lunedì 26 gennaio 2015

L'ombra

Un vecchio racconto horror che mi sono sempre dimenticato di postare sul blog. Buona lettura... da brivido.



Kaspar si svegliò con il cuore in gola e con la sensazione che da qualche parte fosse successo qualcosa di terribile, qualcosa che aveva a che fare con lui. Si alzò sui gomiti e si guardò attorno. L’appartamento era immerso nelle tenebre, un bolo di oscurità che nemmeno la luce del lampione, che si insinuava soffusa dallo spiraglio della finestra, riusciva minimamente a scalfire.
L’uomo girò lentamente la testa verso il comodino, mentre i suoi occhi faticavano a mettere a fuoco le cifre verdastre dell’orologio digitale. Era notte fonda e, nell’assopimento del risveglio, Kaspar riuscì quasi a percepire fisicamente quanto profonda essa fosse: era come un pozzo senza fine, dalle cui viscere provenivano sussurri di anime perdute nel buio, che supplicavano e si arrampicavano con le unghie e con i denti per raggiungere il mondo in superfice. Kaspar si immaginò di essere una di quelle anime in pena, la schiena piegata e molle come quella di un verme, allora rabbrividì e allungò ansiosamente la mano verso il pulsante dell’abat-jour che se ne stava sola soletta sul ripiano freddo del comodino. La lampadina si accese con un fioco singulto, mentre un’aureola color oro rischiarava gli oggetti della stanza: un armadio di finto legno, una libreria mezza vuota, una poltrona di pelle usurata e una scrivania angolare coperta di giornali, riviste pornografiche e bollette non ancora pagate. Era la classica camera di un uomo abituato a vivere da solo.
Kaspar tossì nervosamente. C’erano ancora troppe ombre perché il suo cuore si potesse calmare. Si sedette sul bordo del letto, con i piedi nudi incollati al gelo del pavimento, la testa bassa e le mani infilate fra i capelli grigio cenere, stopposi come fili di rafia. E in quella posizione, nonostante la paura immotivata che lo attanagliava, si addormentò nuovamente, anche se il suo non poteva affatto definirsi un sonno tranquillo. Mille ombre gli balenavano nella mente. Ombre di bambine.
Era ancora nello strato più profondo dei sogni quando il telefono squillò. Il gracchiare della cornetta riportò la sua coscienza nel mondo reale, ma lo fece così in fretta che Kaspar si ritrovò in piedi, sbavante per il terrore, mentre il suo cuore malato gli urlava nel petto, scosso dall’aritmia della paura.
«P-pronto?» mormorò l’uomo, dopo aver camminato (fluttuato) attraverso il corridoio, afferrato la cornetta e accostato il ricevitore all’orecchio.
«Parlo con il signor Kaspar Williams?» la voce era piatta, meccanica, come stiracchiata. Era senza dubbio quella di un poliziotto o di un pompiere, uomini che lavoravano di notte e che sognavano di essere altrove, magari in un letto caldo, fra le braccia della propria moglie o della propria amante.
«Sono io.» rispose Kaspar con un tremito. La voce dall’altro capo del telefono si prese del tempo per ponderare, poi ricominciò, implacabile:
«Si tratta di sua figlia Elsa. Ha avuto un incidente... È… morta in ospedale, una decina di minuti fa.»
«Elsa? Morta?»
Il cuore di Kaspar ebbe un doloroso sussulto. Elsa, la figlia che non vedeva da venticinque anni. La figlia che era scappata via di casa in seguito a quel… quel… incidente. Perché era di quello che si stava parlando, no? Di un incidente. Si costrinse ad annuire. Sono cose che capitano a tutti i padri quando amano troppo le loro bambine, non è vero? Le mani di Kaspar cominciarono a tremare vistosamente, mentre gocce di sudore gli colarono lungo la fronte, illuminate dalla fievole luce del corridoio. I ricordi che gli passarono nella mente in quel breve istante erano mostruosi, ma sotto sotto li considerava… piacevoli.
«È ancora lì, signor Williams? – continuò la voce – Si sente bene?»
«Io… s-sì sto bene. La ringrazio per aver chiamato. Io… Ho s-solo bisogno di t-tempo per metabolizzare la notizia.»
«Le auguro una buon
Kaspar troncò la comunicazione prima ancora che l’altro avesse finito di parlare. Tornò nel letto, il volto terreo di un moribondo, e vi si infilò dentro, tirandosi le coperte fin quasi agli occhi.
Elsa.
Era davvero molto tempo che non pensava più a sua figlia. Troppo tempo. E come avrebbe potuto pensare a lei? In venticinque anni si cambia, si cambia troppo, e lui ormai non aveva alcun volto a cui agganciare il proprio pensiero. Poteva ricordare soltanto come era prima che scappasse di casa… E questo gli bastava. Oh sì, se gli bastava.
Kaspar cominciò a respirare piano, mentre la sua mente gli forniva l’immagine più dettagliata possibile di Elsa. Elsa tredicenne, stretta in un adorabile vestitino da bambina-fata. Eppure il suo corpo non era più quello di una bambina. Ormai era quello di una donna, esile, flessuoso, pieno di curve che ti irretivano gli occhi, costringendoti a guardare. Ma presto guardare non ti bastava più, oh no. Ti veniva voglia di toccare. Di assaggiare. E Kaspar aveva toccato e assaggiato, più e più volte, fino a quel dannato incidente. Era un incidente molto ben premeditato. Aveva atteso un giorno in cui sua moglie non c’era (il sabato sera usciva per prendere un tè con le amiche e tornava solo a notte inoltrata). Casualmente quel giorno anche i vicini non erano in casa, ma su un aereo diretto a Barcellona per una settimana di vacanza fra spiagge, monumenti e tapas. Rimasto solo con Elsa, Kaspar le era saltato addosso, le aveva strappato i vestiti e l’aveva bloccata sul tavolo con la propria, enorme forza paterna. Stava andando tutto dannatamente bene, ma poi lei si era divincolata sul più bello ed era scappata via. Lui le era corso dietro, con gli occhi arrossati dal desiderio, animale mostruoso disposto a tutto pur di soddisfare i propri istinti bestiali. Avevano corso per chilometri, fra giardini privati, strade ingombre di traffico e sottopassaggi ferroviari senza che nessuno si accorgesse di loro due o di quanto Elsa fosse terrorizzata e vicina al crollo. Poi lei era salita su un autobus che era partito sferragliando, e da quel giorno suo padre non l’aveva più rivista.
