Due tragedie. Due donne rimaste sole. Due desideri di vendetta inappagati. O forse solo uno.
Buona lettura
«Condoglianze, mia cara. Roger
era un ragazzo fantastico, davvero. Me lo diceva sempre la mia Rebecca quanto
era intelligente, quanto era… particolare.»
Ashlee si liberò della stretta
di mano della signora Wood con fastidio. Aveva una mano viscida, falsa quanto
il sorriso che le increspava il viso. Rebecca! Figurarsi! Odiava il suo Roger
con tutta se stessa, così come lo odiavano tutti i ragazzi di quella maledetta
scuola, la St. Peter High School. Da
quando aveva messo piede in quella vecchia struttura, un ex-cotonificio in
mattoni rossi dall’atmosfera cupa, che si sviluppava a pochi metri dalla chiesa
dedicata al santo patrono della cittadina, Roger era stato vittima di scherzi
mancini, di minacce e di pestaggi. Ceffoni, soldi rubati, merende divorate e
poi risputate nello zaino, cappotti calpestati dopo una corsa in mezzo al fango
del campo da baseball. E questo solo perché era… diverso. Già era difficile farsi amici in condizioni normali… se si
era in sedia a rotelle, paralizzato dalla vita in giù per via di una
complicazione durante il parto, era una missione pressoché impossibile. E Roger
soffriva di quella condizione, certo che sì… era così sensibile.
Gli occhi di Ashlee si
riempirono di lacrime.
«Aveva solo diciassette anni –
mormorò, mentre dentro di lei si accumulava una rabbia sempre più cieca –
quanta solitudine doveva portare nel cuore per trovare il coraggio di fare
quello che ha fatto?»
La signora Wood contrasse le
labbra in un sorriso incerto. I suoi occhi, imbottiti di un perbenismo che mal
celava il fastidio di trovarsi a quel funeral party, trasmettevano chiaramente
un’unica domanda. Cosa vuole questa
stronza? Io le scuse gliel’ho fatte, come si conviene. Che cosa le manca, ora?
Non poteva ringraziarmi e basta, senza tirare fuori ancora questa storia? Roger
era un… handicappato, non era come mia figlia, come i nostri figli. Forse il
suicidio era l’unica via per lui, l’unica scelta possibile per chi non può dare
il 100%.
Ashlee dovette leggere quella
domanda negli occhi glaciali della donna, dovette intuirla o percepirla col suo
potere latente di madre, perché la sua fronte si corrugò, i denti le
fuoriuscirono dalle labbra sottili, il suo sguardo si trasformò in fuoco puro.
La signora Wood indietreggiò e afferrò per istinto il braccio di sua figlia
Rebecca, una ragazza esile e sfrontata, che da quando era entrata non aveva
fatto altro che rimpinzarsi di tartine ai gamberetti e lanciare occhiate ai
suoi coetanei, in cerca di qualcuno che la sbattesse senza tanti discorsi
contro il muro di un vicoletto.
«Via da qui... ORA!» sibilo
Ashlee. Aveva parlato troppo piano perché gli invitati, pressappoco tutta la
città, la udissero. Erano troppo intenti a divorare come locuste i cibi che
Ashlee aveva ordinato da Loren’s Garden,
il servizio più costoso di catering di tutta Mystic Hill. C’era il reverendo
Connor, che aveva presenziato alla funzione con laica piattezza, e il sindaco
Bolton, doppio mento e baffoni compresi. Da bravo politico qual era aveva
l’appetito più sviluppato e mostruoso di tutti, raccoglieva pizzette a piene
mani e le infilava in bocca tutte intere, come se fosse un gigantesco forno di
maiolica nero. Già… nero. Era il
colore dominante in quella stanza. Un nero assoluto, che i cittadini
indossavano con spontaneità: per loro era solo un colore, appunto, non uno
stato d’animo. Sarebbe stato facile, per loro, togliersi quell’abito e
rimetterlo in un cassetto. Ashlee invece non sarebbe mai riuscita a disfarsi della
sua anima, non più facilmente di quanto sarebbe riuscita a staccarsi la pelle,
appenderla ad una gruccia e infilarla nella cabina-armadio.
Ashlee gridò una seconda volta e
questa volta tutti la udirono, anche se molti finsero che non fosse così. Evidentemente
dovevano ancora assaggiare i vol-au-vent al caviale rosso e i tagliolini
all’astice.
«FUORI DI QUI, TUTTI QUANTI!»
