mercoledì 21 gennaio 2015

Ghost Writer - Prima parte

Rieccomi qui! Scusate per la lunga assenza, ma la sessione invernale degli esami mi ha occupato parecchio tempo. Fortunatamente, sono riuscito a scrivere la prima parte di questo racconto fantastico. Spero vi piacerà.
Buona lettura





La signora Miller entrò nella vecchia casa gesticolando. Era una donna di mezza età, energica e prorompente, con una maglia aderente che le imbellettava il seno generoso. Con voce roca, segno che si era fumata un intero pacchetto di sigarette prima di arrivare lì, si mise ad illustrare i punti forti della casa. Portò i potenziali compratori a visitare il soggiorno, una stanza quadrata piuttosto vetusta, con carta da parati verde scuro arricchita da chiazze arancioni di muffa. Mostrò loro la cucina, che a vecchiezza concorreva con il resto della casa; pentole in rame erano appese alla cappa del camino, insulsi quadri di gatti spiccavano qua e là, sui muri color topo, e un forno in maiolica grigia faceva bella mostra di sé, fra un frigo bombato e un mobile di mogano divorato dai tarli. Sembravano usciti tutti da un film muto di Fritz Lang. Poi fu il turno delle camere da letto e dei bagni, i quali non riservarono di certo sorprese, tranne un solitario scarafaggio, che scivolava sulla tazza del gabinetto, e una cimice, che passeggiava allegramente su di una coperta a patchwork imbevuta di naftalina.
La signora Miller, in quella visita frettolosa, non fece altro che parlare e parlare. La sua bocca, sottolineata da un rossetto dal colore volgare, un magenta carico che riportava alla mente serate passate a scommettere al casinò o all’ippodromo, non la smetteva più di aprirsi e chiudersi, e le sue labbra sembravano quelle di un millenario pesce abissale, intento a criticare aspramente il pescatore che lo aveva preso all’amo e caricato sul pavimento umido di un peschereccio.
Colin la osservava in tralice. Dio, quanto assomigliava a sua madre! E, non a caso, sua madre le pendeva dalle labbra e assentiva ad ogni sua parola, annuendo convinta, la testa che le scivolava all’indietro per il peso del suo vistoso chignon.
«Come vede – stava dicendo in quel momento la donna – la casa è vecchia, ma è solida. Se non ci credete, sentite i muri! – e li percosse con le nocche ossute – Sentito? Non sono certo i muri di una casa moderna, nossignore. Avete udito il suono che producono? – imitò il knok knok con le labbra a “o” – sta a significare fiducia, amore, responsabilità. È una casa importante. Che ne dite?»
«Dico che la prendiamo subito – rispose la mamma di Colin, meritandosi un’occhiata raggelante del figlio – la casa mi piace. Ha, diciamo, quella patina antica che ti riscalda il cuore. E poi la posizione è ottima. Raggiungerò il nuovo ufficio in un batter d’occhio.»
«Lei sì che si intende di affari…» gnaulò la signora Miller, con fare adulante, passandole i documenti da firmare. La mamma di Colin, fatta scattare una dozzinale penna da supermercato, vi appose una firma arabeggiante: Miranda Goldman.
«Mi tolga una curiosità – disse Miranda, non appena ebbe riconsegnato il foglio fra le mani avide della signora Miller – come mai il prezzo è così basso? Voglio dire, sarà pure una casa vecchia ma ha tutto al suo posto e per arrivare al centro ci vogliono solo quindici minuti a piedi.»
La signora Miller ridacchiò nervosamente.
«Oh, be’. Visto che ormai il contratto è firmato, posso anche svelarle l’arcano. Una trentina di anni fa, suppergiù, qui ci abitava uno scrittore squattrinato. Era un tipo tetro, solitario. Una bestia, a quanto dicevano, con due occhi neri come carbone. Be’ finì che l’uomo si tolse la vita. Nella soffitta di questa casa…»
«Intende dire quella porta chiusa che non ha avuto il coraggio di aprire?» si intromise Colin, quattordici anni appena compiuti, sorriso sfrontato, guance piene di lentiggini, cappello col frontino a rovescio, edizione tascabile di Ventimila leghe sotto i mari infilata sotto l’ascella sinistra.
«Shhh… lascia parlare i grandi.» lo zittì acidamente sua madre.
«Oh be’, sì. Proprio quella soffitta. E sa come funziona la testa della gente: la voce si è sparsa e nessuno dei dintorni ha più voluto visitarla né sentirne parlare… Oh, c’è morta una persona qui dentro, non voglio neppure entrarci. Che assurdità, credere ai fantasmi al giorno d’oggi! E poi è arrivata lei, cara signora… signora Goldman. Lo sapevo che uno straniero avrebbe avuto più sale in zucca di questi, questi... provinciali.»
Miranda sorrise debolmente, ma si vedeva che avrebbe voluto schiaffeggiare la donna in piena faccia.
«È ora che vada, adesso. Vi lascio nella vostra nuova casa.»
La signora Miller si alzò, si spolverò il vestito, strinse la mano di Miranda con leziosità, diede un buffetto alquanto inopportuno sulla testa di Colin (il ragazzino ringhiò, dal momento che il suo prezioso cappello fu quasi sul punto di cadere), prese la borsa che aveva momentaneamente appeso al pomello di una sedia e uscì trafelata dalla casa, come se non volesse restarci un secondo di più. Non appena la porta fu richiusa (con una dose eccessiva di veemenza) uno dei quadri tristi del soggiorno si staccò dal chiodo e si infranse sul pavimento, schizzando ovunque frammenti di vetro. Sia Colin che la donna sussultarono. Si cominciava bene!
Gli occhi di Miranda mandavano lampi.
«Che strega! Non poteva dircelo subito del… suicida? Perché proprio a me? A me che ho così paura dei fantasmi e degli spettri!»
«Io te l’avevo detto che questa casa era una fregatura – sbadigliò Colin – ma tu non mi hai voluto ascoltare, come al solito.»
«Fila a lavarti le mani, tu!» lo interruppe Miranda, e Colin, temendo qualche punizione, corse immediatamente nel bagno. Prima di lavarsi le mani, ovviamente, si premunì di schiacciare lo scarafaggio, il cui carapace si fessurò con un kruunk tutt’altro che invitante. Sulla tavoletta color miele si condensarono grumi di “succo di insetto”, come lo chiamava Colin. Rabbrividendo dal disgusto, il ragazzino corse a lavarsi le mani; c’era ancora del sapone, ma era così duro che doveva trovarsi lì da anni. Chissà, forse apparteneva allo scrittore… magari lo aveva usato pochi minuti prima di ammazzarsi. Già… chissà come si era ucciso? Impiccandosi alle travi della soffitta, tagliandosi le vene o bevendo una dose da cavallo di veleno per scarafaggi?
Rabbrividendo ancora più forte, Colin scese giù per le scale di corsa, con la sensazione che qualcosa lo inseguisse, come uno spiffero di aria gelata. Eppure era agosto, e fuori faceva un caldo infernale.

