutto al diavolo. Impazzì e per un pelo si dimenticò di girare la chiave dell’universo. Sarebbe stata una catastrofe immane, come puoi ben immaginare. Per fortuna mio padre, tuo nonno, era già pronto a prendere il suo posto. E così, Jorg poté andare in pensione e vivere gli anni che gli rimanevano in tranquillità. E ora, fra poco, toccherà a me. Grazie a te.»
«Sì, ma non hai ancora risposta alla mia domanda – insisté Kora – chi ha creato noi?»
«Be’ io non so la risposta, nipotina mia. La posso solo indovinare. Immagino che, come noi abbiamo creato l’universo che vedi qui davanti, dentro questa bolla di vetro, qualcuno che sta sopra di noi, in un posto che non possiamo raggiungere né vedere, ha creato noi.»
«Vuoi dire che siamo anche noi dentro una bolla?»
«Sì e no. Possiamo essere in una bolla, ma non è detto che sia per forza una bolla.»
«E cioè?»
«E cioè io credo che ogni creatore di universi abbia la facoltà di crearli a suo modo. Può darsi che il nostro creatore ci abbia dipinto su una tela e che quindi per lui i nostri laghi, i nostri campi, le nostre montagne non siano altro che strisce di colore a tempera. O forse siamo tutti figli di una canzone, di musica e parole mescolate assieme, e allora le montagne, gli alberi, le persone, persino il nostro castello sarebbero solo una sfilata di note su di un rigo musicale. O ancora il nostro universo potrebbe essere un racconto e i suoi confini i margini di un foglio bianco. Sì, sì… forse è così. Me lo immagino proprio così: il nostro creatore, seduto su una poltrona, con un foglio e una penna in mano, o con qualsiasi altra cosa usino nel suo mondo per scrivere…»
«Ma scusa, nonno… Chi ci garantisce che il nostro creatore, quello che se ne sta su, non si dimentichi come stava facendo il mio bisnonno di far funzionare il nostro universo?»
«Oh be’. Garanzia non ce n’è. È come quando si va a letto. Chi può saperlo che ci risveglieremo o resteremo per sempre nelle tenebre?»
Kora annuì.
«Ho un’ultima domanda, nonnino.»
«Sì, dimmi, bambina mia.»
«Chi c’è a monte di tutto? Cioè… se ogni universo ha il proprio creatore, esiste un creatore di tutto, un essere che ha dato via a tutto questo?»
Il nonno rise.
«Vedi bambina mia che è facilissimo perdersi? La mente va, cerca, viaggia, ma non riesce a trovare la risposta. Io questo non lo so, Kora. Può darsi di sì, può darsi di no. Forse c’è chi ha dato il via a tutto questo o forse è stata solo la scintilla del caso. Forse siamo imbrigliati in un cerchio eterno, in una genesi labirintica, e allora non è più possibile sapere chi ha creato chi e quale sarà il nostro destino ultimo. Ma una cosa la so… più ci fermiamo a pensare a queste cose, meno ne sapremo e meno vivremo. Perciò, ora, vieni più vicina, nipotina mia: ti mostrerò come pulire il cielo e ricaricare la luce delle stelle…»