Ecco a voi la terza parte de "La leggenda di Creekwall". Il viaggio di Ytan si fa sempre più difficile mentre si avvicina a Stormcrow, una cittadina buia e nebbiosa. Riuscirà il male a ostacolare il nostro eroe nella sua ricerca? Leggete e lo saprete!
Alvise Brugnolo
Ytan giunse a
Stormcrow mentre il sole, ridotto ad una sfera infuocata, crollava dietro le
colline. Se, in quel momento, il messaggero si fosse trovato a Firehall,
probabilmente avrebbe assistito ad uno dei tramonti più suggestivi da un secolo
a quella parte. Ma si trovava a Stormcrow e lì, a Stormcrow, il tramonto era un
tramonto come tutti gli altri.
Non appena il sole
raggiunse la linea dell’orizzonte e il cielo si tinse di blu scuro, un vento
gelato cominciò a spirare da oltre le colline, silenzioso e come morto; forse
proveniva delle steppe di Xunomor o dalle catene montuose che circondavano
Teuton, ma Ytan aveva la sensazione che crescesse proprio lì, da qualche parte
nei campi giallo-grigio che si stendevano sotto i suoi occhi, in parte confusi
dalla nebbia azzurrina della quale il sole, ormai quasi del tutto sparito, non
era più in grado di contenere l’avanzata. Ecco Stormcrow! Tetti grigi, strade
polverose, alberi ossuti e macilenti, tesi verso il cielo notturno come
coscienze di moribondi.
Ytan arrivò da
nordest e, per prima cosa, vide gli spaventapasseri. Stavano ritti come
condannati, il loro unico piede-bastone infilato nella terra come una lapide
nella terra marcia di un cimitero sconsacrato. Se quelle che avevano al posto
della testa erano state davvero zucche, avevano smesso di esserlo da molto,
molto tempo: sembravano teste vere, teste mostruose, con facce livide,
ringhianti e deformate. Chiunque le avesse scolpite e incise con il coltello
doveva essere un pazzo o un uomo malvagio o tutt’e due.
Dopo essersi
guardato in giro con circospezione, Ytan si fece coraggio ed entrò in città.
Stormcrow non era una brutta cittadina: aveva una piazza principale molto
grande, con una fontana maestosa (raffigurava Sir Gorlock, il fondatore della
città, un soldato serio e arcigno, con due baffoni a becco d’uccello che gli
incorniciavano il volto); aveva lunghi viali alberati ed eleganti case in
legno, con porte di ferro battuto e giardini privati ricchi di piante e fiori
notturni. C’era tuttavia un’atmosfera tesa, una specie di elettricità che si
avvertiva nell’aria, un freddo che si insinuava sottilmente dentro le ossa. Come
se, dietro a tutte quelle belle case, ci fosse un mondo nascosto e pericoloso.
Ytan si chiese se era questo che Igreine
intendeva quando aveva detto di non lasciarsi ingannare dalle astuzie del male.
Poteva essere che a Stormcrow ci abitasse qualcosa di malvagio? Qualcosa di invisibile ma tuttavia presente, nelle ombre
delle strade, nelle profondità del suolo, nel cielo nero e nebuloso?
Su, messaggero, si disse Ytan, non lasciarti spaventare dagli
spaventapasseri! Non sei un corvo.
Lievemente confortato
dalle sue stesse parole, il ragazzo si diresse verso una piccola locanda, la
cui luce, nell’oscurità della cittadina, brillava come un invito. Bussò, apri
la porta, si tolse il fango dagli stivali ed entrò.
La locanda era
davvero accogliente: un ambiente basso, caldo, con travi a vista, mobili in
legno scuro e pentole di rame appese alle pareti. Sull’arco della porta c’era
un rametto di aconito. Il locandiere, un uomo tarchiato e rubicondo, gli venne
incontro con fare affabile. A Ytan piacque subito: aveva un sorriso
accogliente, amichevole. Ne fu conquistato e, se aveva dubitato della bontà di
Stormcrow, quei dubbi si volatilizzarono insieme al profumo di tisana che
saliva da un calderone sospeso sul caminetto.