Ora, in quella notte cupa di venticinque anni dopo, Kaspar la sentì distante da lui, come se Elsa fosse morta da molto, molto più tempo. Era morta nella sua mente, però, ma non nel suo corpo, perché l’unica cosa che conservava ancora di sua figlia era una terribile ma quanto mai potente sensazione di piacere. Un piacere proibito, ma proprio per questo abnormemente soddisfacente.
Si rese conto di aver bisogno di buio per ricordare; aveva bisogno del buio del mondo per ripensare a lei, al suo meraviglioso corpo da adolescente, stretto in quel vestito da bambina-fata. La mano di Kaspar corse al pulsante dell’abat-jour e la notte tornò a riempire la stanza. Ma ecco che, nell’esatto momento in cui la luce si dileguava, un’ombra apparve ai piedi del letto. Era una silhouette esile, smagrita, nera come carbone. Un’ombra vuota, senza sostanza, eppure era lì, vicino al suo letto, ad ascoltarlo respirare.
Kaspar urlò e riaccese la luce. L’ombra era sparita, volatilizzata nei pochi secondi necessari perché le sue dita schiacciassero il pulsante. Eppure Kaspar la sentiva ancora lì, la rivedeva negli oggetti della stanza, negli angoli bui sottesi fra la scrivania e l’armadio. Kaspar rise nervosamente.
«Ho sognato, ecco tutto…» bisbigliò a se stesso, ma la sua voce, la voce di un vecchio, lo rese ancora più nervoso. "Sei solo sconvolto per la sua morte – gli suggerì la sua coscienza – spegni la luce e addormentati in pace."
La razionalità prese di nuovo il sopravvento in lui. Aveva soltanto sognato di vedere quell’ombra, certo che sì. Era la spiegazione più plausibile. Probabilmente la morte di Elsa l’aveva sconvolto più di quanto si rendesse conto. Non era un caso che quella silhouette ombrosa avesse le sue sembianze, no? Le sembianze di sua figlia tredicenne, codini, fianchi acerbi, gambe magre e tutto il resto.
Rassicurato, Kaspar spense la luce. I suoi occhi fecero fatica a passare dalla luce al buio quasi totale della stanza e per molti secondi mille lampi violacei gli ipnotizzarono i sensi, passando sulle sue cornee come nubi temporalesche. Poi tornò a vedere e si accorse che l’ombra era tornata. Era lì, in piedi ai piedi del letto. Lo fissava senza occhi e gli parlava senza bocca.
«NO!» urlò Kaspar, riaccendendo la luce. Si voltò, con il cuore sempre più dolorante, ma l’ombra si era dileguata ancora una volta e senza lasciare tracce visibili. Fu in quel momento che la lampadina dell’abat-jour cominciò a tremolare. Era una lampadina vecchia, molto vecchia. Quanto tempo era che non la cambiava? Almeno venticinque anni. "Può durare venticinque anni, una lampadina?" si chiese Kaspar. Forse sì, era la risposta… Forse sì se qualcuno voleva che fosse così, se qualcuno, in un modo o nell’altro, aveva predisposto quel momento da lungo tempo, attendendo solo il giorno giusto, le condizioni favorevoli, per portare a termine il suo piano di vendetta. L’abat-jour sfrigolò, forse un contatto elettrico, e per qualche secondo tornò il buio assoluto e, con il buio, l’ombra silenziosa.
«E-elsa.» mormorò Kaspar. Il suo cuore scricchiolava come un vecchio mobile divorato internamente dai tarli; ancora qualche secondo di oscurità e il muscolo avrebbe ceduto, trascinandolo con sé nell’oblio. L’ombra non si mosse né parlò. Poi la luce tornò, improvvisa e imprevista, e il fantasma svanì, anche se Kaspar poteva vederne nettamente il contorno impresso nei suoi occhi.
Con un grido, l’uomo si alzò e corse ad accendere il lampadario. Quello aveva le lampadine nuove di zecca e infatti si aprì senza esitazione, i suoi globi di vetro come tanti piccoli soli in una notte primordiale. Le ombre svanirono del tutto e l’uomo poté tirare un sospiro di sollievo. Si asciugò il sudore dalla fronte, ansimando, mentre il suo cuore lentamente rallentava il battito. Se fosse rimasto nelle luce, forse la paura sarebbe rimasta lontana dal suo cuore e lui non sarebbe morto di infarto. "Ce la posso ancora fare" pensò.
E fu lì che una saetta colpì la centrale elettrica che distava meno di un chilometro dalla sua casa. La notte calò su tutto l’isolato e l’ombra acquistò ancora più solidità, gonfiandosi come un incubo, occupando tutto lo spazio angusto della camera. Un grido allora risuonò nella notte, il grido terribile di un moribondo trascinato da un esercito di anime in pena lungo un pozzo senza fine, sempre più giù, nell’oscurità.
Durò poco più di un battito di ciglia e nell’istante in cui l’urlo smise, tornò la luce su tutta la città.

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