giovedì 29 ottobre 2015

Il pozzo e il manicomio


Ed ecco, un po' in anticipo, il mio racconto di Halloween. Non è uno dei miei migliori racconti horror, ma spero vi piacerà comunque. Il tema? La follia nascosta di chi, giudicando gli altri, crede di essere migliore... Se vi piace, non esitate a commentare ;-) 
Buon brivido a tutti :)





Il manicomio di San Vincenzo era un luogo triste e desolato, dove la gente strillava e veniva punita per questo. I muri erano bianchi per metà, è l’altra metà era di una deprimente tonalità verde marcio (molti pazienti, di fronte a quel verde, davano in escandescenze, mettendosi a gridare che quel colore era ciò che vedevano quando, al calar della notte, chiudevano gli occhi e scendevano in profondità in loro stessi); le scale che collegavano un piano all’altro erano nere, ossute; parevano lo scheletro di un serpente ficcato in verticale per tutta l’altezza dell’edificio e i gradini, quegli stretti e viscidi e rugginosi gradini, erano le vertebre di quel gigantesco e abominevole rettile. Lunghe corsie da ospedale si dipanavano, a mo’ di ali di corvo, dalla stanza centrale, una hall dove un grande bancone circolare fungeva da ufficio amministrativo e, dopo i pasti, da efficiente distributore di pastiglie. Doxepina, lorazepam, aloperidolo, il tutto seguito da un sorso di acqua tiepida al gusto di cloro: ecco il cocktail che i pazienti ingollavano da un piccolo bicchierino di plastica, prima di andarsene buoni buoni nel mondo dei sogni (almeno, questo era quello che si auguravano le infermiere e i guardiani). Sebbene da fuori, coi suoi giardini e le fontane e i viali alberati, sembrasse un luogo perfetto dove vivere, il San Vincenzo era tutt’altro: era un luogo di reclusione dove le buone famiglie scaricavano le pecore nere, gli svalvolati, gli schizoidi, quelli che avevano un tarlo nella testa e il cervello a buchi: c’era la vedova Pedrini, che era diventata vedova dopo aver spappolato la faccia del marito con un batticarne; c’era il ragionier Carli, che aveva scavato una conca nel cranio della moglie con un cucchiaio per dolci. Lei, sfortunatamente, era ancora un po’ troppo viva mentre subiva quell’amorevole trattamento; c’era il vecchio professor Aleneri, stimato medico di Torino, specializzatosi a Bonn in terapia comportamentale. Aveva esercitato fino a tre anni prima, ma poi si era scoperto che mangiava gli organi dei pazienti deceduti, dopo averne trafugato i corpi con il favore delle tenebre. Stupratori, assassini, maniaci, ossessi, pedofili… “Diamine – amava dire Sandra, infermiera al San Vincenzo da più di dieci anni – qui non ci facciamo mancare mai nulla”.
Se ora vi capitasse di passare vicino al San Vincenzo, nel pieno della campagna torinese, notereste che non è altro che una fatiscente struttura, coi muri crollati e il muschio che cresce indisturbato fra le crepe dei mattoni e fra gli interstizi delle tegole. Ma all’epoca della nostra storia il manicomio era un organismo davvero efficiente e lavorava al massimo della sua capienza. Non era, però, la sua epoca d’oro. No. Era, più che altro, il suo canto del cigno. Nel giro di pochi mesi, dopo la morte del nuovo direttore, la struttura sarebbe stata chiusa e allora, allora soltanto i corvi avrebbero camminato su e giù per le corsie deserte, come pensierosi e avidi dottorini in camice nero.

