Lo so, lo so. Questa volta mi avete dato per morto. Purtroppo lo studio si è fatto pressante e mi occupa buona parte della giornata. Fortunatamente riesco sempre a ritagliarmi del tempo per scrivere. Dirò di più: sto preparando una sorpresa che sarà disponibile molto presto su Amazon, sorte permettendo. Nel frattempo, godetevi questo racconto fantasy per ragazzi! Buona lettura. Alvise Brugnolo
L'inverno
era calato sulle montagne di Keltar in taglienti lame di ghiaccio.
Tutte le pianure, fino al Grande Fiume, erano state coperte da un
manto di neve solido come una muraglia. Neppure la città di Teuton
era stata risparmiata: l'ondata di gelo ne aveva riempiti i fossati e
il vento del nord aveva eroso le palizzate a difesa del perimetro
cittadino col rischio di farle crollare. Se quel gelo fosse durato
più del previsto, anche l'animo degli abitanti avrebbe fatto, presto
o tardi, la stessa fine: sarebbe stato però un crollo silenzioso,
migliaia di figure rattrappite a faccia in giù nella neve, gli occhi
vitrei rivolti ad un cielo sempre più nero per via delle ali dei
corvi. Esagero, mi dite? Ogni narratore esagera. Ma posso assicurarvi
che era davvero l'inverno più rigido che i cittadini di Teuton
riuscissero a ricordare. Se ne stavano tutti chiusi in casa, davanti
al tepore di un braciere, il corpo avvolto in irsute pellicce d'orso,
a sorseggiare tazze di latte caldo di renna mischiato con miele e
foglie di menta.
Non
tutti, però, avevano questo privilegio. Non i cavalieri di Teuton,
costretti a marciare lungo le asperità di un crinale che si
inerpicava su, sempre più su, fin quasi a toccare il cielo
lattescente di pieno inverno. Una lunga fila di soldati del nord, ben
cento uomini che procedevano a capo chino sotto la bufera, un elmo
cornuto sulla testa e uno scudo rotondo di legno appeso alla cintola.
Ognuno, al fianco sinistro, portava un'ascia dal manico d'argento, il
nome della propria famiglia inciso nel metallo. Cento uomini, posti
uno dopo l'altro secondo l'esperienza accumulata in battaglia, dai
veterani che amavano la guerra più delle loro mogli alle reclute che
brandivano l'ascia da poco più di un'estate. L'ultimo di loro si
chiamava Vik, e non era ancora un uomo.
Vik
cavalcava con il naso all'insù, completamente assorto nell'ammirare
le montagne, aguzze cuspidi di roccia simili in tutto e per tutto
alla punta della lancia che portava appesa alla schiena per mezzo di
una sottile striscia di cuoio. Era la lancia che gli aveva donato suo
padre prima che lui partisse in sella al suo cavallo, quattro giorni
prima. Un rapido saluto e Vik si era accodato alla spedizione,
l'ultimo della colonna guidata dal severo comandante Kirknam,
l'Uccisore di giganti.
«Portaci
onore.» gli aveva sussurrato suo padre, con gli occhi che brillavano
per la commozione o forse, sapendo quanto fosse impassibile e cupo,
semplicemente per il freddo. Vik aveva annuito, anche se per lui,
l'onore, era una cosa evanescente quanto l'aria, le stelle o il
sonno. A lui importava solo il sangue che la spedizione avrebbe
versato sulla neve. Il sangue dei giganti albini.
Vik
non sapeva da quanto fossero in guerra con quei mostri, sicuramente
da prima della sua nascita. Quindici lunghi anni di feroci battaglie,
eterni assedi, reciproche incursioni, efferate crudeltà da parte di
entrambi gli schieramenti. Quindici lunghi anni durante i quali gli
abitanti delle pianure avevano cercato, invano, di trovare il
nascondiglio dei giganti per distruggerli una volta per tutte col
fuoco e con l'acciaio affilato delle loro spade.
