Il matrimonio di Seretil, dea
della Luce, e di Primil, dio della Notte, durò tre anni. Alla cerimonia erano
state invitate tutte le divinità dell’universo, da quelle più importanti a
quelle più insignificanti: c’erano Korus, creatore di tutte le cose (nonché
padre di Seretil), e sua moglie, Corinna, la regina del Caos (dalle atre
viscere del Nulla era stata partorita e portava, dentro i suoi profondi occhi
neri, la scintilla della distruzione). C’erano Soratul, sovrano dell’aldilà,
giunto fino ai cancelli del cielo con il suo cocchio di ferro trainato da anime
in pena, e Tornidas, signore dei mari, fratello di Korus e suo fedelissimo
compagno di caccia. E poi un’infinita schiera di divinità di fiume, ninfe di
lago, folletti di montagna, darimani (dèi del focolare domestico), semidei,
bestie mitiche e anime pie. Tutti erano accorsi, consapevoli che quello era di
certo l’evento più importante mai accaduto nell’intero universo, se si
escludeva la Creazione stessa. E, proprio per sottolineare la grandiosità di
quel giorno, il Palazzo del Cielo era stato ampliato e i suoi giardini
abbelliti con code di comete, piume di fenici e polvere di stelle. Brillava
come il centro della Via Lattea, benché il suo perimetro fosse di gran lunga
maggiore di quello della galassia.
Conclusa la cerimonia, la folta
e variopinta folla degli invitati, che sarebbe di certo apparsa come una
diabolica mascherata agli occhi dei comuni mortali – i quali, beninteso, mai
avrebbero potuto immaginare che proprio quegli esseri così spaventosi, deformi
e grotteschi fossero gli artefici del loro tanto amato universo – accompagnò i
novelli sposi fino ai Cancelli del Cielo, sul picco più alto del mondo. Di lì,
montati su un fremente destriero alato, Seretil e Primil partirono al galoppo
per la loro luna di miele. Destinazione, la Terra.
Era stato un desiderio di
Seretil quello di visitare quel minuscolo pianeta azzurro. Primil, dal canto
suo, avrebbe preferito viaggiare nei remoti angoli dell’universo e creare, per
la sua giovane moglie, qualche nuovo pianeta su cui trascorrere un romantico
cinquantennio, ma Seretil non aveva voluto sentire ragioni:
«Ho sempre sognato vivere tra
gli uomini! – aveva detto – Voglio provare sulla mia pelle le sensazioni, le
gioie e i dolori di cui tutti parlano e che si dice siano così intensi, lì,
sotto il cielo stellato. Diventeremo come gli esseri umani, ci immergeremo nel
loro mondo e, non riconosciuti, ci mimetizzeremo fra loro. Così io ho deciso,
perché sono Seretil e mia è la Luce.»
Primil avrebbe voluto ribattere
che se lei era la Luce, lui era la Notte e nessuno, neppure Korus in persona,
avrebbe potuto dire chi era il più importante tra loro, perché, in fin dei
conti, si completavano e si annullavano a vicenda. Ma decise, per amore della
pace familiare, di accondiscendere al desiderio della sua consorte. E ora,
mentre il cavallo alato sfidava il maestrale e sfiorava con gli zoccoli i
crinali albini delle catene montuose, Primil si chiese se era stata la scelta
giusta.
*
Scelsero di atterrare in una
nebbiosa foresta del nord, una larga macchia grigio-verde dalla quale si
libravano a intervalli regolari stormi di corvi e di ghiandaie. Non era una
foresta come quelle del Cielo: non aveva alberi d’oro, né frutti di rubino, né
uccelli di fuoco sui rami, né laghi d’argento. Eppure ogni abete trasudava una
bellezza così semplice che le due divinità, abituate a vedere il mondo dall’alto,
rimasero senza fiato.
Si trasformarono subito: Seretil
divenne una bellissima regina bionda, vestita con una stola di visone e con una
corona d’oro in testa; Primil un giovane principe di vent’anni, con una spada
d’argento al fianco e un mantello color della notte. Per vivere al meglio
quell’esperienza, decisero entrambi di rinunciare momentaneamente ai loro
poteri, persino all’immortalità. Divennero due esseri umani, nient’altro, con
tutti i pro e i contro.
Si guardarono intorno, poi l’uno
con l’altro.
«E adesso?» si chiesero.
*
Si misero a vagare fra gli
alberi, senza meta. Essendo divinità, non avevano alcuna esperienza sul mondo
degli uomini e di certo non sapevano cosa si dovesse fare in una foresta né che
per sopravvivere fosse necessario procacciarsi il cibo e cercare l’acqua. Il
lavoro, la fatica, per loro erano solo parole senza alcun significato.
Addirittura si stupirono quando, stanchi di vedere tutti quegli alberi e
desiderosi di spostarsi in una città, scoprirono che non potevano in alcun modo
volare o teletrasportarsi ma che dovevano fare affidamento solo sui loro piedi.
Il cavallo alato, per di più, se n’era andato subito e, come gli era stato
ordinato, non sarebbe tornato prima di cinquant’anni. Erano soli, in quella
maledetta foresta. Proprio come dei veri essere umani.
