Ecco a voi la seconda e ultima parte del racconto "Ghost writer". Vi è piaciuto? Preferivate un finale diverso? Commentate qui sotto
Colin mangiò la sua bistecca in
silenzio, quella sera, senza avere il coraggio di alzare gli occhi su sua
madre. Non gli serviva guardarla negli occhi per sapere che aveva pianto. Il
dolore, d’altronde, era ancora fresco.
Era trascorso meno di un anno
dal dannato incidente che aveva spazzato via la vita di suo padre. Lui, quel
lutto, lo aveva già mezzo superato, perché aveva la scrittura dalla sua parte.
Ma sua madre… sua madre ormai non credeva più in niente. Aveva scelto di
trasferirsi lì per farsi una nuova vita, ma solo il cielo sapeva quanto era
dura. Per merito di sua sorella, la zia di Colin, aveva trovato un lavoro come
segretaria in uno studio di avvocati e così, grazie alla vendita della vecchia
casa a Boston e l’acquisto di quella nuova a prezzo stracciato, i loro problemi
economici erano stati messi all’angolo. Per il resto, ci sarebbe voluto solo
più tempo. Forse.
Colin sparecchiò, lavò i piatti
nel lavandino, raccolse le briciole con la scopa e buttò fuori la spazzatura.
Si fermò a guardare le stelle e si chiese se lassù, da qualche parte, suo padre
c’era ancora; e poco importava che fosse uno spirito, uno sbuffo di fumo o un
barlume residuale di coscienza, purché esistesse. Quando tornò in casa, scoprì
che sua madre si era già addormentata sul divano. Colin la osservò in silenzio.
C’era dei giorni in cui la
odiava. Sì, odiava. Era vanesia, pettegola, chiacchierona. Eppure, anche se
alcune volte Colin l’avrebbe piantata lì per scapparsene lontano, le voleva
bene e niente avrebbe mai cambiato quel fatto. Il legame di affetto tra due
persone poteva durare per sempre, o almeno così credeva Colin. E poi…
… Tick!
Il ragazzino zittì la sua mente
e si mise in ascolto. Aveva sentito distintamente un rumore. Sì, proprio un
rumore. Lassù, da qualche parte, oltre le travi del soffitto. Proveniva dalla
soffitta, sicuro. Non c’era altra
spiegazione.
Si girò verso sua madre, che
dormiva pacificamente, almeno all’apparenza, appoggiata con la guancia su uno
degli appuntiti braccioli del divano. Avrebbe voluto svegliarla, ma sapeva che
non gli avrebbe mai creduto.
Allora, con le gambe che gli
tremavano come fossero diventate di gelatina, cominciò a salire la scala che
portava al piano superiore. E lì, una volta che fu arrivato sul mezzanino,
scorse la porta delle soffitta.
Aperta.
Con una luce che usciva ad
illuminare il tappeto.
E un ticchettio appena
percettibile oltre il suono monotono delle auto in transito nelle vie del
quartiere.
Facendosi coraggio, Colin salì i
gradini che lo separavano dalla porta e si infilò nella luce che fluiva dalla
stanza oltre la cornice.
Si ritrovò in uno studiolo,
rozzo e polveroso. Una scrivania. Due sedie. Pile di libri ammonticchiati
ovunque. E, sparsi su tutta la superficie della stanza, una miriade di fogli
leggeri, trasparenti, come se fossero a metà tra un altro mondo e il nostro.
Colin ne prese in mano uno. Era
freddo e inconsistente, ma conteneva una poesia.
Sì,
straniero
son io, figlia del giorno
ma
nei miei occhi troverai
quello
che da sempre stai cercando
nella
nebbia una luce
nel
dolore un conforto
nella
lotta un sostegno.
Vieni,
figlia del giorno, e conosci
Amore.
E fu in quel momento che Colin,
alzando gli occhi dal foglio traslucido, vide l’ombra. Era seduta esattamente
di fronte a lui, dall’altro lato della scrivania, china sopra una macchina per
scrivere; era anch’essa trasparente, come se fosse intangibile. A Colin sfuggì
un gemito di paura. L’ombra si bloccò e posò gli occhi su di lui. Gridarono
entrambi, spaventati a morte.
«E tu da dove sbuchi?» strillò
l’apparizione, alzandosi dalla sedia e gonfiandosi fino a riempire la stanza.
«Ti prego, risparmiami, demone!»
piagnucolò Colin, inchinandosi fino a toccare il pavimento con il naso.
«Demone? Oh no, piccolo amico.
