Rieccomi qui! Scusate per la lunga assenza, ma la sessione invernale degli esami mi ha occupato parecchio tempo. Fortunatamente, sono riuscito a scrivere la prima parte di questo racconto fantastico. Spero vi piacerà.
Buona lettura
La signora Miller
entrò nella vecchia casa gesticolando. Era una donna di mezza età, energica e
prorompente, con una maglia aderente che le imbellettava il seno generoso. Con
voce roca, segno che si era fumata un intero pacchetto di sigarette prima di
arrivare lì, si mise ad illustrare i punti forti della casa. Portò i potenziali
compratori a visitare il soggiorno, una stanza quadrata piuttosto vetusta, con
carta da parati verde scuro arricchita da chiazze arancioni di muffa. Mostrò
loro la cucina, che a vecchiezza concorreva con il resto della casa; pentole in
rame erano appese alla cappa del camino, insulsi quadri di gatti spiccavano qua
e là, sui muri color topo, e un forno in maiolica grigia faceva bella mostra di
sé, fra un frigo bombato e un mobile di mogano divorato dai tarli. Sembravano
usciti tutti da un film muto di Fritz Lang. Poi fu il turno delle camere da
letto e dei bagni, i quali non riservarono di certo sorprese, tranne un
solitario scarafaggio, che scivolava sulla tazza del gabinetto, e una cimice,
che passeggiava allegramente su di una coperta a patchwork imbevuta di
naftalina.
La signora Miller,
in quella visita frettolosa, non fece altro che parlare e parlare. La sua
bocca, sottolineata da un rossetto dal colore volgare, un magenta carico che
riportava alla mente serate passate a scommettere al casinò o all’ippodromo,
non la smetteva più di aprirsi e chiudersi, e le sue labbra sembravano quelle
di un millenario pesce abissale, intento a criticare aspramente il pescatore
che lo aveva preso all’amo e caricato sul pavimento umido di un peschereccio.
Colin la osservava
in tralice. Dio, quanto assomigliava a sua madre! E, non a caso, sua madre le
pendeva dalle labbra e assentiva ad ogni sua parola, annuendo convinta, la
testa che le scivolava all’indietro per il peso del suo vistoso chignon.
«Come vede – stava dicendo in
quel momento la donna – la casa è vecchia, ma è solida. Se non ci credete,
sentite i muri! – e li percosse con le nocche ossute – Sentito? Non sono certo
i muri di una casa moderna, nossignore. Avete udito il suono che producono? –
imitò il knok knok con le labbra a “o” – sta a significare fiducia, amore,
responsabilità. È una casa importante. Che ne dite?»
«Dico che la prendiamo subito –
rispose la mamma di Colin, meritandosi un’occhiata raggelante del figlio – la
casa mi piace. Ha, diciamo, quella patina antica che ti riscalda il cuore. E
poi la posizione è ottima. Raggiungerò il nuovo ufficio in un batter d’occhio.»
«Lei sì che si intende di
affari…» gnaulò la signora Miller, con fare adulante, passandole i documenti da
firmare. La mamma di Colin, fatta scattare una dozzinale penna da supermercato,
vi appose una firma arabeggiante: Miranda
Goldman.
«Mi tolga una curiosità – disse
Miranda, non appena ebbe riconsegnato il foglio fra le mani avide della signora
Miller – come mai il prezzo è così basso? Voglio dire, sarà pure una casa
vecchia ma ha tutto al suo posto e per arrivare al centro ci vogliono solo
quindici minuti a piedi.»
La signora Miller ridacchiò
nervosamente.
«Oh, be’. Visto che ormai il contratto è firmato, posso
anche svelarle l’arcano. Una trentina di anni fa, suppergiù, qui ci abitava uno
scrittore squattrinato. Era un tipo tetro, solitario. Una bestia, a quanto
dicevano, con due occhi neri come carbone. Be’ finì che l’uomo si tolse la
vita. Nella soffitta di questa casa…»
«Intende dire quella porta
chiusa che non ha avuto il coraggio di aprire?» si intromise Colin, quattordici
anni appena compiuti, sorriso sfrontato, guance piene di lentiggini, cappello
col frontino a rovescio, edizione tascabile di Ventimila leghe sotto i mari infilata sotto l’ascella sinistra.
«Shhh… lascia parlare i grandi.»
lo zittì acidamente sua madre.
«Oh be’, sì. Proprio quella soffitta. E sa come funziona la
testa della gente: la voce si è sparsa e nessuno dei dintorni ha più voluto
visitarla né sentirne parlare… Oh, c’è
morta una persona qui dentro, non voglio neppure entrarci. Che assurdità,
credere ai fantasmi al giorno d’oggi! E poi è arrivata lei, cara signora…
signora Goldman. Lo sapevo che uno
straniero avrebbe avuto più sale in zucca di questi, questi... provinciali.»
Miranda sorrise debolmente, ma
si vedeva che avrebbe voluto schiaffeggiare la donna in piena faccia.
«È ora che vada, adesso. Vi
lascio nella vostra nuova casa.»