Quella
di Kirknam non era, infatti, la prima spedizione contro quei feroci
abitatori delle grotte: più di tremila guerrieri di Teuton erano
partiti per le montagne, nel corso degli anni, e non erano più
tornati. I loro cadaveri restavano insepolti sul fondo
irraggiungibile dei crepacci. Ma non erano solo i cavalieri le
vittime di quella guerra sanguinaria; chiunque si intenda di
battaglie, di strategie e di armi sa bene che c'è un prezzo molto
più alto da pagare quando si combatte, ossia la morte di chi della
guerra non ne vuole sapere nulla. A quattro anni, Vik aveva perso sua
madre. Un gruppo di giganti era riuscito a fare breccia nella
palizzata, riversandosi per le strade fangose di Teuton. Melina non
era che un insetto, ai loro occhi. L'avevano calpestata senza neppure
accorgersene. Cose che capitano, sulle steppe di Xunomor.
Vik
chiuse gli occhi e inspirò l'aria gelata e recalcitrante. Non se la
ricordava proprio, sua madre. Ogni tanto, però, gli tornava alla
mente qualche suo dettaglio: la voce dolce, serena; i capelli rossi,
crespi; la figura angelica, come quella di una dea venuta dal cielo
per allietare gli occhi e scaldare il cuore. Si trattava però di
immagini isolate, fredde e impalpabili, che non gli permettevano di
farsi un'idea chiara di chi fosse davvero sua madre. Sapeva solo che
lei gli voleva bene e questo gli era sufficiente per odiare i giganti
con tutte le sue forze. Li infilzerò come maiali, si
ripromise, curvo e arcigno sopra il suo cavallo, un puledro inesperto
del mondo quasi quanto lo era lui. La criniera buffa e irsuta
dell'animale era simile in tutto e per tutto alla chioma sbilenca di
quel ragazzino alto e smilzo, secco quanto il manico della sua
lancia.
Cavalcare
in mezzo al vento del nord era una vera impresa: i fiocchi di neve,
che cadevano perpendicolari sopra l'ottusa fila dei guerrieri,
mordevano come uno sciame di locuste; paralizzavano i sensi, gelavano
mani, faccia e occhi; riuscivano ad arrivare fino al cuore,
minacciando di bloccarne i battiti, di soffocarne il calore fino a
lasciare al suo posto una fredda lastra di ghiaccio. Era una marcia
davvero dura. Come se ciò non bastasse, ad ogni metro, giusto per
ricordare a Vik che era l'ultimo degli ultimi, gli altri cavalieri si
giravano e gli lanciavano un'occhiata tra il divertito e
l'infastidito, come a dire: hai ancora molte cose da imparare, tu.
Guarda noi invece come siamo coraggiosi e fieri, con le nostre
barbe e le nostre cicatrici e i nostri trofei e le nostre armi da
veri uomini.
Anch'io
sarò un uomo, voleva gridare Vik, ma poi, non sapendo come
Kirknam l'avrebbe presa, abbassava gli occhi e colpiva il cavallo sui
fianchi, borbottando rabbioso nelle sue lunghe orecchie marroni:
datti da fare, tu. Il puledro, girando un poco la testa, gli
lanciava allora uno sguardo interrogativo con i suoi occhi languidi e
cisposi, gli occhi di chi si sente fuori posto e vorrebbe essere
altrove. Vik, se avesse avuto con sé uno specchio, si sarebbe
accorto che i suoi occhi non erano poi così diversi.
ALT!
Un
grido si udì nell'aria, più forte del vento del nord. Il comandante
Kirknam aveva fatto un gesto e i cavalieri, solerti, fermarono i
cavalli seduta stante, tra grida, fischi e ringhi animaleschi. Vik,
ancora imbambolato a fissare il precipizio alla sua destra, tirò le
redini troppo tardi e il suo puledro urtò il cavallo pezzato che gli
stava davanti; e così, un destriero dopo l'altro, tutta quanta la
colonna fu costretta ad avanzare di un passo. Più di un cavallo fu
sul punto di cadere giù nel crepaccio assieme al suo cavaliere,
tanto esile era lo spazio che li separava dal ciglio del burrone.