Fu in una giornata di ottobre, sotto una pioggia sferzante e acida, che il nuovo direttore bussò al portone del San Vincenzo. Era un giovanotto di buona famiglia (anche lui si era liberato di una sorella mentecatta, una decina di anni prima), alto e slanciato, con una barba dorata che gli cresceva ai lati del volto; lui credeva che gli conferisse un’aria da gran professore, ma in realtà sottolineava ancor più, e in modo comico, la sua giovane età. Al collo portava un cravattino rosso, e sul petto una spilla cruciforme, con un rubino sanguigno incastonato nel mezzo. Bussò imperiosamente e, una volta che il guardiano ebbe aperto la porta, entrò in modo altrettanto dispotico, mettendosi a squadrare la hall con aria disgustata, come se stesse osservando un letamaio popolato da orridi e unti ratti irsuti. Dopo aver fatto un giro di ispezione e aver visitato tutte le stanze (nel suo viaggio venne accompagnato da due ossequiosi medici che annuivano servilmente a ogni sua osservazione), l’uomo si rintanò nell’alloggio più lussuoso e vasto dell’ospedale: la stanza della torre principale, posta sotto l’orologio, dal cui balcone si vedeva tutta la campagna e i boschi e il fiume e i poveri mentecatti che si trascinavano per il giardino come scimmioni senza cervello.

Si capì subito di che pasta era fatto. Crudele e tirannico, Geremia Volsci si divertiva a presenziare alle lobotomie e alle sedute di elettroshock. Molti (soprattutto gli infermieri) si chiedevano fino a che punto fosse diverso dai maniaci in camicia di forza che bestemmiavano nelle loro gabbie, ma la sua candidatura era stata decisa dai piani alti, e così bisognava buttar giù il boccone amaro e non farsi tante domande. Era un ometto a modo, certamente, ma non si capiva fino a che punto fingesse di esserlo. C’era qualcosa che non andava in quei suoi occhi grigi, acquosi e stranamente profondi.
Una cosa era certa: sapeva fare il suo lavoro. Per due settimane, febbrilmente, analizzò i conti del manicomio, si occupò dei finanziamenti, architettò sistemi parzialmente legali per risparmiare il più possibile: fra questi, ridurre il cibo dei pazienti e lesinare sulla qualità delle verdure e della carne. Scelte vigliacche e discutibili, che vennero però accolte senza alcun lamento: di certo nessuno degli inservienti aveva tempo da perdere né il coraggio di difendere i diritti violati dei loro “ospiti”. La verità era una sola: tutti li odiavano, i pazzi. Odiavano pulire loro la bava, o soccorrerli quando si facevano venire le convulsioni o cambiar loro le mutande quando si pisciavano addosso. Presto anche il riscaldamento alle ale di detenzione dei pazienti fu interrotto e nelle prigioni scese un gelo che penetrava fino al cuore, costringendo gli infermieri ad andarsene in giro per la struttura con cappelli di lana e manicotti di coniglio.