La signora Miller si alzò, si
spolverò il vestito, strinse la mano di Miranda con leziosità, diede un
buffetto alquanto inopportuno sulla testa di Colin (il ragazzino ringhiò, dal
momento che il suo prezioso cappello fu quasi sul punto di cadere), prese la
borsa che aveva momentaneamente appeso al pomello di una sedia e uscì trafelata
dalla casa, come se non volesse restarci un secondo di più. Non appena la porta
fu richiusa (con una dose eccessiva di veemenza) uno dei quadri tristi del
soggiorno si staccò dal chiodo e si infranse sul pavimento, schizzando ovunque
frammenti di vetro. Sia Colin che la donna sussultarono. Si cominciava bene!
Gli occhi di Miranda mandavano
lampi.
«Che strega! Non poteva dircelo
subito del… suicida? Perché proprio a me? A me che ho così paura dei fantasmi e
degli spettri!»
«Io te l’avevo detto che questa
casa era una fregatura – sbadigliò Colin – ma tu non mi hai voluto ascoltare,
come al solito.»
«Fila a lavarti le mani, tu!» lo
interruppe Miranda, e Colin, temendo qualche punizione, corse immediatamente
nel bagno. Prima di lavarsi le mani, ovviamente, si premunì di schiacciare lo
scarafaggio, il cui carapace si fessurò con un kruunk tutt’altro che invitante. Sulla tavoletta color miele si
condensarono grumi di “succo di insetto”, come lo chiamava Colin. Rabbrividendo
dal disgusto, il ragazzino corse a lavarsi le mani; c’era ancora del sapone, ma
era così duro che doveva trovarsi lì da anni. Chissà, forse apparteneva allo
scrittore… magari lo aveva usato pochi minuti prima di ammazzarsi. Già… chissà
come si era ucciso? Impiccandosi alle travi della soffitta, tagliandosi le vene
o bevendo una dose da cavallo di veleno per scarafaggi?
Rabbrividendo ancora più forte,
Colin scese giù per le scale di corsa, con la sensazione che qualcosa lo inseguisse, come uno
spiffero di aria gelata. Eppure era agosto, e fuori faceva un caldo infernale.
Il resto della giornata
trascorse nell’immobilità più assoluta. Il vicinato era composto perlopiù da
vecchietti, che passavano i loro pomeriggi spaparanzati su sedie a sdraio a
righe, bisticciando fra loro, giocando a ramino o spiando il viavai dei
“giovanotti” che sfilavano coi loro skate ruggenti per i marciapiedi e gli
steccati del quartiere. Colin, immerso fino al collo nelle siepi che contornavano
la veranda (il giardino non veniva potato da mesi), ebbe tutto il tempo di
finire il suo libro e passare a un altro: La
storia infinita. Lo lesse con soddisfazione, sorseggiando una limonata
ghiacciata. Adorava leggere e trovava che, se i suoi coetanei avessero passato
più tempo sui libri, forse ci si sarebbe rispettati tutti quanti, senza stare a
guardare le differenze sociali, i difetti fisici, la lingua o il colore della
pelle. Perché leggere significava entrare nel cuore degli uomini, comprendere
le diversità e imparare a conviverci. Leggere era qualcosa che ti dava la
carica, che alimentava la speranza in un mondo migliore. E scrivere era ancora
meglio. Colin ogni tanto scriveva e si sentiva davvero bene: ogni parola, ogni
riga, era un passo giù, nel profondo di se stesso, dove era buio e dove l’unica
luce era quella della fantasia. Eppure il signore che abitava in quella casa…
La scrittura non lo aveva salvato.
Ingoiando l’ultima goccia
rinfrescante di limonata, Colin alzò lo sguardo verso la soffitta. C’era
un’unica finestra, come un oblò, che sovrastava il piccolo cinereo giardino. E
fu lì che, in parte confusa dietro il vetro appannato e impolverato della
finestra, Colin vide una faccia. Era il viso di un uomo. Due occhi neri, una
barba lunga, una bocca sottile, stirata verso giù, come se fosse la maschera di
una tragedia greca. Colin balzò in piedi, gridando a squarciagola. Il bicchiere
della limonata cadde sul legno usurato della veranda, risuonando con uno
scoppio.
Miranda uscì di corsa, incespicando
negli infradito. Nella corsa lo chignon le si era sciolto e i suoi capelli nero
ebano svolazzavano nell’aria, come immersi in una corrente marina invisibile.
«COLIN! Che sta succedendo?»
«Mamma… lì… sulla finestra… il
fantasma.»
Ma nel tempo che la donna ci
mise a raggiungere il punto della veranda da cui Colin aveva visto la sagoma,
il volto era scomparso. Era rimasto tuttavia un alone, come un ritratto
fotografico sbiadito dallo sgocciolare degli anni. Miranda sospirò e alzò gli
occhi al cielo.
«Ma che fantasma e fantasma! Non
vedi che è solo una macchia sulla finestra?»
«Ma no, mamma! Te lo giuro! So
quello che ho visto!» ribatté lui, diventando tutto paonazzo per la rabbia.
«Colin Goldman! Comportati da
uomo! Se tuo padre fosse qui…» ma Miranda non finì la frase. La voce le mancò e
dovette tornare in casa per non scoppiare in lacrime davanti ai vicini, i
quali, allungando il collo oltre la siepe, si erano messi a osservarli senza
provare rimorso o vergogna, masticando tabacco e sputandolo tra le foglie del
giardino.
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