lunedì 7 settembre 2015

La bambola

Ecco a voi un racconto un po' particolare. Una specie di parodia-horror che si focalizza su una semplice riflessione. Chi sono i veri mostri? Vampiri, spettri, bambole assassine o chi ruba, chi mente, chi inganna, chi promette e poi non mantiene?
Spero vi piaccia e vi faccia sorridere :)





«Dov’è, dov’è che l’ho messa?»
Carlo si allungò verso il sedile del passeggero e rovistò con la mano destra ovunque, nel vano del cruscotto, fra i documenti a lato della portiera, sotto la leva del cambio; infilò le mani nella sporcizia dimenticata sotto i tappetini, dove incontrò solo rimasugli di tortillas di mais, un cetriolino sottaceto ammuffito e grumi di cereali caduti da una di quelle disgustose barrette ipocaloriche di Paola; verificò persino che sull’imbottitura del sedile non ci fosse uno squarcio in cui quella cosa si sarebbe potuta casualmente infilare.
«Niente – imprecò – è sparita.»
La sua auto, una vecchia Ford Pinto, sfrecciava nella notte romana con un sibilo sordo; le eleganti case di Via Nomentana si riflettevano sui finestrini opachi della vettura con un ritmo quasi ipnotico.
La faccia di Carlo era una maschera di terrore.
“Dov’è? Eppure ero certo di averla messa qui!” pensò, mentre un brivido freddo gli scivolava giù lungo la spina dorsale. Che Paola avesse ragione? Che fosse davvero posseduta, quella… bambola?
Era stato lui a regalargliela, per farle una sorpresa. Paola si era laureata da nemmeno otto mesi in storia dell’arte, ma il suo entusiasmo si era spento a una velocità sorprendente non appena si era accorta che trovare lavoro come professoressa, negli anni della crisi, era una vera impresa. In quei lunghi mesi le avevano proposto solamente un misero impiego come insegnante di sostegno a Bari, ma Paola non aveva alcuna intenzione di lasciare la città che tanto amava né tantomeno lui, Carlo Serretti. Non sarebbero mai resistiti, loro due, senza vedersi tutte le mattine, senza svegliarsi l’uno fra le braccia dell’altra, senza comunicarsi paure, sogni, intenzioni... Convivevano da due anni e, se le cose fossero proseguite così bene, si sarebbero presto sposati. Una cerimonia semplice, niente di sfarzoso: parenti selezionati, buffet a prezzo contenuto, crostata di frutta fresca al posto di quelle pretenziose torte alla crema condominiali…
Pertanto, se volevano coronare il loro sogno, baciarsi davanti all’altare e mettere su famiglia, qualcuno doveva sacrificarsi. Non era giusto, certo che no, ma era così che andava.
«La nostra storia è più importante di qualsiasi altra cosa.» aveva detto Paola, e così, seppur a malincuore, la donna aveva rifiutato l’impiego. E Carlo, per cercare di tirarla un po’ su, aveva pensato di comprarle qualcosa di particolare, qualcosa che avrebbe lasciato il segno, facendole dimenticare, anche se per poco, l’amarezza di vivere in un paese che non offriva prospettive.
Ma cosa regalarle? Carlo non ne aveva idea. Non era un asso nelle sorprese; in questo non si distingueva dall’85% della popolazione maschile. Ma voleva fare le cose in grande e stupirla, almeno per una volta. Paola se lo meritava.
Così si era preso un giorno libero in ufficio (lavorava come impiegato in una ditta di imballaggi) e, senza dire niente alla sua futura dolce metà, era uscito all’ora consueta (alle sette spaccate), fingendo che fosse un giorno come tutti gli altri. Aveva indossato la sua camicia migliore, aveva preso la sua ventiquattr’ore, aveva baciato Paola sulla fronte ed era uscito di casa.
Un gioco da ragazzi. La vera sfida, però, iniziava adesso. Cosa regalarle? Era una domanda che l’aveva perseguitato per settimane intere. Si era scervellato, ci aveva pensato, ma non aveva ottenuto una risposta. E così si era messo a vagare per la città, senza meta. Aveva visitato le più sfarzose gioiellerie, toccando con mano l’enorme divario fra idealizzazione e realtà. Comprarle un anello o un paio di orecchini era al di sopra delle sue possibilità, inutile girarci attorno. Cogitabondo, si era avvicinato allora alle vetrine della nota pasticceria Rossellini, una delle attività storiche e più apprezzate della città; file e file di paste alla crema lo guardavano blandamente da dietro un vetro incredibilmente luccicante, quasi diamantino. Un dolce era un classico, come i fiori, ma sarebbe durato lo spazio di un minuto, giusto il tempo di assaporarlo e deglutirlo. Carlo aveva scosso la testa, voltando le spalle alla pasticceria. Voleva qualcosa che restasse, qualcosa che Paola avrebbe potuto mostrare alle amiche con orgoglio.