Non sono quel tipo di ombra. Ti sembro uno di quei jinn malevoli che si
nascondono nelle crepe dei seminterrati? E poi siamo in soffitta, no? È un
porto franco.»
Colin si mise a sedere, in parte
confortato dalla voce dolce di quello spettro.
«Chi sei?» chiese.
«Come chi sono? Sono il
proprietario della casa!»
«Vuoi dire… lo scrittore?»
L’ombra rise.
«Già, proprio io. Anzi, lo ero.
Adesso sono un fantasma. Un ghost writer. Divertente, non trovi?»
«E cosa ci fai qui?» domandò
Colin, alzandosi in piedi e mettendosi a sedere nella sedia vuota.
«Che ci faccio? Scrivo, che
altro…»
«E per chi?»
«Oh…» e qui il fantasma si
ridusse ad un piccolo figuro rattrappito, un uomo dal naso adunco e dalla
fronte spaziosa, con un paio di occhialini alla Cavour e una barba mal rasata.
«Già… hai toccato il tasto
dolente. Scrivo per una donna che non posso più avere. Per una donna che ho
perduto.»
«E perché?»
«Ooooh! Troppe domande per uno
che non parla con un’anima viva da oltre trent’anni. Perché, perché… perché a
volte gli uomini sono degli idioti e si lasciano scappare le cose a cui tengono
di più. Finché è troppo tardi per tornare indietro.»
«E cioè?»
«Uff… Non sai proprio niente? Un
fantasma è costretto a restare nello stesso posto finché non riesce a rimediare
ai suoi errori. E puoi immaginare già da te che, ora come ora, non ho alcuna
possibilità di incontrarla.»
«Vuoi dire che la tua… ehm
ragazza è ancora viva?»
Il fantasma sospirò.
«Sì. Ma tanto non ha importanza.
Non ho alcun modo per comunicare con lei, e… Aspetta. Adesso che ci penso… Come
fai a vedermi?»
«Io? Non lo so – rispose il
ragazzino – Ho sentito solo dei rumori, sono venuto su e ho trovato questa…
poesia.»
Il fantasma si mise a fluttuare
nell’aria, simile ad un palloncino bucato.
«C-cioè tu… hai preso in mano
uno dei miei fogli?»
«Non dovrei?» sussurrò Colin.
«Non potresti! Nessun uomo
normale potrebbe. Gli uomini vedono solo quello che sta davanti al loro naso e
niente di più. A meno che tu non sia un… collega.»
«Collega?»
«Ma sì: scrittore, poeta, un
pazzo saltimbanco delle parole!»
«Be’ sì, mi piace scrivere,
adesso che ci penso.»
«Allora è tutto chiaro. Ecco
perché hai potuto vedermi. E, visto che ormai sei qui, tu mi aiuterai.»
«Aiutarti?»
«Già. Sarai il mio tramite con Madeline. Le
porterai le mie poesie e gliele leggerai. Così lei capirà, mi perdonerà per i
miei silenzi e per il mio suicidio e, quando lascerà il suo corpo, sarò lì ad
aspettarla, oltre la cortina di questo mondo.»
E Colin accettò. Per le
settimane successive, si recò a trovare Madeline. Era una vecchina silenziosa,
ma con gli occhi vispi e un sorriso tutto gengive. Era stata rinchiusa dai
nipoti in un ospizio che, per sua fortuna, era migliore di altri, con un
chiostro alberato, un giardino punteggiato di aiuole e un laghetto dove
dimoravano anatre sonnacchiose. Colin la visitò tutti i giorni e ogni giorno le
portava una poesia nuova, scritta dal fantasma durante la notte. Madeline lo
ascoltava in silenzio, con gli occhi bassi, sembrava quasi che non ascoltasse.
Eppure, quando Colin si rimetteva il foglio “fantasma” in tasca e si apprestava
ad uscire, la vecchina gli sorrideva, con gli occhi che le brillavano.
Andò avanti così per due mesi,
finché, in un giorno grigio di ottobre, Colin raggiunse l’ospizio, salì le
scale e scoprì la camera di Madeline vuota e il letto fatto. Allora capì che la
donna aveva compiuto il suo ultimo viaggio, oltre la cortina di cui parlava il
fantasma.
Corse trafelato fino a casa,
incespicando sulle stringhe delle scarpe. Raggiunse casa sua, si precipitò su
per la rampa di scale e si fiondò in soffitta. La trovò vuota, come la stanza
di Madeline. C’era solo un piccolo biglietto trasparente, con una sola parola:
Grazie.
Nessun commento:
Posta un commento