*
E così, lasciati a loro stessi,
finirono per perdersi in mezzo a tutti quegli alberi. Camminarono e camminarono
e camminarono, senza riuscire a trovare una via d’uscita: ogni volta che si
avvicinavano al limitare della foresta, infatti, scoprivano di essere
intrappolati tra le mura color ossidiana delle montagne; sarebbero morti di
fame se non avessero visto che gli animali, avvicinandosi agli alberi, ne
mangiavano i frutti. Un piccolo cervo, che si era abbeverato ad un rigagnolo,
insegnò loro che dovevano bere, se volevano placare quel senso di arsura che
graffiava le loro gole. Dai conigli impararono invece che, quando si avvicinava
la notte, era meglio trovare un riparo nel ventre della terra se non si voleva
finire fra le grinfie di qualche predatore notturno.
E così le stagioni, lentamente,
si alternarono; gli alberi si spogliarono di foglie, i fiori appassirono, dal
cielo presero a scendere strani petali bianchi, che creavano un soffice manto
sul terreno. Seretil ne aveva sentito parlare da suo padre, ma non ricordava
come si chiamasse.
*
Estate dopo estate, inverno dopo
inverno, i cinquant’anni lentamente passarono. Ma non passarono rapidamente,
come accadeva nel Palazzo del Cielo, dove un millennio corrispondeva ad un solo
anno umano: Seretil e Primil li sentirono sulla propria pelle, ora dopo ora,
giorno dopo giorno, anno dopo anno; eppure non avevano la cognizione di cosa
fosse il tempo, loro, che vivevano nei cieli da sempre; Primil, dal canto suo,
dopo una decina d’anni avrebbe voluto porre fine a quella luna di miele,
riattivare i suoi poteri addormentati e tornare al Palazzo, ma sapeva che
Seretil, testarda di natura, non avrebbe mai voluto arrendersi prima che i
cinquant’anni fossero trascorsi. Lei, sotto sotto, si era un po’ pentita di
quella scelta, ma non voleva tirarsi indietro, perché sapeva che Primil non
l’avrebbe digerita tanto facilmente, dopo che lei aveva così tanto insistito
per venire lì, sulla Terra.
*
Un mese prima che tutto avesse
fine, Seretil e Primil, stanchi come non era mai accaduto in tutta la loro
millenaria esistenza, si trascinarono ai bordi di un laghetto. Era uno specchio
d’acqua di piccole dimensioni, dove però le cime più alte delle montagne si
specchiavano, dando l’illusione che, oltre quelle acque, ci fosse tutto un
altro mondo da scoprire. Sia Seretil che Primil si inginocchiarono per bere ma,
quando si avvicinarono al pelo dell’acqua, entrambi sussultarono ed estrassero
le armi. Laggiù, oltre il velo azzurrino del lago avevano visto due esseri
umani mostruosi. Avevano il volto pieno di rughe, due paia di occhi grigi e
spenti, due bocche cadenti, come se non avessero più i denti a sorreggerle. I
volti della morte. Seretil e Primil rimasero in allerta, la spade sguainate, lo
sguardo rivolto alle rive del lago. Ma i due mostri non diedero segno di voler
uscire dall’acqua. Fu lì che a Primil venne un dubbio: che fossero…
Si avvicinò, nonostante i moniti
della moglie, e fissò di nuovo i suoi occhi nell’acqua, trattenendo a stento un
gemito di paura. Proprio come temeva: non erano persone, ma il loro riflesso.
Nel breve tempo della luna di miele, da splendidi esseri umani erano diventati
due disgustose mummie. Nessuno dei due sapeva che cosa fosse la vecchiaia e
attribuirono quel cambiamento a quel luogo, alla foresta.
Al che il dio gridò:
«Ora basta!» e istantaneamente
recuperò tutti i suoi poteri e, con essi, il suo aspetto incorruttibile e
perfetto, come quello di una statua di marmo e avorio. Lo stesso fece Seretil,
e tutto il lago risplendette della loro luce riflessa, una luce gelida e
divina.
In quel mentre sentirono un
rumore provenire dalle loro spalle. Si girarono, irati, e videro che stava
arrivando, dal folto della boscaglia, un vecchio boscaiolo, tutto curvo per via
dei tronchi di legno che stava trasportando sulle spalle, in una gerla. Il
primo essere umano che vedevano da quando avevano messo piede in quel luogo
così strano! Gli si avvicinarono con altezzosità e Primil, ergendosi in tutta
la sua divina altezza, gli chiese:
«Dimmi, villico, come si chiama
questo posto maledetto, dove i giorni corrono via come sabbia in una
clessidra?»
E l’uomo, dopo averci pensato un
po’, corrugò la fronte e rispose:
«Si chiama vita.»
E, per un ovvio fraintendimento,
Primil credette che l’uomo si riferisse soltanto alla foresta.
Così, ancora oggi, quella
foresta così anonima ha un nome ben preciso. Viene chiamata Karandar, che,
tradotto nella vostra lingua, ha più o meno questo senso: vita.
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