Si era quasi arreso, dirigendosi sconsolato verso casa, quando aveva incontrato quel buffo mercatino itinerante: una specie di risciò traballante, stipato di oggetti inverosimili. Lo trainava un vecchio signore tutto curvo, coi capelli bianchi e un occhio di vetro. Faceva una certa impressione, ma Carlo non ci aveva fatto poi tanto caso: una morbosa curiosità aveva sostituito ogni altro suo istinto. Si era avvicinato, e il vecchio, con la parlantina sciolta tipica del venditore esperto, gli aveva mostrato la pittoresca sarabanda di oggetti che trasportava nel risciò: libri antichi con rilegatura bodoniana, servizi di porcellana sbeccati, croste di artisti anonimi che ritraevano spiagge oscure e desolate… Carlo faceva di sì con la testa, ma non ascoltava neppure, perché qualcosa aveva completamente catalizzato la sua attenzione: una bambola, una bambola di porcellana, seduta su quella pila di ciarpame come una regina. In qualche modo, Carlo aveva la sensazione di averla già vista. Ma dove?
«Mi scusi – aveva detto, interrompendo la logorrea del vecchio venditore – mi saprebbe dire di più su quella strana bambola?»
Il venditore aveva sobbalzato, mentre un sorriso liberatorio e un po’ sinistro si era fatto spazio sul suo viso incartapecorito e gialliccio.
«Quella bambola? Oh, che Dio sia lod… volevo dire: certo che le so dire di più! Non è molto che ce l’ho: me l’ha venduta un tizio qualche settimana fa. Mi creda, è con molta “ah-ehm” sofferenza che me ne libero. Vede i meravigliosi dettagli della porcellana? Gli incredibili vestiti realizzati a mano in organza e merletti? Oh, non è una bambola qualunque: è una creazione di Lorenzo Ghiriviani.»
Carlo batté le mani, galvanizzato. Non poteva credere alle sue orecchie!
«Ghiriviani, ha detto? Il grande pittore e scultore? La mia ragazza, Paola, mi ha fatto uno testa così a furia di parlarmene!»
Era vero: Paola, fra gli artisti minori che aveva avuto modo di studiare all’università, aveva eletto come suo beniamino proprio Ghiriviani. Era un artista napoletano, dei primi del ‘700, un tipo curioso, ammantato di mistero, la cui breve biografia si confondeva con le leggende e le superstizioni locali. Si diceva che fosse dedito alla magia nera e che ne avesse imparato i rudimenti durante un viaggio in Tessaglia. Morto in circostanze misteriose, era sparito con la stessa facilità con cui era comparso, lasciando la sua impronta unica sulla città di Napoli: quadri, bozzetti, sculture, giocattoli, tutte le sue creazioni avevano un che di sinistro, e quella vecchia bambola non faceva eccezione: il viso austero, lo sguardo enigmatico, il sorriso ambiguo. Paola ci sarebbe andata pazza!
Carlo non ci aveva pensato due volte:
«Quanto le devo?» aveva detto, mettendo mano al portafogli.
Il vecchietto, incredulo ed eccitato, gli aveva schiaffato la bambola in pieno viso gridando: “gliela regalo”. Dopodiché, in bilico sulle sue gambette scheletriche, era sparito in mezzo alla folla di Piazza Navona con il risciò e tutto il resto.
Nella sua Ford Pinto, mentre cercava disperatamente di trovare quella bambola, Carlo si maledisse per non essersi accorto del raggiro. Com’era potuto essere così cieco? Il venditore aveva voluto liberarsi di quella bambola per un motivo ben preciso: perché era una vera e propria iettatura.
Ma lui, in quel soleggiato giorno di marzo, questo non lo poteva ancora sapere. Felice per l’inatteso colpo di fortuna, l’aveva portata subito a Paola, e lei, com’era facile immaginare, era letteralmente esplosa dalla gioia.
«Tiamotiamotiamo!» aveva gridato, lanciandosi verso Carlo e abbracciandolo fino a mozzargli il respiro. Subito dopo, con un gridolino infantile, aveva afferrato la bambola, l’aveva baciata affettuosamente e l’aveva sistemata sulla mensola del camino, accanto all’urna d’acciaio satinato che conteneva i poveri resti di sua madre. Entusiasta di condividere quell’esperienza (non tutti potevano vantarsi di avere un capolavoro di Ghiriviani in casa) aveva invitato amici, parenti, colleghi disoccupati, e pubblicato tonnellate di selfie su Facebook. E fin qui tutto bene.