Il silenzio calò nella stanza. I
visi di tutti si focalizzarono su di lei, ma Ashlee non si vergognò
minimamente, semmai si vergognava di aver invitato lì tutte quelle faine. Altro
che Loren’s Garden! Doveva servire
loro bocconi avvelenati, carne rancida impregnata di stricnina… erano solo
ratti, in fondo… disgustosi roditori animati da una fame dissennata. La
rigidità del loro moralismo era la loro tana, la loro profondissima fogna.
Niente avrebbe mai potuto cambiarli, era questa l’origine dell’ira e della
frustrazione che montavano sempre di più nel corpo sofferente di Ashlee.
«VIAAA!»
Ormai la donna non aveva più
voce né lacrime. Uno ad uno, i cittadini sfilarono via dalla casa, ognuno con
uno sguardo pieno d’odio riservato per Ashlee. Che modi? Ma come si permette? Nemmeno la morte del figlio può darle il
diritto di comportarsi così! Era ciò che la gente bisbigliava mentre
raggiungeva le automobili e apriva rancorosa le portiere.
Sapevano di essere stati loro a
spingere Roger fino a quel punto, ma fingevano di essere offesi per mantenere
inalterata la loro coscienza. Disgustosi! Oh, ma in un modo o nell’altro
gliel’avrebbe fatta pagare! Ashlee se lo ripromise, lo giurò con la voce
dell’anima, che era più attendibile di qualsiasi firma su un contratto.
La donna si girò di scatto,
furibonda. C’era ancora un’ospite, che evidentemente era troppo orgogliosa per
esaudire il suo desiderio di restare da sola. Ashlee, in verità, non era certa
che facesse parte di Mystic Hill. Era la prima volta che la vedeva. Era una
vecchia all’apparenza come tutte le altre: bassa, curva, rinsecchita, la testa
più grande del corpo, come quella di un neonato appena uscito dall’utero
materno. Capelli radi, esili, di un colore indefinito, un misto fra un bianco
crema e un grigio sabbia di fiume. Naso sottile, appuntito, narici larghe e
punteggiate di venuzze viola-blu; occhi chiari, quasi color ghiaccio, spuntavano
come spilli da sotto sopracciglia anch’esse bianche, leggermente incurvate e
cascanti per l’età.
«Cos’è? È per caso sorda? – la
aggredì Ashlee – se ne vada. Subito!»
La vecchina sorrise
empaticamente, avvicinandosi a piccoli passettini, con la borsetta davanti a sé
come se fosse uno scudo. E, in effetti, pareva proprio uno scudo e Ashlee ebbe
la sensazione che, se solo avesse provato a colpirla, le ossa della sua mano si
sarebbe polverizzate al solo contatto con quella piccola, all’apparenza
insignificante borsetta.
«Conosco bene il tuo dolore,
cara Ashlee – belò la vecchina – Anch’io ho perso un ragazzo così. Si chiamava
Nicholas.»
Ashlee sobbalzò. Nicholas! Ma
certo! Quella vecchina dall’aria innocua doveva essere la signora Sumad Artson.
Da quando si era trasferita lì, oltre cinquant’anni prima, erano sorte molte
leggende sul suo conto. Innanzitutto perché veniva dal Medio Oriente. Il signor
Artson l’aveva incontrata durante un suo viaggio di gioventù, se ne era
invaghito, l’aveva sposata ed era tornato con lei in Illinois. E già questa era
una bella stranezza, visto che George Artson era un tipo solitario, che si era
sempre interessato poco alle donne, tantomeno alle straniere. Ma tutto questo
mistero e i pettegolezzi suscitati da quell’inatteso matrimonio erano passati
in secondo piano quando era accaduto l’incidente
di Nicholas. Anche Nicholas si era ucciso. Mystic Hill era sempre stata
piuttosto chiusa verso le novità, verso gli stranieri, verso le persone… particolari. Anche Nicholas era
sensibile, aveva sofferto l’indifferenza e l’intolleranza delle famiglie
perbene di Mystic Hill e aveva deciso di farla finita. Roger si era buttato nel
fiume. Nicholas dal campanile della parrocchia. Due tragedie. Due donne rimaste
sole. Due desideri di vendetta inappagati. O forse solo uno.
«Signora Artson, mi scusi. –
balbettò Ashlee – Credevo che fosse una…»
«Una di quelle? No, cara.
Decisamente no. Io per prima ho patito l’acido dell’intolleranza, l’ho sentito
scorrere ovunque, nelle parole dei passanti, nelle viuzze verdeggianti di
questo bella cittadina.»