«Benvenuto a Stormcrow,
straniero – esclamò il locandiere – e benvenuto nella mia umile locanda.»
«Salve, buonuomo. Mi saprebbe
indicare la casa del signore di Stormcrow? So che l’ora non è la più adatta, ma
ho urgenza di parlare con lui. Sono in missione per conto di Creekwall.»
«Il signore di Stormcrow starà
sicuramente dormendo a quest’ora. Riposatevi e trascorrete la notte qui,
abbiamo stanze comodissime. E domani, quando sarà sorto il sole, potrete
parlare con il nostro signore in tutta comodità.»
E Ytan, stanco dal viaggio e
solleticato dalla fragranza della tisana, decise di accettare di buon grado
l’invito. Si sedette ad un tavolo e il locandiere, in un batter d’occhio, gli
aveva già portato una succulenta bistecca di maiale, una zuppa di ortaggi
freschi e una tazza bollente di tisana. Ytan, visto il freddo che gli si era
attaccato alle ossa, si affrettò a berla. Era buonissima, con un retrogusto di
arancia e cannella. Il locandiere, con quel sorriso fisso, continuava a
guardarlo da un angolo del tavolo e nel farlo tamburellava le dita sulla
superficie di legno.
«Buonuomo – gli si rivolse Ytan,
che, nonostante la stanchezza e la fame non si era dimenticato affatto della
sua missione – mi sapete dire se anche Stormcrow è stata colpita, negli ultimi
dieci anni, da una terribile maledizione, la maledizione dei Silenti?»
«Ragazzo caro. Caro ragazzo –
mormorò l’ometto, alzandosi e facendosi avanti – non sono cose di cui un uomo
mortale dovrebbe immischiarsi. Sono cose di magia nera, sì, nera… anzi
nerissima…»
«Lo so bene, ma io sono in
missione per conto di…»
«…Così nera che un semplice
mortale non dovrebbe neppure indagare su queste cose, oh no. La luce non
dovrebbe avventurarsi nei luoghi bui, nelle cantine, nei seminterrati, nelle
valli della morte, oh no, caro ragazzo, hai commesso un grave errore ad
avventurarti nei campi di Stormcrow, soprattutto a quest’ora di notte.»
«Ma che state dicendo?» mormorò
il ragazzo. E, ad un tratto, si accorse che i suoi occhi si facevano sempre più
pesanti, sempre più stanchi e brucianti. Allora capì, capì che non solo la
locanda, ma tutta Stormcrow erano una trappola.
«Che mi hai… dato da… bere?»
sussurrò. Cercò di alzarsi, ma le gambe gli cedettero. Rovesciò il tavolo e
finì a terra, dove le ombre dell’oblio lentamente lo sopraffecero.
L’ultima cosa che vide prima di
addormentarsi fu il viso beffardo e astuto del locandiere, che gli si
avvicinava quatto quatto, come un verme in cerca di un pertugio su una bara.
Quando Ytan si svegliò, si
accorse che tutto si era fatto buio. Un buio denso, un buio fitto, un buio come
se non ci fosse più nulla attorno. C’era tuttavia un suono, come un frullare d’ali,
un gracchiare lontano. Le voci dei corvi. Ytan cercò di parlare e… si rese
conto di avere un becco. Cercò di muovere le braccia ma erano diventate ali. Mandò
un grido ma tutto quello che gli uscì fu uno strillo da uccello. Era un corvo, uno
di quei dannati corvi che volavano in circolo sopra Stormcrow. Aprì gli occhi e
vide sotto di sé i campi del villaggio e, più sotto, gli spaventapasseri coi
loro cappelli, i loro vestiti sdruciti e i loro ghigni sadici. Solo in quel
momento si accorse che erano sistemati in modo da formare una figura
geometrica, una stelle a sette punte: un pentacolo antico, creato per
intrappolare le anime degli abitanti di Stormcrow, tramutati in corvo da chissà
quanti anni o secoli e costretti a volare nella prigione arcana eretta dagli
spaventapasseri.
