Ecco la prima parte di un racconto fantasy ispirato alla leggenda della Caccia Selvaggia: un corteo di esseri mitologici che, nei racconti del folclore nordeuropeo, scende dal cielo per rapire e uccidere i mortali. La seconda parte arriverà a breve... Buona lettura
Alvise Brugnolo
Quella di Creekwall
poteva sembrare una cittadina come tante altre. Aveva un po’ di storia dietro
di sé e ciò era testimoniato dal grande castello che sovrastava le campagne
circostanti; le sue torri, che culminavano con tetti di ardesia azzurra, erano
il vanto degli abitanti, che le chiamavano affettuosamente “le Belle”. Leghe e
leghe di campi coltivati circondavano le mura cittadine; vi crescevano spighe
di grano dorato, piante di soia color del limone e lunghi filari di viti. Erano
una meraviglia a vedersi. I frutteti, che si sviluppavano a ridosso dei campi e
lungo l’ansa del fiume, non erano da meno. Producevano mele in abbondanza e
pere e pesche e albicocche in gran quantità. A luglio, quando i frutti erano
abbastanza maturi da essere raccolti, tutta Creekwall si riempiva di canti: le
donne uscivano in processione, vestite di rosso, giallo o azzurro, e dietro di
loro venivano gli uomini, che suonavano liuti, flauti e ocarine. Insieme
cantavano. La raccolta durava diversi giorni, giorni di musica, danze e
preghiere. I bambini aiutavano come potevano, ma spesso trascuravano le loro
mansioni per mettersi a giocare e a fare il girotondo in mezzo alle spighe.
Conclusi i giorni della raccolta, si organizzava una grande festa, una festa
davvero portentosa se paragonata alle dimensioni relativamente modeste di quel
borgo. Venivano montati degli enormi tendoni e, accanto a questi, una miriade
di gazebi di legno chiaro, con colonnine scolpite a guisa di fiori, piante e
pavoni. Nei tendoni ci si poteva sedere (c’erano lunghi tavoli in legno di
quercia e numerosissimi tronchi di rovere, che fungevano da sgabelli) mentre i
cuochi che provenivano dai regni vicini preparavano, davanti agli occhi dei
presenti, squisiti manicaretti: zuppa di funghi di Luna (erano funghi di color
acquamarina, che crescevano a ridosso della foresta degli Elfi e, una volta
cotti, brillavano), costolette di maiale al miele e cannella, piccioni ripieni
di castagne e mirtilli di bosco, e per finire torte di tutti i gusti possibili
ed immaginabili (la preferita dagli abitanti, comunque, restava quella con
crema al cioccolato e granella di pistacchio).
Da fuori venivano
anche gli stranieri con i loro carrozzoni: erano abili prestigiatori, agili
saltimbanchi, mirabili danzatori e musicanti di professione; portavano con loro
orsi addestrati, che ballavano attorno al fuoco al ritmo della tarantella. Il
grande falò che veniva acceso dentro le mura di Creekwall, al centro esatto
della piazza principale, dove le strade si congiungevano in uno spiazzo
circolare e sabbioso, serviva per propiziarsi la benevolenza degli dèi: si
pregava che l’inverno fosse breve e mite, e che il gelo risparmiasse la vita
dei bambini. In questo, Creekwall assomigliava molto a Teuton, una città della
steppa che distava una ventina di leghe, i cui inverni erano, ahimé, diventati
proverbiali. Eppure, a Creekwall le preghiere erano più intense che a Teuton.
Perché mai, vi chiederete? È presto detto.
Ad occhi stranieri
Creekwall appariva davvero come il luogo perfetto dove dimorare. Ma c’era quella cosa di cui nessuno parlava
volentieri. Accadeva l’ultima notte dell’anno, quando tutta la città, spenti i
lumi, era immersa nel sonno. Un vento rabbioso iniziava a spirare per le
contrade, lungo le vie, fra i ponti sul fiume e fra gli interstizi delle tegole
di ardesia. Serpeggiava fra i colonnati di Piazza dei Duchi, stridendo
indiavolata attraverso i doccioni, le bocche dei quali, irte di zanne, erano
perennemente aperte.