«Bella? Io non vedo nessuna
bellezza, qui.»
«Non sia severa con la vita,
cara Ashlee. Se c’è una bruttezza, quella di certo non è insita nei mattoni
della scuola, né nel legno del campanile, né… nel ferro del ponte sul fiume. Di
certo, se l’uomo avesse imparato l’arte della convivenza, del dialogo e della
condivisione, se avesse imparato ad aprire i cancelli delle proprie isole
incontaminate per accogliere i fuggiaschi, il passaggio su questa terra sarebbe
meno arduo. E suo figlio potrebbe essere ancora vivo.»
«Sì, be’. Ora non ha più senso
parlarne. Ormai è troppo tardi.»
La Artson sorrise.
«Forse sì, forse no.»
Il cuore di Ashlee cominciò a
tamburellare. Cosa si nascondeva negli occhi di quella donna, quella vecchia
venuta dal deserto, da una terra di calura, arsura e mistero?
«Che intende dire?» sussurrò la
giovane, mentre il suo sguardo si posava, senza che potesse controllarlo, sulla
foto di Roger che teneva sopra il caminetto. Era così bello, così perfetto ai suoi occhi.
«Be’… se le dicessi che esiste
un modo per riavere suo figlio, una parte di suo figlio… come risponderebbe?»
«Lei è pazza. Se ne vada!»
La Artson ringhiò.
«Non sia stupida! Risponda alla
mia domanda!»
«Io… farei tutto quello che è
necessario per poterlo riabbracciare.»
«Bene. E se le dicessi che, da
quel momento in poi, non solo la vendetta manterrà in vita suo figlio, ma anche
lei?»
Il viso pallido di Ashlee si
contrasse in una smorfia, che cercava di essere un sorriso.
«Risponderei che la vendetta,
dopotutto, è un buon motivo per vivere.»
La Artson sorrise di nuovo.
«Bene.»
*
Ashlee aspirò una boccata dal
suo spinello. Poi, senza riuscire a trattenersi, si mise a ridere, a ridere
dissennatamente, e così facendo tossì fuori una nube di fumo dolciastro, un
sentore di piante bruciate che riempirono l’abitacolo fino a trasformarlo in
una landa nebbiosa. Le lacrimavano gli occhi, ma non per via del fumo: era
tutto un caos di emozioni, il suo animo. Risate si alternavano a lacrime e a
volte coesistevano; ma anche in quel caso sia le risate che le lacrime erano
entrambe in qualche modo vere.
Se
le dicessi che esiste un modo per riavere suo figlio, una parte di suo figlio…
come risponderebbe?
Ashlee scosse la testa. A questo
si era ridotta: a fumare marjuana, come una quindicenne senza sale in zucca! A
seguire le folli macchinazioni di quella vecchia bastarda!
Dio!
Doveva essere proprio imbecille
per dar credito alla storia assurda che la signora Sumad le aveva raccontato.
Che cosa le stava accadendo? Eppure era cresciuta in una famiglia con sani
principi, una famiglia atea, senza tanti grilli per la testa, senza nessuna
fede tranne che in quella nel progresso umano. Suo padre credeva solo a quello
che vedeva; per lui neppure l’amore esisteva: era solo una reazione chimica
destinata ad esaurirsi dopo l’accoppiamento… Era un uomo tutto d’un pezzo, rude
e diretto, razionale e coscienzioso. Ed era così che Ashlee lo ripagava?
Andandosene in giro di notte, per i cimiteri, a sognare l’impossibile, a desiderare
follemente di poter riabbracciare suo figlio… per merito di una grotta? Come l’aveva chiamata la Artson?
Un luogo di passaggio!
“Dio mio – si disse Ashlee –
Sono pazza o solo disperata?
Un movimento nella notte attirò
la sua attenzione. Il guardiano del cimitero aveva appena chiuso il lucchetto
del cancello che proteggeva le tombe dai teppisti che venivano lì ogni tanto, a
far casino. Dopo essersi guardato attorno, per assicurarsi che fosse tutto a
posto e che le luci del cimitero fossero spente, l’uomo si mise in tasca il
mazzo di chiavi e sputò per terra. Era il classico guardiano di cimitero:
magro, allampanato, viso anonimo, un po’ sinistro, barba mal rasata,
cappellaccio in testa, calzoni di fustagno, stivali infangati. Ashlee avrebbe
provato pietà se non avesse saputo che quel guardiano era un pettegolo, un
insensibile che rubava i fiori dalle tombe per fare la corte alle donne che
passavano dal benzinaio, all’imboccatura della statale. Un uomo che allungava
le mani un po’ troppo spesso e che, all’occorrenza, faceva la spia per mogli
gelose.