Allora tutti i soldati di Teuton si voltarono di scatto, furibondi.
Questa volta gridarono davvero quelle parole, un centinaio di voci
roche all'unisono:
«Hai
ancora molte cose da imparare, TU!»
Vik
non ebbe il tempo di ribattere né di vergognarsi perché Kirknam,
nel frattempo, era sceso da cavallo, atterrando pesantemente sui suoi
stivali di pelle di gigante. Le teste dei soldati tornarono
immediatamente su di lui; era questo il potere dell'autorità, del
rispetto che ci si guadagnava col sangue, il sudore, il ferro. Gli
occhi di Vik brillarono.
«Molto
bene, miei compagni – annunciò il comandante, con voce stentorea –
Lasceremo i cavalli qui, su questo spiazzo, perché adesso la strada
si farà ancora più stretta. Tenete gli occhi aperti, d'ora in poi,
perché siamo entrati nel loro territorio. Presto si faranno vedere,
o forse ci stanno già guardando, lassù, da qualche parte sopra
quelle rocce.»
E
indicò un punto sopra le loro teste, ad ovest. Vik alzò lo sguardo
e spalancò la bocca, perché scorse di fronte a sé la più
imponente montagna che avesse mai visto o sognato di vedere. Era la
vetta maggiore della catena montuosa di Keltar e i viaggiatori delle
steppe la chiamavano Kurushar, la Bianca. Da Teuton era quasi
impossibile vederla, perché la sua cima, così come anche le sue
pendici, erano sempre coperte da un manto di nuvole color
dell'albume. E non era soltanto bianca per via della neve che vi si
adagiava da generazioni senza mai sciogliersi, ma anche perché le
sue rocce erano misteriosamente e inspiegabilmente candide; anche gli
alberi che crescevano sui suoi crinali avevano foglie di un verde
tanto pallido da sembrare bianche, come piccole mani di fantasmi.
Tutto era bianco in quel posto, un bianco che poteva ferirti gli
occhi col suo chiarore di stella; i giganti non facevano eccezione e
per questo venivano chiamati Kurushien. Come si chiamassero tra loro,
non è dato sapere. O meglio, io lo so bene, ma lascio a voi il
piacere della scoperta: un viaggio fino alla biblioteca di alabastro
nelle profondità di Solivann potrà darvi tutte le risposte che
cercate.
Vik
deglutì. Ora che Kirknam li aveva avvertiti del pericolo, credeva di
vedere teste di gigante da tutte le parti. Ma erano solo massi,
tronchi abbattuti e bitorzoli nella roccia. O forse no? Da quella
distanza non si poteva saperlo, si doveva camminare e basta,
aspettandosi ogni secondo il peggio. Vik abbandonò a malincuore il
cavallo, ma si confortò un po' quando si accorse che il vento, in
quello spiazzo, arrivava con meno forza rispetto che sul crinale. Si
lasciò il puledro alle spalle, girandosi solo una volta, giusto per
vedere l'animale sbuffare e rispondere al suo sguardo con un nitrito
sommesso.
Avanzarono.
La neve arrivava fino alle ginocchia e si doveva procedere a carponi,
come cani randagi. Solo Vik, che era il più leggero della compagnia,
riusciva a camminare senza sprofondare di un solo centimetro. Per
questo si sentì forte, ma la sensazione svanì subito quando il
vento del nord fece sentire tutto il suo potere, urlandogli nelle
orecchie e mozzandogli il respiro con il suo fiato di gelo. Ed ecco
che un altro grido proruppe dalla testa della spedizione:
TUTTI
GIÙ!
