sabato 13 dicembre 2014

La leggenda di Creekwall - Prima parte

Ecco la prima parte di un racconto fantasy ispirato alla leggenda della Caccia Selvaggia: un corteo di esseri mitologici che, nei racconti del folclore nordeuropeo, scende dal cielo per rapire e uccidere i mortali. La seconda parte arriverà a breve... Buona lettura
Alvise Brugnolo




Quella di Creekwall poteva sembrare una cittadina come tante altre. Aveva un po’ di storia dietro di sé e ciò era testimoniato dal grande castello che sovrastava le campagne circostanti; le sue torri, che culminavano con tetti di ardesia azzurra, erano il vanto degli abitanti, che le chiamavano affettuosamente “le Belle”. Leghe e leghe di campi coltivati circondavano le mura cittadine; vi crescevano spighe di grano dorato, piante di soia color del limone e lunghi filari di viti. Erano una meraviglia a vedersi. I frutteti, che si sviluppavano a ridosso dei campi e lungo l’ansa del fiume, non erano da meno. Producevano mele in abbondanza e pere e pesche e albicocche in gran quantità. A luglio, quando i frutti erano abbastanza maturi da essere raccolti, tutta Creekwall si riempiva di canti: le donne uscivano in processione, vestite di rosso, giallo o azzurro, e dietro di loro venivano gli uomini, che suonavano liuti, flauti e ocarine. Insieme cantavano. La raccolta durava diversi giorni, giorni di musica, danze e preghiere. I bambini aiutavano come potevano, ma spesso trascuravano le loro mansioni per mettersi a giocare e a fare il girotondo in mezzo alle spighe. Conclusi i giorni della raccolta, si organizzava una grande festa, una festa davvero portentosa se paragonata alle dimensioni relativamente modeste di quel borgo. Venivano montati degli enormi tendoni e, accanto a questi, una miriade di gazebi di legno chiaro, con colonnine scolpite a guisa di fiori, piante e pavoni. Nei tendoni ci si poteva sedere (c’erano lunghi tavoli in legno di quercia e numerosissimi tronchi di rovere, che fungevano da sgabelli) mentre i cuochi che provenivano dai regni vicini preparavano, davanti agli occhi dei presenti, squisiti manicaretti: zuppa di funghi di Luna (erano funghi di color acquamarina, che crescevano a ridosso della foresta degli Elfi e, una volta cotti, brillavano), costolette di maiale al miele e cannella, piccioni ripieni di castagne e mirtilli di bosco, e per finire torte di tutti i gusti possibili ed immaginabili (la preferita dagli abitanti, comunque, restava quella con crema al cioccolato e granella di pistacchio).
Da fuori venivano anche gli stranieri con i loro carrozzoni: erano abili prestigiatori, agili saltimbanchi, mirabili danzatori e musicanti di professione; portavano con loro orsi addestrati, che ballavano attorno al fuoco al ritmo della tarantella. Il grande falò che veniva acceso dentro le mura di Creekwall, al centro esatto della piazza principale, dove le strade si congiungevano in uno spiazzo circolare e sabbioso, serviva per propiziarsi la benevolenza degli dèi: si pregava che l’inverno fosse breve e mite, e che il gelo risparmiasse la vita dei bambini. In questo, Creekwall assomigliava molto a Teuton, una città della steppa che distava una ventina di leghe, i cui inverni erano, ahimé, diventati proverbiali. Eppure, a Creekwall le preghiere erano più intense che a Teuton. Perché mai, vi chiederete? È presto detto.
Ad occhi stranieri Creekwall appariva davvero come il luogo perfetto dove dimorare. Ma c’era quella cosa di cui nessuno parlava volentieri. Accadeva l’ultima notte dell’anno, quando tutta la città, spenti i lumi, era immersa nel sonno. Un vento rabbioso iniziava a spirare per le contrade, lungo le vie, fra i ponti sul fiume e fra gli interstizi delle tegole di ardesia. Serpeggiava fra i colonnati di Piazza dei Duchi, stridendo indiavolata attraverso i doccioni, le bocche dei quali, irte di zanne, erano perennemente aperte.
Il vento annunciava il suo arrivo.
L’arrivo dell’esercito dei Silenti. Scendeva dal cielo in una torma impetuosa: una moltitudine impressionante di soldati muti e ciechi, a cavallo di destrieri di fiamma che scalpitavano su un oceano di scintille. Erano guerrieri provenienti dal regno dei morti, usciti dai meandri infernali a caccia di giovani vite per il loro esercito silenzioso. Chi sarebbe stato lo sfortunato scelto per ingrossare le file di quell’esercito di mostri, questo era impossibile saperlo. L’unica cosa certa, era che, il mattino del primo giorno dell’anno, quando tutta la città si riuniva al centro della piazza, qualcuno mancava all’appello. Sempre. E a volte erano più di uno.
Era una maledizione, una terribile maledizione e, per quanto gli abitanti cercassero di porvi rimedio, niente di quello che potevano escogitare serviva a qualcosa: le mura non impedivano ai morti di passare e nemmeno le porte delle case, né le sentinelle messe a presidio dei cancelli. Chi scorgeva l’esercito dei Silenti finiva infatti per impazzire, perché, fra i soldati non-morti di quella masnada infernale, riconosceva sempre i volti di chi aveva amato.