Lentamente, tenendo lo spinello
in bilico fra le labbra, Ashlee si slacciò la cintura di sicurezza. Presto il
guardiano sarebbe sparito nella notte, diretto verso l’unico bar della città.
L’alcolismo era ammesso. La violenza pure. L’uguaglianza no. Curioso, non è
vero?
Ecco, se n’era andato. Ashlee
attese qualche secondo, poi scese, aprì il portabagagli e prese quanto era
necessario. Era pazza, o solo disperata? Non lo sapeva. Ma la Artson le aveva
dato una speranza, folle, ma pur sempre una speranza. E lei la avrebbe seguita
fino in fondo, a qualsiasi costo.
*
Eccola, la tomba di suo figlio.
Scavata di fresco, neppure dieci ore prima; un semplice monticello di terra
coperto di sassolini, in attesa che il marmista preparasse la lastra tombale e
scolpisse un angioletto di marmo. Un piccolo angioletto di marmo, magari
vestito con una lunga tunica a mo’ di campana e con un supporto per il lumicino
elettrico fra le sue manine di pietra. Un angioletto di marmo messo a vigilare
i resti di un povero ragazzo la cui sfortuna, per quanto grande, era stata
ulteriormente ingigantita dalla malvagità degli uomini.
Oh,
se la Artson mi ha mentito, se lo ha fatto…. Non potrà mai scappare così
lontano. La troverò e la farò a pezzi.
Eppure, per quanto la storia
fosse assurda, Ashlee sentiva che
sarebbe andata esattamente come la Artson le aveva promesso. Se lo sentiva
sotto la pelle. Una voce le sussurrava cosa fare, attizzandole i sensi e
risvegliando, da qualche parte nel suo corpo di quarantenne, i suoi istinti più
ferini… era eccitata, dannatamente eccitata, come neppure Frederick, il suo
defunto marito, era mai riuscito a renderla.
«Attendi l’imbrunire – le aveva
detto Sumad – poi va’ in cimitero, scavalca il cancello e raggiungi la tomba di
tuo figlio. Scava, apri la bara, prendi il suo corpo, caricalo in auto e fa’
esattamente come ti dirò.»
«Lei è soltanto una povera
pazza…» aveva risposto Ashlee, a denti stretti, ma non aveva potuto fare a meno
di registrare quelle parole. E, quando la Artson se n’era andata, la prima cosa
che Ashlee aveva fatto era stata scendere nel capanno degli attrezzi, prendere
la pala e riporla accuratamente, avvolta in una coperta, nel bagagliaio. Poi
era salita sulla sua Cadillac e si
era messa a guidare senza meta, in attesa che il cielo si facesse buio.
Ed ora eccola lì, di fronte al
monticello umido che nascondeva il corpo sfigurato di suo figlio.
“Oh bambino, bambino mio…”
sussurrò, mentre un paio di pipistrelli, scendendo come fulmini dal cielo,
strillavano la loro sorpresa di trovare un essere vivente in quel luogo di
eterno riposo.
“Forza, Ashlee – mormorò la voce
nella sua testa, più sottile e perentoria che mai – la notte non è eterna.”
Magari
lo fosse, pensò
Ashlee.
Impugnò la pala e la infilò
nella terra come fosse un cucchiaio. Scavò, scavò e scavò, finché il ferro
della pala urtò contro il legno della bara. Si udì un rumore di legno spezzato
e sul coperchio si produsse un vasto buco. E la luna, perfetta come un cerchio
realizzato col compasso, proiettò un raggio argentato attraverso quel buco,
illuminando il candore di un occhio che non poteva più vedere, l’occhio aperto
e cristallizzato di Roger. Ashlee si mise a singhiozzare, ma continuò comunque
a lavorare, seguendo alla lettera ciò che le ordinava la voce.
Se qualcuno, dopo aver sconfitto
il soffocante velo del sonno, si fosse avvicinato alla finestre della propria
casa verso mezzanotte, avrebbe visto una strana figura uscire dal cimitero. Una
figura con due braccia, due gambe, due teste. Era Ashlee, con il figlio sulle
spalle, trasformata in un mostruoso millepiedi umano dal manto nero come la
morte della notte. L’avrebbero vista strisciare lungo i marciapiedi, raggiungere
il parcheggio della chiesa, e salire su una vecchia Cadillac polverosa; infine sparire alla volta delle colline.