Dopo due settimane, il direttore decise che era arrivato il momento di conoscere più approfonditamente i suoi pazienti. Si fece guidare nel suo tour dal dottor Burgo, uno dei veterani della struttura, vent’anni dedicati alle psicopatologie, cento lobotomie realizzate alla perfezione. I colleghi lo avevano battezzato, affettuosamente, “Dottor Scalpello”.
Burgo guidò il direttore per i reparti e gli fece visitare singolarmente le celle. I pazienti, ammaestrati come cani da appartamento, lo salutarono con gli occhi bassi e borbottando uno stirato e poco sentito “benvenuto, direttore”. Alcuni di loro indossavano i vestiti buoni con cui era arrivati lì e le donne erano state pettinate e i loro capelli lunghi riuniti in trecce ordinate che odoravano di erica e canfora. Quasi quasi sarebbero sembrate normali se non fosse stato per le loro bocche, costantemente aperte come quelle di stolidi pesci abissali.
Avevano quasi finito il loro giro quando si trovarono a passare davanti a una cella diversa da tutte le altre: immersa nell’oscurità, nell’angolo più remoto del più remoto corridoio, la sua porta era rinforzata con sbarre di ferro, e solo un oblò permetteva a chi era dentro di vedere fuori e viceversa; una sottile feritoia larga quanto il dito di un bambino.
«Chi è rinchiusa qui dentro?» chiese Volsci.
«Oh – ribatté cupo il dottor Burgo – qui sta la nostra paziente più pericolosa, la signorina… mi faccia ricordare il nome… Clara Serretti. Ma noi qui la chiamiamo… la Pallida
Il direttore contrasse la fronte.
«Che cosa ha fatto per meritarsi la cella di sicurezza?»
«Ha ucciso il padre e questo l’ha fatta impazzire. Completamente, intendo. Lo ha decapitato e ne ha gettato il corpo in un pozzo non molto distante da qui. A volte la sentiamo gridare che…» ma Burgo si fermò, come a temere di passare lui, per pazzo.
«Continui…» lo esortò il direttore, sistemandosi l’elegante completo color seppia e con esso la spilla d’argento a forma di croce.
«Beh ecco… la sentiamo gridare che lui è ancora vivo e che la aspetta lì sotto, nell’oscurità di quel pozzo. Non c’è alcuna speranza di guarigione per lei, ancora meno di quanto ci sia per gli altri. La teniamo chiusa qui perché non sarebbe mai in grado di andare d’accordo con gli altri pazienti. Una volta abbiamo provato a farla uscire, glielo assicuro, ma ha staccato a morsi un orecchio ad un infermiere e gli ha cavato un occhio con del fil di ferro. Da allora marcisce lì dentro. Le passiamo il cibo da quella feritoia e i bisogni li fa lì, in un tubo che sbuca dal pavimento. Sono quasi vent’anni anni che non esce e non vede il sole. È per questo che la chiamiamo la Pallida.»
«La voglio vedere, subito.» sibilò Volsci, con un sorrisetto malefico. Crogiolarsi nella sofferenza altrui gli dava un brivido di soddisfazione, lo faceva sentire potente e realizzato. Venire in quell’ospedale pieno di anime lacerate era sempre stato il suo sogno. La sua fame di sofferenza sarebbe stata saziata dalle grida dei malati e dall’odore rancido del disinfettante.
Burgo, vedendo che il direttore era serio e che non aveva intenzione di rimangiarsi l’ordine, si sfilò dalla tasca interna del panciotto una grossa chiave verde scuro, la infilò nella serratura e, con fatica (c’era molta ruggine e ragnatele secche formavano un tappo nella toppa), la girò. La porta si aprì e la luce del corridoio ne illuminò uno spicchio, come un taglio arancione nel buio soffocante del nulla.
«Mi raccomando, direttore. Le stia il più lontano possibile. Le teniamo incatenata al muro, ma deve comunque stare attento. Ah, un’altra cosa. Cerchi di non fissare troppo a lungo la sua bambola.»
«Bambola?»
«Sì. Ne è molto gelosa. Credo che sia un regalo di suo padre ed è l’unica cosa con cui lei parli. Beh, se si esclude il tubo che sbuca dal pavimento…»
«Curioso davvero…» bisbigliò il direttore, trattenendo a stento una risata gioiosa. Per lui, i pazzi, erano uno specchio, una lastra riflettente: se guardava nei loro occhi vedeva se stesso, il suo successo, il suo viso ben rasato e la croce d’argento appuntata al petto. Lui era tutto quello che loro non sarebbero mai potuti essere.
Seduta con la schiena contro il fondo della prigione, la Pallida rimaneva in silenzio, abbracciata alla sua bambola di stracci. La fredda luce delle lampade sospese sul corridoio le illuminava parzialmente il volto cadaverico, e le dita affusolate e lerce dei piedi. Eppure, nonostante quella sporcizia e il freddo che sibilava dal buco nel pavimento, la Pallida resisteva stoicamente, come una statua romana al centro di una piazza popolata di persone ostili e indifferenti. Volsci si era aspettato un relitto umano, una povera mentecatta coperta di croste di sporco, ma non era così. C’era autorità in quella piccola figura rinsecchita, c’era, in qualche modo, moralità. Il direttore ne fu contrariato, anzi: era furioso.
«Saluta il direttore…» mormorò il dottor Burgo, facendosi coraggio e usando un tono di voce il più dolce possibile. Il tutto, ovviamente, senza avvicinarsi di un passo alla figura emaciata che languiva nel fondo buio della cella.
La Pallida non diede segno di aver sentito ma si mise a canticchiare fra sé e sé. Tutto quello che diceva, Geremia Volsci se ne accorse con un lieve brivido lungo la spina dorsale, era in rima.
«Vieni giù bambina adorata/ la mamma è lontana nella neve gelata/ su vieni in giardino ti aspetto dai qua/ non avere paura da’ retta a papà. E la piccola Clara le scale scende/ e il padre fra le sue braccia forti la prende/ ma negli occhi di quell’uomo non c’è amore/ solo possesso, malvagità e dolore.»
«Saluta il direttore, ho detto.» ripeté Burgo, con un pizzico di autorità in più nella sua voce arrochita dal fumo della pipa. Ma Clara, sotto gli occhi furibondi del direttore, continuò imperterrita a canticchiare quella sua lugubre filastrocca:
«La bambina di anni ne ha solo nove/ ma far quello che dice suo padre non vuole/ nell’erba trova un rastrello e una lama da giardino/ uccide l’uomo e lo getta nel pozzo lì vicino
«Lasci fare a me!» sibilò il direttore, infastidito dal fatto che la pazza non gli rivolgesse alcuna attenzione. Lui, che era il più giovane e ambizioso direttore che il San Vincenzo avesse mai visto, ignorato come un infermiere qualsiasi! Incapace di trattenere la sua rabbia infantile, che nasceva dall’egoismo che gli scorreva nella vene, Geremia si avvicinò di un passo e diede un calcio alla bambola di stracci che finì, decapitata, contro il muro della cella. In quell’istante, con una rapidità impossibile per una donna rimasta chiusa in una stanza per vent’anni, Clara balzò in avanti. Le catene si allungarono, tintinnando inviperite, ma non riuscirono a trattenerla. E d’altronde il direttore era stato incauto e si era avvicinato troppo. Le dita ossute della donna si avvinghiarono al suo collo imberbe e lo trascinarono con sé sul pavimento. Burgo, scioccato dalla sorpresa, rimase completamente immobile e si appiattì, terrorizzato, contro la porta arrugginita della cella.
«Faccia qualcosa! La prego!» urlò disperato Geremia, scalciando invano nel tentativo di liberarsi da quella folle morsa. Ma la Pallida, che aveva nelle braccia la forza della follia, gli schiacciò il viso contro il tubo fognario che sbucava dal pavimento. Una zaffata di lerciume arrivò nel naso dell’uomo, facendogli lacrimare gli occhi e torcendogli lo stomaco in un conato dirompente. Con la coda dell’occhio vide il viso di Clara gravitare su di lui come una zucca infuocata di Halloween.
«Non lo senti anche tu – cantava e allo stesso tempo gridava la donna – la voce imperiosa che dal sottosuolo mi chiama? Non è morto quel mostro di mio padre e il male che ha fatto per sempre lo consumerà, nelle viscere della terra, a due passi dall’inferno. E adesso che sai il mio segreto, lo specchio si è rotto e tu sei a rovescio!»
«Presto! Presto!»
Burgo si era riavuto dalla sorpresa ed era riuscito a chiamare le guardie. Due omoni dall’aria feroce irruppero nella cella angusta, afferrarono la povera mentecatta per le braccia e la staccarono, urlante, dal corpo tremante del direttore. Il dottor Burgo aiutò l’uomo a risollevarsi e gli tamponò la fronte insanguinata e lorda di sporcizia con il fazzoletto di seta che portava nel taschino.
«Direttore, come si sente?»
Geremia, rialzatosi a fatica, lo fissò con gli occhi più stralunati che il “dottor Scalpello” avesse mai visto. Era completamente sotto shock.
«Mi dica che l’ha sentito anche lei!» farfugliava.
«Che cosa, direttore?»
«Quella voce… Oddio, no! Quella voce maschile che saliva dal tubo… che veniva… dalle viscere della terra!»
Burgo lo squadrò da capo a piedi, rendendosi conto gradualmente che quello era lo sguardo che riservava tutti i giorni ai suoi pazienti.
«Di che cosa sta parlando?»
«Oh, si levi di mezzo!»
Dopo aver spinto via il dottore con un ringhio di puro odio, Geremia fuggì lungo il corridoio, lasciando dietro di sé l’odore della paura e proiettando la sua ombra rachitica sui muri color verde marcio dell’ala di detenzione. Arrivato nella hall principale, indossò il cappotto, il borsalino e infilò la porta, nonostante fuori infuriasse un temporale.
Quella, fu l’ultima volta in cui lo staff dell’ospedale psichiatrico lo vide vivo.