Il vento annunciava
il suo arrivo.
L’arrivo
dell’esercito dei Silenti. Scendeva dal cielo in una torma impetuosa: una
moltitudine impressionante di soldati muti e ciechi, a cavallo di destrieri di
fiamma che scalpitavano su un oceano di scintille. Erano guerrieri provenienti
dal regno dei morti, usciti dai meandri infernali a caccia di giovani vite per
il loro esercito silenzioso. Chi sarebbe stato lo sfortunato scelto per
ingrossare le file di quell’esercito di mostri, questo era impossibile saperlo.
L’unica cosa certa, era che, il mattino del primo giorno dell’anno, quando
tutta la città si riuniva al centro della piazza, qualcuno mancava all’appello.
Sempre. E a volte erano più di uno.
Era una
maledizione, una terribile maledizione e, per quanto gli abitanti cercassero di
porvi rimedio, niente di quello che potevano escogitare serviva a qualcosa: le
mura non impedivano ai morti di passare e nemmeno le porte delle case, né le
sentinelle messe a presidio dei cancelli. Chi scorgeva l’esercito dei Silenti
finiva infatti per impazzire, perché, fra i soldati non-morti di quella masnada
infernale, riconosceva sempre i volti di chi aveva amato.
Un giorno, stanco
di quella situazione, il re di Creekwall riunì il gran consiglio nella sala più
ampia del castello.
«Ministri, baroni e consiglieri
– disse – è tempo di reagire. Non possiamo più permetterci di nasconderci come
topi, augurandoci di non essere i prossimi. È un atteggiamento egoista. Ci sarà
pure un modo per annullare questa maledizione. E noi lo troveremo.»
«E come, maestà?» rumoreggiarono
i consiglieri.
«Sceglieremo a caso, fra gli
abitanti, un messaggero. Avrà il compito di viaggiare in giro per il regno, di
città in città, montagna dopo montagna, fiume dopo fiume, in cerca di una
soluzione e, non appena l’avrà trovata, ce la porterà.»
I ministri annuirono, e così fu
deciso.
In un mattino di primavera, il
re radunò il popolo nella piazza del focolare. I nomi di ciascun abitante erano
stati scritti su pezzi di pergamena, inseriti poi in uno scrigno attraverso una
fessura nel legno. Il popolo trattenne il respiro mentre il ciambellano,
impettito nella sua divisa color del cielo, estraeva con mano sicura la
pergamena che avrebbe deciso il destino di uno, uno soltanto. E il foglietto
portava impresso questo nome:
Ytan Seatiln
Il re allora si alzò.
«Si faccia avanti Ytan Seatiln»
esclamò.
E Ytan si fece avanti. Era un
ragazzo di poco più di vent’anni, alto e magro. In mezzo alla folla non si
distingueva neppure.
«Sei tu, Seatiln?» gli domandò
il re, incredulo che la sorte avesse deciso che il loro salvatore, il
messaggero che avrebbe dovuto salvarli dall’esercito dei morti fosse proprio
quel ragazzo così insignificante.
«Sì, lo sono. Sono Ytan Seatiln,
il carpentiere.»
Il carpentiere! La folla si mise
a brontolare a voce alta. Nessuno, nessuno aveva mai fatto caso a quel
ragazzino minuto, che si appendeva ai palazzi come un ragno per riparare
finestre, tegole, gradini e cimase.
«E così sia, Ytan il carpentiere
– mormorò il re, con il cuore in tumulto – che gli dèi ti siano propizi e che i
Silenti non ti trovino. Ora va’ e ritorna glorioso.»
E Ytan, voltate le spalle agli
occhi beffardi e increduli degli abitanti, raggiunse la porta principale e uscì
da Creekwall. L’ultima cosa che vide voltandosi, dopo aver camminato per un
paio di leghe, furono le torri, le Belle, che lo salutarono con un guizzo di
luce prima di sparire dietro ad una tozza collinetta color pastello.
Il viaggio di Ytan era appena cominciato.
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