*
Roger ciondolava in
avanti, trattenuto dalla cintura di sicurezza. Ashlee lo guardò.
«Andrà tutto bene, bambino mio.
Facciamo una bella gita, vuoi? Certo che lo vuoi. Sarà come quella volta,
quando siamo andati con papà alla fiera, ricordi? Sei rimasto sulle giostre
così a lungo che ti girava la testa. Quante risate!»
Ma Ashlee non rideva e neppure
Roger. E come avrebbe potuto farlo? Era morto. Ogni scossone dell’utilitaria
faceva rimbalzare la sua testa su e giù, come una palla sgonfia rimasta appesa
al filo spinato di un muricciolo e lasciata lì, al vento. Il vetro accanto al
sedile del passeggero, ormai, era tutto rigato di sangue. Fortunatamente era
troppo buio perché gli altri automobilisti potessero vederlo, e per di più le
strade erano totalmente deserte. C’erano solo Ashlee e la sua Cadillac, che ululava nella notte come
un argentato e gelido fantasma.
«Ancora per poco, tesoro mio –
sussurrò la donna – ancora per poco.»
*
Sarebbe stato pressoché
impossibile trovare la grotta senza le indicazioni della Artson. Ashlee per un
attimo pensò che fosse stata proprio lei a crearla, in qualche modo. Forse che
la sete di vendetta di una madre poteva rendere possibile l’impossibile?
Scese, aprì la portiera destra
dell’auto, si caricò il figlio in spalla e proseguì, il respiro mozzato dalla
fatica, fino all’entrata della grotta: era una fessura sul fianco di una bassa
collina, come una ferita di coltello inferta a madre natura. Spirava un vento
gelido da quell’entrata, simile al respiro rauco di una creatura del
sottosuolo. Faceva venire i brividi. E poi c’era quel silenzio. Ashlee non
aveva mai udito un silenzio simile, un’immobilità così accentuata come in
quella notte. E la colpa, di certo, non era della notte.
La fessura sulla collina, così
slabbrata e serpentiforme, le ricordava la bocca della signora Artson.
«Entra per quella feritoia – le
aveva detto la vecchia – scendi le scale che troverai finché arriverai ad un
bivio. Scegli la via a sinistra, mi raccomando, per quanto la destra possa
sembrarti più sicura. Prosegui ancora, giù nel buio, finché troverai un lago
sotterraneo. Non badare alle ombre che ti circonderanno e non ascoltare i loro
consigli. Lascia tuo figlio nell’acqua. Poi torna indietro, esci nella notte e
attendi che il tuo Roger, alle prime luci dell’alba, ti raggiunga. E mi
raccomando, mentre risali le scale non voltarti mai indietro, per nessuna
ragione al mondo.»
«Perché, cosa mi seguirà?»
«Fidati, non lo vorresti sapere.
Ti farebbe uscire pazza.»
Non
più di come lo sono ora,
sibilò Ashlee, chiedendosi ancora come potesse trovarsi lì, col cadavere del
figlio sulle spalle. Si guardò attorno, quasi augurandosi che qualcuno la
vedesse, che qualcuno la fermasse. Ma era sola, come sempre. Così non le restò
altro che entrare.
*
La figura snella e aggraziata di
Rebecca Wood si palesò alla luce incerta del lampione. Guardò nella loro
direzione, ma era troppo buio perché potesse distinguerli. Per lei, quell’auto
lasciata lì, vicino ai cassonetti dell’immondizia, era un’auto dimenticata da
qualche viaggiatore distratto. Ma non era così, oh no.
Ashlee rilassò i muscoli. Bene. Sarebbe stata una lunga notte, una
lunga notte soddisfacente. Perché, si sa, la vendetta è un piatto da gustare
freddo e lei si sarebbe gustata tutto quanto, ogni minuto, ogni secondo, ogni
istante. Ogni grido. Ogni schizzo di sangue.
«Non ci ha visto, tesoro mio.
Ora tocca a noi.» sussurrò.
Roger si voltò verso di lei.
Ashlee rabbrividì. No, quello non era suo figlio. Non lo era pienamente. Eppure il corpo era il suo.
I capelli erano i suoi. Le mani, bianche e forti, erano le sue. E ad Ashlee
questo bastava.
«Cosha fashamo mmmamma?»