Il due ottobre fu un giorno limpido e senza nebbia. L’infermiera Sandra sfilava lentamente per il viale alberato, seguita a vista da quattro custodi armati di manganello, che sbucavano dalle siepi come titani senza gambe partoriti dal caos primordiale. Sandra camminava lenta, che tanto nessuno le metteva fretta. La paziente che stava portando con sé camminava accanto a lei con la testa bassa, mentre un filo di bava luccicante le stillava dal labbro screpolato. Assomigliava, pensò l’infermiera con disgusto, ad una lumaca dalle fattezze umane, che si trascinava senza scopo su una foglia marcita di verza.
Avevano quasi raggiunto il portone austero del San Vincenzo quando, dall’alto, si udì un frastuono, come di vetri rotti, seguito da un orrendo scricchiolio, simile al rumore di un osso spezzato fra le fauci di un feroce mastino rabbioso.
Sandra guardò in su e si mise a gridare come una pazza: il corpo del direttore, appeso per il collo ad una vecchia corda, penzolava dalla lancetta delle ore dell’orologio della torre. Dondolava su e giù, seguendo il soffio del vento gelato, come una marionetta attaccata al muro per mezzo di un chiodo arrugginito. Tutti lo videro, pazzi compresi, e si accalcarono ai piedi della torre, sotto la finestra dove lui, un tempo, aveva sogghignato, ammirando il via vai dei mentecatti di cui era il diabolico dittatore. I matti iniziarono a ridere a urlare a saltare come pazzi (e lo erano). Qualcuno, indicando il corpo martoriato di Geremia Volsci si mise a gridare:
«È lui, è il nostro Re!»
Molti si unirono a quel coro, e presto il giardino, di solito mortalmente silenzioso, si riempì di grida di giubilo, di canti e di schiamazzi.
Nel frattempo, il corpo del direttore sfavillava sotto il sole invernale come fosse uno scintillante pezzo di specchio.