Un giorno, stanco di quella situazione, il re di Creekwall riunì il gran consiglio nella sala più ampia del castello.
«Ministri, baroni e consiglieri – disse – è tempo di reagire. Non possiamo più permetterci di nasconderci come topi, augurandoci di non essere i prossimi. È un atteggiamento egoista. Ci sarà pure un modo per annullare questa maledizione. E noi lo troveremo.»
«E come, maestà?» rumoreggiarono i consiglieri.
«Sceglieremo a caso, fra gli abitanti, un messaggero. Avrà il compito di viaggiare in giro per il regno, di città in città, montagna dopo montagna, fiume dopo fiume, in cerca di una soluzione e, non appena l’avrà trovata, ce la porterà.»
I ministri annuirono, e così fu deciso.
In un mattino di primavera, il re radunò il popolo nella piazza del focolare. I nomi di ciascun abitante erano stati scritti su pezzi di pergamena, inseriti poi in uno scrigno attraverso una fessura nel legno. Il popolo trattenne il respiro mentre il ciambellano, impettito nella sua divisa color del cielo, estraeva con mano sicura la pergamena che avrebbe deciso il destino di uno, uno soltanto. E il foglietto portava impresso questo nome:

Ytan Seatiln

Il re allora si alzò.
«Si faccia avanti Ytan Seatiln» esclamò.
E Ytan si fece avanti. Era un ragazzo di poco più di vent’anni, alto e magro. In mezzo alla folla non si distingueva neppure.
«Sei tu, Seatiln?» gli domandò il re, incredulo che la sorte avesse deciso che il loro salvatore, il messaggero che avrebbe dovuto salvarli dall’esercito dei morti fosse proprio quel ragazzo così insignificante.
«Sì, lo sono. Sono Ytan Seatiln, il carpentiere.»
Il carpentiere! La folla si mise a brontolare a voce alta. Nessuno, nessuno aveva mai fatto caso a quel ragazzino minuto, che si appendeva ai palazzi come un ragno per riparare finestre, tegole, gradini e cimase.
«E così sia, Ytan il carpentiere – mormorò il re, con il cuore in tumulto – che gli dèi ti siano propizi e che i Silenti non ti trovino. Ora va’ e ritorna glorioso.»
E Ytan, voltate le spalle agli occhi beffardi e increduli degli abitanti, raggiunse la porta principale e uscì da Creekwall. L’ultima cosa che vide voltandosi, dopo aver camminato per un paio di leghe, furono le torri, le Belle, che lo salutarono con un guizzo di luce prima di sparire dietro ad una tozza collinetta color pastello.
Il viaggio di Ytan era appena cominciato.

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