venerdì 23 gennaio 2015

Ghost Writer - Seconda parte

Ecco a voi la seconda e ultima parte del racconto "Ghost writer". Vi è piaciuto? Preferivate un finale diverso? Commentate qui sotto




Colin mangiò la sua bistecca in silenzio, quella sera, senza avere il coraggio di alzare gli occhi su sua madre. Non gli serviva guardarla negli occhi per sapere che aveva pianto. Il dolore, d’altronde, era ancora fresco.
Era trascorso meno di un anno dal dannato incidente che aveva spazzato via la vita di suo padre. Lui, quel lutto, lo aveva già mezzo superato, perché aveva la scrittura dalla sua parte. Ma sua madre… sua madre ormai non credeva più in niente. Aveva scelto di trasferirsi lì per farsi una nuova vita, ma solo il cielo sapeva quanto era dura. Per merito di sua sorella, la zia di Colin, aveva trovato un lavoro come segretaria in uno studio di avvocati e così, grazie alla vendita della vecchia casa a Boston e l’acquisto di quella nuova a prezzo stracciato, i loro problemi economici erano stati messi all’angolo. Per il resto, ci sarebbe voluto solo più tempo. Forse.
Colin sparecchiò, lavò i piatti nel lavandino, raccolse le briciole con la scopa e buttò fuori la spazzatura. Si fermò a guardare le stelle e si chiese se lassù, da qualche parte, suo padre c’era ancora; e poco importava che fosse uno spirito, uno sbuffo di fumo o un barlume residuale di coscienza, purché esistesse. Quando tornò in casa, scoprì che sua madre si era già addormentata sul divano. Colin la osservò in silenzio.
C’era dei giorni in cui la odiava. Sì, odiava. Era vanesia, pettegola, chiacchierona. Eppure, anche se alcune volte Colin l’avrebbe piantata lì per scapparsene lontano, le voleva bene e niente avrebbe mai cambiato quel fatto. Il legame di affetto tra due persone poteva durare per sempre, o almeno così credeva Colin. E poi…
Tick!
Il ragazzino zittì la sua mente e si mise in ascolto. Aveva sentito distintamente un rumore. Sì, proprio un rumore. Lassù, da qualche parte, oltre le travi del soffitto. Proveniva dalla soffitta, sicuro. Non c’era altra spiegazione.
Si girò verso sua madre, che dormiva pacificamente, almeno all’apparenza, appoggiata con la guancia su uno degli appuntiti braccioli del divano. Avrebbe voluto svegliarla, ma sapeva che non gli avrebbe mai creduto.
Allora, con le gambe che gli tremavano come fossero diventate di gelatina, cominciò a salire la scala che portava al piano superiore. E lì, una volta che fu arrivato sul mezzanino, scorse la porta delle soffitta.
Aperta.
Con una luce che usciva ad illuminare il tappeto.
E un ticchettio appena percettibile oltre il suono monotono delle auto in transito nelle vie del quartiere.
Facendosi coraggio, Colin salì i gradini che lo separavano dalla porta e si infilò nella luce che fluiva dalla stanza oltre la cornice.

Si ritrovò in uno studiolo, rozzo e polveroso. Una scrivania. Due sedie. Pile di libri ammonticchiati ovunque. E, sparsi su tutta la superficie della stanza, una miriade di fogli leggeri, trasparenti, come se fossero a metà tra un altro mondo e il nostro.
Colin ne prese in mano uno. Era freddo e inconsistente, ma conteneva una poesia.

Sì,
straniero son io, figlia del giorno
ma nei miei occhi troverai
quello che da sempre stai cercando
nella nebbia una luce
nel dolore un conforto
nella lotta un sostegno.
Vieni, figlia del giorno, e conosci
Amore.