Mentre lo staff dell’ospedale cercava di entrare nella stanza chiusa del direttore, scoppiò una rivolta, che si concluse con due guardiani feriti e tre pazienti morti. Fu il caso di cronaca più discusso di quegli anni e il motivo principale per cui il San Vincenzo, in meno di due mesi, venne chiuso dalle autorità. Come sempre accade, c’erano voluti dei morti perché il mondo si rendesse conto delle condizioni terribili e del regime violento a cui i pazienti dovevano sottostare.
Quando il dottor Burgo riuscì a sfondare la porta, la guerriglia nel giardino aveva raggiunto il momento più tragico e le urla salivano fino alla finestra insieme al fumo acre di un piccolo incendio. Il cadavere di Volsci, ritto in mezzo a quel caos, sembrava la figura maestosa di un dittatore intento a galvanizzare le truppe prima di una spedizione senza senso nel gelo russo.
Mentre gli inservienti tiravano giù il corpo, Burgo si avvicinò alla scrivania, dove trovò un vecchio foglio ingiallito coperto di parole fitte fitte.
Le ultime righe del direttore, scritte con una stilografica dal pennino divelto, recavano testuali parole:
                                         

Clara non era pazza, oh no! Sono stato al pozzo, sì, sì… ho sentito il sibilo della voce di quel mostro. Il padre di Clara non è morto, no… Sussurra, sussurra costantemente la sua ira. Nelle profondità di quel tunnel attende la fine del mondo. Clara mi ha confidato il suo segreto e la sua maledizione, mi ha costretto ad aprire gli occhi e Lui ora sa… sa che conosco il suo segreto, sa che io so che è vivo, vivo in quel buco di perdizione. E mi chiama, mi chiama! Nella mia testa, lo sento… Non posso resistergli. Devo andare, devo raggiungerlo, devo scendere in quel lercio sfintere. Oh, e se sarò buono con lui, sì, se gli sarò fedele e non lo farò aspettare, allora mi dirà il segreto della sua immortalità. Dal momento in cui ho sentito chiamare il mio nome so bene quello che devo fare. A mezzogiorno, quando il sole splenderà sulla facciata principale del San Vincenzo, mi impiccherò alle lancette del Grande Orologio… Oh che gioia, oh che immenso terrore… dalla finestra della Torre… Lo Vedo! Vedo il pozzo, lo vedo distintamente e sarà l’ultima cosa che vedrò, prima che l’ultimo fiato mi venga strappato via da questa corda…

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