Fu
solo allora che Vik lo vide arrivare: un gigantesco masso, grande
quanto un paiolo di rame, era diretto verso di loro; muggiva per la
velocità con cui era stato lanciato e ruotava, ruotava su se stesso
come il proiettile di un trabucco. Il ragazzo non ebbe neppure il
tempo di gridare: si gettò di riflesso nella neve, mentre un
frastuono terribile risuonava tutt'intorno, un suono infernale che
venne seguito da atroci grida di dolore. Quando Vik rialzò il viso
dalla neve, sputando acqua gelida, vide che la parte finale della
colonna era stata decimata. Ben dieci guerrieri erano morti: i due
colpiti in pieno dal masso si ritrovavano spiaccicati ora contro la
parete rocciosa, le teste spappolate come frutti maturi. Vik
nonostante tutto quel sangue riconobbe Galu, il fabbro, e Sik, suo
figlio. Gli altri otto, investiti dalle schegge di roccia schizzate
via quando il masso aveva cozzato contro il crinale della montagna,
erano scivolati inesorabilmente giù nel burrone, strillando come
maiali sgozzati.
«Al
riparo!» ordinò Kirknam, cercando di superare il frastuono delle
urla dei suoi uomini. Altri due massi giunsero subito dopo, ma questa
volta andarono a vuoto. Vik, pieno di terrore, si voltò verso il
crinale opposto.
Eccoli,
i giganti. Bianchi, alti, terribili. Erano mezzi nudi, tranne che per
una corta tunica di pelle di orso lanoso, che lasciava scoperta la
spalla sinistra e arrivava fino a metà coscia. Portavano stivali di
pelle umana, alti un po' meno di quanto lo era Vik, all'incirca sei,
sette spanne. I loro visi, per quanto pallidi e contratti dall'odio,
erano però molto simili a quelli degli uomini, ad eccezione di due
zanne, che fuoriuscivano dalle labbra superiori e si incurvavano
all'insù, come quelle degli elefanti. Gridavano in una lingua
incomprensibile, ma non ci voleva molto per capire che stavano
augurando ai Teutongar tutto il male possibile.
La
colonna, nel frattempo, era riuscita a salvarsi grazie ad una curva
provvidenziale, che aveva tolto i soldati dalla vista acuta di quei
mostri. Vik, raggiunta una porzione di roccia sicura, vi si addossò
e scoppiò a ridere convulsamente, fino a vomitarsi sui pantaloni.
Questa volta gli altri soldati non lo insultarono né lo derisero.
Anche per loro, le prime volte, era andata così.
«Bene,
compagni! – gridò Kirknam – Il peggio è passato! Ora, quando
avremo raggiunto la vallata di Kurusharnak, ci scontreremo in campo
aperto e lì lo spazio ci sarà favorevole. I Kurushien sono lenti,
mentre noi dobbiamo essere veloci e letali come scorpioni. Passate
fra le loro gambe e colpiteli da sotto, ma state attenti a non essere
calpestati! Teutondal è con noi!»
I
soldati, seppur scossi, annuirono e si fecero coraggio gridando con
tutto il fiato che avevano in corpo. Vik si vomitò addosso ancora
una volta, poi, anche se con difficoltà, gridò anche lui, solo che
ciò che gli uscì fu poco più di uno starnazzare di oca o il
miagolio di un gatto finito sotto le ruote di un carro di buoi. Si
alzarono in mezzo alla bufera; combatterono prima di tutto con il
vento, con il gelo e con la paura. Corsero, corsero ancora, novanta
uomini dal volto feroce, seguiti da un ragazzo paonazzo e senza
fiato, che riusciva a fatica a trattenere le lacrime e i conati.
Per
quanto si muovessero rapidamente, non riuscirono a raggiungere la
vallata: i giganti li precedettero al Passo delle Cascate, chiamato
così perché, in un piccolo spiazzo poco più grande della piazza
principale di Teuton, scendeva un fiume d'acqua sospesa, congelata
prima di toccare il terreno come se il tempo si fosse fermato. Era
così dieci mesi l'anno.
«Forza,
uomini! Facciamo quello che dev'essere fatto!» gridò Kirknam,
sguainando la sua vecchia e fidata spada.