E Ytan, Ytan si era fatto
intrappolare come un stupido. La sua missione era fallita miseramente ancora prima
di avvicinarsi anche di poco alla sua risoluzione. Ho tradito Creekwall, si disse il ragazzo, avevano riposto le loro speranze in me e io li ho condannati. Preso
dallo sconforto, chiuse gli occhi e tutto attorno si fece buio. Un buio che era
un buio dell’anima.
Fu lì, in quel buio soffocante,
che si ricordò delle parole di Igreine: E,
nel momento in cui tutto sarà buio e il sole sembrerà non essere mai esistito,
ricordati che ti ho dato questo…
Il sole! Il sole di legno! Ytan lo
cercò. Eppure non era lì, non poteva essere lì, perché lui non era più nel suo
corpo ma in quello di un uccellaccio nero che si librava maldestramente attorno
ai cieli di Stormcrow, intrappolato nel pentacolo degli spaventapasseri. Non
poteva no, non poteva avercelo ancora, il sole di Igraine. Eppure… strinse le
zampe. Scoprì che erano diventate mani, erano tornate mani. E quelle mani
tenevano il sole di legno. Capì che la sua anima era intrappolata nel corpo del
corvo ma, nonostante tutto, ancora manteneva un fragile legame con il suo vero
corpo; il corpo di un ragazzo di diciotto anni, occupato in quel momento da una
coscienza estranea che tuttavia si faceva sempre più debole. Sentì che il sole
si scaldava nelle sue mani. Non poteva vedere quanto stava accadendo, certo che
no, ma lo percepiva: era come se una luce sfolgorante si facesse largo nelle
tenebre; le ombre si ritraevano ad essa, fino a condensarsi in un puntolino
minuscolo, impotenti e senza più controllo. Ed ecco che il mondo tornò a farsi
chiaro. Ytan smise di essere un corvo; la sua anima, ancora separata dal corpo,
seguì la luce che si era nel frattempo formata nelle tenebre: era quella del
sole di Igreine. La luce lo precedeva, illuminando le tenebre della
maledizione. E Ytan, mentre camminava in quel tunnel oscuro, si accorse che era
il lungo corridoio di un castello o di una torre. E, nel passare di fronte ad
una porta aperta, vide che, seduta su un vecchio trono di legno, c’era una
mummia, che lo fissava coi suoi occhi svuotati, un sorriso malefico a
incresparle il volto. Era morta, ma allo stesso tempo viva, più viva di molti
altri uomini.
«Resta qui, messaggero – disse
ad un tratto la mummia, artigliando l’aria con le sue dita rattrappite – resta qui
con me nella mia torre. Dimentica l’esercito dei Silenti e resta qui. Per
sempre.»
Allora il messaggero capì che l’artefice
della maledizione di Stormcrow era la principessa che si trovava nella torre di
Mightcastle. Non era davvero una principessa, ma una malvagia strega, chiusa lì
dentro dagli abitanti perché non potesse più nuocere. Con il tempo la leggenda
era andata perduta, della strega nessuno si ricordava più. Eppure lei, nella
morte, aveva acquisito maggior potere. La sua ombra si era stesa fino a toccare
la pacifica cittadina di Stormcrow. Si era impossessata degli spaventapasseri,
li aveva animati con la sua magia nera; lentamente, nelle teste svuotate di
quegli esseri era germogliata un’intelligenza malvagia. Si erano accordati con
la strega: loro si sarebbero accontentati dei corpi degli abitanti, li
avrebbero occupati per poter diventare esseri viventi a tutti gli effetti; a
lei invece sarebbero andate le anime degli uomini, intrappolate nei corvi
perché non potessero fuggire o stabilire un nuovo legame coi loro vecchi corpi.
Ecco il segreto di Stormcrow!