Il resto della giornata trascorse nell’immobilità più assoluta. Il vicinato era composto perlopiù da vecchietti, che passavano i loro pomeriggi spaparanzati su sedie a sdraio a righe, bisticciando fra loro, giocando a ramino o spiando il viavai dei “giovanotti” che sfilavano coi loro skate ruggenti per i marciapiedi e gli steccati del quartiere. Colin, immerso fino al collo nelle siepi che contornavano la veranda (il giardino non veniva potato da mesi), ebbe tutto il tempo di finire il suo libro e passare a un altro: La storia infinita. Lo lesse con soddisfazione, sorseggiando una limonata ghiacciata. Adorava leggere e trovava che, se i suoi coetanei avessero passato più tempo sui libri, forse ci si sarebbe rispettati tutti quanti, senza stare a guardare le differenze sociali, i difetti fisici, la lingua o il colore della pelle. Perché leggere significava entrare nel cuore degli uomini, comprendere le diversità e imparare a conviverci. Leggere era qualcosa che ti dava la carica, che alimentava la speranza in un mondo migliore. E scrivere era ancora meglio. Colin ogni tanto scriveva e si sentiva davvero bene: ogni parola, ogni riga, era un passo giù, nel profondo di se stesso, dove era buio e dove l’unica luce era quella della fantasia. Eppure il signore che abitava in quella casa… La scrittura non lo aveva salvato.
Ingoiando l’ultima goccia rinfrescante di limonata, Colin alzò lo sguardo verso la soffitta. C’era un’unica finestra, come un oblò, che sovrastava il piccolo cinereo giardino. E fu lì che, in parte confusa dietro il vetro appannato e impolverato della finestra, Colin vide una faccia. Era il viso di un uomo. Due occhi neri, una barba lunga, una bocca sottile, stirata verso giù, come se fosse la maschera di una tragedia greca. Colin balzò in piedi, gridando a squarciagola. Il bicchiere della limonata cadde sul legno usurato della veranda, risuonando con uno scoppio.
Miranda uscì di corsa, incespicando negli infradito. Nella corsa lo chignon le si era sciolto e i suoi capelli nero ebano svolazzavano nell’aria, come immersi in una corrente marina invisibile.
«COLIN! Che sta succedendo?»
«Mamma… lì… sulla finestra… il fantasma.»
Ma nel tempo che la donna ci mise a raggiungere il punto della veranda da cui Colin aveva visto la sagoma, il volto era scomparso. Era rimasto tuttavia un alone, come un ritratto fotografico sbiadito dallo sgocciolare degli anni. Miranda sospirò e alzò gli occhi al cielo.
«Ma che fantasma e fantasma! Non vedi che è solo una macchia sulla finestra?»
«Ma no, mamma! Te lo giuro! So quello che ho visto!» ribatté lui, diventando tutto paonazzo per la rabbia.

«Colin Goldman! Comportati da uomo! Se tuo padre fosse qui…» ma Miranda non finì la frase. La voce le mancò e dovette tornare in casa per non scoppiare in lacrime davanti ai vicini, i quali, allungando il collo oltre la siepe, si erano messi a osservarli senza provare rimorso o vergogna, masticando tabacco e sputandolo tra le foglie del giardino.

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