I
giganti erano una ventina, ma erano così grandi che occupavano lo
spazio di duecento uomini; fortunatamente il Passo delle Cascate era
abbastanza ampio da permettere ai soldati di muoversi agevolmente ed
evitare i fendenti delle gigantesche clave dei Kurushien: queste
erano fatte con interi tronchi d'albero o con pezzi di roccia lavica
color del carbone, e quando i colossi le sbattevano al suolo l'intera
montagna tremava. Anche il cuore di Vik tremava, eppure, una volta
che iniziò a correre assieme agli altri, gridando a gran voce il
nome di sua madre, la paura passò e tutto intorno a lui divampò il
calore della battaglia: i suoi muscoli, prima contratti dalla morsa
del gelo, si sciolsero; le sue mani screpolate dal vento nordico si
strinsero attorno alla lancia come se facesse parte del suo corpo da
sempre, e più la stringeva più si sentiva potente, assetato e
rabbioso.
Le
montagne di Keltar risuonarono delle grida dei combattenti. I giganti
facevano mulinare le mazze e le schiantavano, i soldati di Teuton
rotolavano, scartavano, passavano sotto le gambe bianche e nodose dei
mostri, mirando alle arterie femorali oppure ai tendini del tallone.
Poi, quando i giganti cadevano in ginocchio, i più agili fra i
soldati si arrampicavano sulle loro spalle massicce, per colpirli
dove erano più sguarniti: sul collo, sulle tempie o alla gola.
Vik
vide cadere accanto a sé Melkor, un amico di suo padre, ma non ne
rimase turbato, anzi: il suo coraggio ne venne aumentato a dismisura
e per un attimo si sentì molto più grande della sua età, quasi
fosse diventato lui il comandante di quella eroica spedizione e i
suoi compagni semplici soldati ai suoi ordini. Kirknam uccise
personalmente tre giganti, tagliando la testa dell'ultimo con due
fendenti di ascia. Burmur, l'assistente armaiolo, ne uccise due e ne
ferì gravemente un terzo, prima di cadere schiacciato sotto il
gigantesco piede di un altro Kurushien, sopraggiunto di gran carriera
facendo scrocchiare la neve come se si fosse trattato di un mare
d'ossa. Anche Jork, l'allevatore di cavalli, morì, ma prima riuscì
ad infilzare a morte il cuore di uno di quei bruti: lo colpì da
lontano, lanciando l'ascia d'argento con una precisione che sarebbe
entrata nella leggenda e nei miti di tutta Teuton.
Ben
presto la colonna si ridusse a sessanta unità, mentre i giganti
rimasero soltanto in quattro. Il dio dei cavalli, pensò Vik,
deve essere con noi, oggi. Sembrava davvero così: i giganti
superstiti, ormai allo stremo delle forze, indietreggiarono, feriti,
dentro una colossale grotta che si trovava alla loro destra, nascosta
da un anello di rocce che ricordava i merli di un castello. Kirknam
si pulì la faccia dai grumi di sangue rappreso che gli impedivano di
vedere bene, poi radunò i suoi uomini per condurli alla vittoria.
«Comandante
– chiese Dirk, un giovane soldato con la faccia rovinata da
un'ampia cicatrice – perché si sono rifugiati in quella grotta?
Perché non fuggono?»
Kirknam
sputò nella neve.
«Credo
di sapere il perché.» rispose. Fece segno ai veterani di seguirlo,
ma intimò ai più giovani di restare fuori, a coprire loro le
spalle. Alle lamentele di Vik rispose con un'occhiataccia e con una
frase sibilata a denti stretti: hai dimostrato più valore di
quanto ti ritenessi capace. Il ragazzo, dopo aver abbassato gli
occhi, annuì. I Teutongar procedettero tutti insieme nel cuore buio
della spelonca, fianco a fianco, solidi come le mura di un fortino.
Per qualche minuto ci fu solo silenzio. Ma ecco che dal fondo della
montagna eruppero grida bestiali, di rabbia e dolore, infine un urlo
più sottile e acuto, come un pianto, al quale seguì un rinnovato
silenzio, un silenzio che si gonfiò fino a riempire i crepacci, gli
alberi e i ghiacci perenni, per poi discendere sulla pianura e
insinuarsi nel greto del Grande Fiume.