«Non oserai fermarmi – gridò Ytan,
rivolto alla mummia – io sono in missione per Creekwall!»
Allora la mummia si alzò dal
trono e gli venne incontro, un passo alla volta, mentre il suo vestito, vecchio
di secoli, cadeva a pezzi, mostrando la pelle dura come cuoio che vi stava
sotto. Ytan ebbe paura, una paura folle, ma la luce, percependo il suo terrore,
si fece ancora più forte. Un grido si levò allora nel buio della torre; la
mummia cercò di avanzare, ma per ogni passo che compiva un lembo della sue
essenza veniva trascinato via, veniva consumato dalla luce che usciva dal sole
di Igreine. Ridotta ad uno scheletro infuocato, la strega si accartocciò su se
stessa e sparì in un lampo di luce rossa. Nello stesso istante, la torre di
Mightcastle tremò, si fessurò e crollò. L’incantesimo di Stormcrow era sciolto:
i corvi tornarono ad essere corvi, gli spaventapasseri semplici
spaventapasseri, gli uomini di nuovo uomini.
Ytan si risvegliò nel suo corpo.
Si trovava al centro della piazza, all’ombra della statua di Sir Gorlock. Il
sole era appena sorto e la nebbia, se c’era stata, era totalmente scomparsa. La
maledizione della strega, finalmente, era rotta. Ytan si rialzò, fra le mani il
sole di Igreine, che era tornato ad essere un semplice oggetto di legno. O
forse lo era sempre stato?
Che
abbia sognato tutto quanto?
si disse il ragazzo, frastornato. Ma ecco che gli abitanti, i veri abitanti,
uscirono dalle case, ululando di gioia al nuovo giorno.
«Viva lo straniero! – gridavano –
viva il liberatore!»
Si fece avanti il signore di
Stormcrow, un vecchio dall’aria saggia, con lunghi capelli bianchi.
«Quattrocento anni, quattrocento
anni intrappolati qui. E poi sei arrivato tu, straniero. Ci hai ridato la
libertà e ora potremo riprendere le nostre vite dove le avevamo lasciate.»
Ytan chinò la testa in segno di
rispetto. Il vecchio si avvicinò ancora e lo abbracciò.
«Ma questo è un oggetto elfico –
disse, non appena vide il sole di Igreine fra le mani del messaggero – dove lo
hai preso, straniero? Porta impresso il simbolo della casata degli Urundar, gli
elfi del reame oltre Keltar. Una casata scomparsa da almeno un secolo. Dove
l’hai trovato?»
E Ytan, non volendo rivelare l’identità
di Igreine, disse di averlo trovato in un campo lì vicino. Il vecchio, intuendo
i sentimenti del ragazzo, non chiese più nulla.
Il resto del giorno trascorse
all’insegna del divertimento: si fece una gran festa, con spiedi, litri di
birra e canti. Ytan rise e ballò insieme agli altri, ma la sua mente era
occupata dalla missione che doveva compiere. Non aveva molti motivi per gioire,
visto il viaggio che lo attendeva.
Verso sera il messaggero si
congedò e si recò nella stanza che il signore di Stormcrow, che di nome faceva
Guldar, gli aveva preparato nel palazzo. Trovò il vecchio che lo aspettava
seduto nella sala del caminetto.
«Se fossi in te, messaggero,
andrei a trovare gli elfi. Non sono che un’ombra del popolo che erano un tempo,
ma fra loro ci sarà sicuramente chi ti saprà dare un consiglio per la tua
maledizione. Non amano gli stranieri e molto spesso li uccidono, ma tu che
porti il sole degli Urundar avrai più possibilità di avvicinarli.» detto
questo, augurò la buonanotte al suo ospite e sparì. Ytan raggiunse la sua
alcova, spense la candela e si addormentò.
Dormì saporitamente e ripartì
all’alba del giorno successivo, lasciandosi una Stormcrow esultante alle spalle.
Il sole illuminava pigramente la
campagna, trasformando la rugiada mattutina in uno scintillio di cristalli.
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