E fu in quel momento che Colin, alzando gli occhi dal foglio traslucido, vide l’ombra. Era seduta esattamente di fronte a lui, dall’altro lato della scrivania, china sopra una macchina per scrivere; era anch’essa trasparente, come se fosse intangibile. A Colin sfuggì un gemito di paura. L’ombra si bloccò e posò gli occhi su di lui. Gridarono entrambi, spaventati a morte.
«E tu da dove sbuchi?» strillò l’apparizione, alzandosi dalla sedia e gonfiandosi fino a riempire la stanza.
«Ti prego, risparmiami, demone!» piagnucolò Colin, inchinandosi fino a toccare il pavimento con il naso.
«Demone? Oh no, piccolo amico. Non sono quel tipo di ombra. Ti sembro uno di quei jinn malevoli che si nascondono nelle crepe dei seminterrati? E poi siamo in soffitta, no? È un porto franco.»
Colin si mise a sedere, in parte confortato dalla voce dolce di quello spettro.
«Chi sei?» chiese.
«Come chi sono? Sono il proprietario della casa!»
«Vuoi dire… lo scrittore?»
L’ombra rise.
«Già, proprio io. Anzi, lo ero. Adesso sono un fantasma. Un ghost writer. Divertente, non trovi?»
«E cosa ci fai qui?» domandò Colin, alzandosi in piedi e mettendosi a sedere nella sedia vuota.
«Che ci faccio? Scrivo, che altro…»
«E per chi?»
«Oh…» e qui il fantasma si ridusse ad un piccolo figuro rattrappito, un uomo dal naso adunco e dalla fronte spaziosa, con un paio di occhialini alla Cavour e una barba mal rasata.
«Già… hai toccato il tasto dolente. Scrivo per una donna che non posso più avere. Per una donna che ho perduto.»
«E perché?»
«Ooooh! Troppe domande per uno che non parla con un’anima viva da oltre trent’anni. Perché, perché… perché a volte gli uomini sono degli idioti e si lasciano scappare le cose a cui tengono di più. Finché è troppo tardi per tornare indietro.»
«E cioè?»
«Uff… Non sai proprio niente? Un fantasma è costretto a restare nello stesso posto finché non riesce a rimediare ai suoi errori. E puoi immaginare già da te che, ora come ora, non ho alcuna possibilità di incontrarla.»
«Vuoi dire che la tua… ehm ragazza è ancora viva?»
Il fantasma sospirò.
«Sì. Ma tanto non ha importanza. Non ho alcun modo per comunicare con lei, e… Aspetta. Adesso che ci penso… Come fai a vedermi?»
«Io? Non lo so – rispose il ragazzino – Ho sentito solo dei rumori, sono venuto su e ho trovato questa… poesia.»
Il fantasma si mise a fluttuare nell’aria, simile ad un palloncino bucato.
«C-cioè tu… hai preso in mano uno dei miei fogli?»
«Non dovrei?» sussurrò Colin.
«Non potresti! Nessun uomo normale potrebbe. Gli uomini vedono solo quello che sta davanti al loro naso e niente di più. A meno che tu non sia un… collega.»
«Collega?»
«Ma sì: scrittore, poeta, un pazzo saltimbanco delle parole!»
«Be’ sì, mi piace scrivere, adesso che ci penso.»
«Allora è tutto chiaro. Ecco perché hai potuto vedermi. E, visto che ormai sei qui, tu mi aiuterai.»
«Aiutarti?»
 «Già. Sarai il mio tramite con Madeline. Le porterai le mie poesie e gliele leggerai. Così lei capirà, mi perdonerà per i miei silenzi e per il mio suicidio e, quando lascerà il suo corpo, sarò lì ad aspettarla, oltre la cortina di questo mondo.»

E Colin accettò. Per le settimane successive, si recò a trovare Madeline. Era una vecchina silenziosa, ma con gli occhi vispi e un sorriso tutto gengive. Era stata rinchiusa dai nipoti in un ospizio che, per sua fortuna, era migliore di altri, con un chiostro alberato, un giardino punteggiato di aiuole e un laghetto dove dimoravano anatre sonnacchiose. Colin la visitò tutti i giorni e ogni giorno le portava una poesia nuova, scritta dal fantasma durante la notte. Madeline lo ascoltava in silenzio, con gli occhi bassi, sembrava quasi che non ascoltasse. Eppure, quando Colin si rimetteva il foglio “fantasma” in tasca e si apprestava ad uscire, la vecchina gli sorrideva, con gli occhi che le brillavano.
Andò avanti così per due mesi, finché, in un giorno grigio di ottobre, Colin raggiunse l’ospizio, salì le scale e scoprì la camera di Madeline vuota e il letto fatto. Allora capì che la donna aveva compiuto il suo ultimo viaggio, oltre la cortina di cui parlava il fantasma.
Corse trafelato fino a casa, incespicando sulle stringhe delle scarpe. Raggiunse casa sua, si precipitò su per la rampa di scale e si fiondò in soffitta. La trovò vuota, come la stanza di Madeline. C’era solo un piccolo biglietto trasparente, con una sola parola:

Grazie

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