Roger, per via della faccia
mezzo spappolata, non era in grado di parlare bene. Ad Ashlee sembrava fosse
tornato bambino, quando ancora doveva imparare a scandire le parole e lei
cercava di insegnarglielo con una sciocca filastrocca: “A come Amore, B come
Bambino, C come Cane”…
Dio,
come si è arrivati a questo?
Ashlee si sforzò di sorridere,
anche se la sola vista del sorriso distrutto di Roger le dava il voltastomaco.
«Adesso ci divertiamo, bambino
mio. Proprio come quella volta alla fiera. E ci sarà da mangiare, puoi starne certo. Tanta carne fresca da mangiare.»
Roger batté le mani e rise
(gorgogliò).
«Shì! Io ho p-proprio
f-fam-e-e-e.»
Anche Ashlee scoppiò a ridere e,
con quella risata, ogni scrupolo morale venne spazzato via.
Sarebbe stata una lunga notte,
la più lunga di tutte. Avevano un’intera città da visitare. Tutta Mystic Hill.
Nessuno escluso.
*
La signora Artson li stava
aspettando seduta sulla poltrona, immersa nel buio del suo salotto, le mani
guantate avvinghiate ai braccioli e lo sguardo perso sul resto della sua cena:
una coscia di pollo bollita, tre o quattro patate al burro e un bicchiere di
vino rosso. La radio, un vecchio modello della Phonola, era accesa e trasmetteva un archeologico pezzo rock di
Jerry Lee Lewis.
Ashlee e Roger si avvicinarono
alla donna, silenziosi come cipressi nella notte. Lei non li guardò neppure.
«Sapevo che sareste venuti –
mormorò – per prendere anche noi due.»
«Lui dov’è?» chiese Ashlee, con
una nota di compassione nella voce.
«È giù, nel seminterrato. Vive
lì da oltre trent’anni.»
«Fallo venire qui.»
Ma Nicholas, evidentemente
allertato dalle voci inattese a quell’ora della notte, era già salito. Ashlee
sussultò. Proprio come Roger, Nicholas portava i segni della morte violenta: il
viso, che un tempo doveva essere stato bellissimo, era ridotto ad una poltiglia
colante, come un grumo di carne macinata gettata con rabbia sull’asfalto. Solo
la bocca era integra, una mezzaluna nera da cui spuntavano denti acuminati come
rasoi.
«Li hai uccisi, allora? Li hai
uccisi tutti?» chiese la Artson, intrecciando le mani come in una blasfema
preghiera.
«Sì.» ribatté Ashlee
freddamente.
«Allora hai avuto successo dove
io ho fallito. Io, trent’anni fa, non ne ho avuto il coraggio, ma tu sì… La
sete di vendetta è stata placata, per entrambe. Che tu sia…»
Ma Ashlee la interruppe con
rabbia.
«Non aveva il diritto di
mostrarmi quella grotta! Non doveva farlo. Mi ha costretto a compiere un gesto
orribile, l’intero massacro di una città innocente!»
Gli occhi grigio-azzurri della
Artson brillarono di rabbia.
«INNOCENTE? Secondo lei quella
era gente innocente? Hanno ucciso i nostri figli, li hanno portati alla
disperazione. Con le loro menzogne, i loro pettegolezzi, il loro razzismo, li
hanno privati della forza di vivere!»
«È così. Ma noi non siamo state
da meno. Il sangue dei loro figli sarà sempre sulle mie mani. E sulle sue.
Siamo due maledette peccatrici.»
«Quel che è fatto è fatto.»
ribatté acida la vecchia.
«Sì, ma questo non vuol dire che
sia finita qui.»
La Artson si alzò, più
rapidamente di quanto ci si potesse aspettare da una donna della sua età, e
andò ad abbarbicarsi al braccio gelido e morto di Nicholas.
«Che cosa aspetta, allora? –
gridò – uccidici, uccidici tutti quanti.»
«No. La morte non sarebbe
giusta. Non in questo momento. Dobbiamo espiare e chiedere perdono per quanto
abbiamo fatto.»
«Oh, no… non vorrai?» singhiozzò
la vecchia, stringendosi al figlio sfigurato. Ashlee annuì con gravità.
«È l’unico modo. Vivremo per
sempre nel buio di quella grotta. La tenebre e le ombre saranno le nostre
compagne. E forse, quando le montagne torneranno ad essere mare, quando le
città degli uomini crolleranno, quando il sole ingoierà questo nostro piccolo,
insignificante pianeta, riceveremo il perdono e, con esso, la pace.»
Nessun commento:
Posta un commento