Era
finita. Avevano sconfitto un'intera orda di Kurushien. Sarebbero
passate molte stagioni prima che quei mostri ritrovassero il coraggio
di scendere sulle pianure a minacciare Teuton, e la città nel
frattempo si sarebbe preparata, come aveva imparato a fare da lungo,
lungo tempo.
Kirknam
uscì dal buio, provato dalla fatica; gli altri Teutongar lo
seguivano, i lunghi capelli color grano impiastricciati di sangue di
gigante. Avevano tutti sul viso un'espressione severa, quasi triste.
Vik invece scoppiò a ridere, urlando al cielo tutta la sua felicità
e il suo disprezzo; alzò la lancia al cielo, ululò e la abbassò
sul corpo esangue del gigante più vicino, trapassandogli la nuca.
Gli altri lo guardarono cupamente e scossero la testa, ma non mossero
un dito. Kirknam invece si avvicinò rapidamente al ragazzo e gli
afferrò il braccio prima che potesse colpire il cadavere una seconda
volta.
«Porta
rispetto ai tuoi nemici.» ordinò con fierezza.
Vik
si divincolò. Non poteva credere alle proprie orecchie!
«Rispetto?
Questi mostri hanno ucciso mia madre. Meritano di morire, dal primo
all'ultimo.»
Kirknam
lo afferrò per un orecchio.
«Vieni
con me.» ribatté seccamente. Vik lo seguì debolmente, quasi
sull'orlo delle lacrime. Gli altri stavano a guardare, silenziosi e
immobili nella tormenta di neve. Entrarono nella grotta, un antro
gigantesco dai muri scuri come pece. L'odore di sangue era così
forte da dare la nausea. Kirknam portò il ragazzo fino al centro
della montagna, dove i giganti si erano rifugiati, avevano combattuto
ed erano morti. Qui, lo gettò letteralmente sul corpo di uno di
questi.
«Guarda
e capirai.»
Vik
aprì gli occhi e si trovò davanti il corpo di un gigante. Ma non
era un gigante come tutti gli altri, grosso, poderoso, feroce. Era un
cucciolo di Kurushien, alto poco più di lui. Non aveva né zanne, né
armi con sé, ma tra le mani bianche stringeva una bambola inzuppata
di sangue. Era lui che aveva pianto poco prima, lui che aveva gridato
quando aveva visto sua madre e suo padre morire davanti ai propri
occhi, uccisi dalle lance e dalle asce d'argento dei Teutongar.
Grosse lacrime iniziarono a scorrere allora lungo le guance imberbi
di Vik. Kirknam si avvicinò e gli pose una mano sulla spalla, come
avrebbe fatto un padre. Il ragazzo si voltò.
«Ma
loro hanno ucciso mia madre, hanno ucciso donne, vecchi e bambini.
Senza fare distinzioni...» balbettò, con il cuore gonfio di
tristezza.
«E
noi abbiamo fatto lo stesso, lo puoi vedere con i tuoi occhi. Non
siamo meglio di loro. Capisci adesso, Vik? La guerra è un male
necessario, ma come tutti i mali non può portare felicità.
Diventare uomini significa accettare che alcune cose devono essere
fatte, ma accettarle non significa gioirne: se c'è gioia quando si
compie il male, allora il male ha vinto e il cuore di un uomo diventa
di pietra, avvizzisce e lentamente muore. Impara la lezione, Vik.
Solo così un giorno, forse, ci potrà essere la pace.»
Vik
ebbe modo di ripensare a quelle parole durante il lungo viaggio di
ritorno fino a Teuton. Il corpo del piccolo Kurushien, ucciso prima
di poter conoscere il mondo, gli tornò alla mente per molte, molte
notti a venire, lasciandogli nel corpo un'inquietudine che durò a
lungo, anche dopo la fine dell'inverno, quando lo scioglimento della
neve permise ai primi fiori di sbocciare. Fu per questo che Vik, una
volta divenuto re di Teuton, diede tutto se stesso affinché tra
Teutondal e Kirishendal si formasse una solida alleanza e tra uomini
e giganti regnasse una pace duratura. Ma questa è un'altra storia e
dovrà essere raccontata un'altra volta.