Ma ecco che erano iniziati i disastri: prima il crollo del soffitto in cucina, poi le ceneri di Rebecca, la madre di Paola, che erano andate a finire non si sa come nel serbatoio della scopa elettrica; infine la super-bolletta da parte dell’Enel che aveva distrutto le loro già fragili finanze, obbligando Carlo a tre ore in più di straordinari al giorno. Una climax inarrestabile di sciagure che non aveva alcuna intenzione di smettere. La coppia non ci aveva messo molto a farsi un’idea di chi fosse il responsabile di tutto ciò, per quanto strano potesse sembrare.
Una sera, dopo che la loro televisione era defunta con un crepitio azzurrino (la garanzia era scaduta nemmeno 11 ore prima), Carlo e Paola si erano guardati e poi, all’unisono, avevano girato la testa verso la bambola; Lady Lavanda, questo il nome ricamato sul vestitino lillà, li squadrava minacciosa da sopra il caminetto. Era solo la loro immaginazione, o era vero che il suo delicato sorriso era stato sostituito da una smorfia di puro odio?
In breve, Paola aveva iniziato a temere quella bambola. Se prima l’aveva amata con tutta se stessa, ora la detestava con la stessa intensità. Dal caminetto l’aveva spostata dietro al divano, da dietro al divano allo sgabuzzino, dallo sgabuzzino alla cantina. Ma non si sentiva affatto al sicuro, oh no. Era quasi certa di aver sentito, nel cuore della notte, il rumore di piccoli passi che venivano su dalla scala del seminterrato; passi che risuonavano secchi, come se chi si muoveva avesse i piedi di legno. O di porcellana.
«Tranquilla – le diceva Carlo, cercando di rincuorarla – è solo un momento giù. Di sfortune ne capitano in continuazione alle persone come noi. Non c’è nessun evento paranormale, fidati di me.»
Quando lo avevano chiamato al lavoro perché Paola era finita all’ospedale, Carlo si era reso conto che non poteva più negare l’evidenza: avrebbe dovuto liberarsi di Lady Lavanda. Una volta per sempre.
Paola era scivolata giù per la scala del seminterrato perché la bambola, così diceva lei, le aveva fatto lo sgambetto. Se l’era cavata con tutte e due le gambe rotte e con una commozione cerebrale. Un male cane, ma era stata fortunata, dicevano i medici: avrebbe potuto rompersi l’osso del collo o restare su una sedia a rotelle a vita.
«Si è mossa! Io l’ho vista – aveva piagnucolato Paola, quando Carlo si era presentato nella sua camera d’ospedale con un mazzo di tulipani defunti in mano – Quella bambola è viva! Liberati di lei, ti prego.»
Carlo, anche se incredulo, aveva promesso. E per lui ogni promessa era un debito.
Per quello era lì, a ravanare sotto i sedili, per cercare quella dannata…
Un guizzo bianco nello specchietto retrovisore lo fece voltare. Con un singulto di puro terrore, Carlo frenò di botto, rischiando di perdere il controllo della vettura e di schiantarsi contro un palazzo. Lady Lavanda era seduta dietro, sul sedile di mezzo, ben protetta dalla cintura di sicurezza. La smorfia sul suo viso era ancora più malvagia di quando l’aveva caricata in auto.
«Che mi venga…» borbottò Carlo. Non ce l’aveva messa lui, lì! Assolutamente no! O forse sì?
“Che stia impazzendo?” si chiese l’uomo, prendendosi a ceffoni per assicurarsi di non essere invischiato in uno di quegli incubi post-abbuffata. Macché. Era tutto reale, tutto dannatamente reale. Rivolgendo gli occhi al cielo in una preghiera silenziosa, Carlo riavviò il motore e ripartì nella notte.
Emise un sospiro liberatorio quando raggiunse la sua meta: il Tevere scorreva lento sotto ponte Milvio, nero come lava solidificata. Carlo, assicurandosi che nessuno potesse vederlo, uscì dall’auto, prese la bambola (con un certo disgusto) e strisciò fino al parapetto. Guardò un’ultima volta la faccia di porcellana di quel piccolo demonietto.
«Fanculo, Ghiriviani…» imprecò. E la lanciò nell’acqua sottostante. La bambola, con un suono liquido, sparì nella corrente. E Carlo, dopo essersi assicurato che non tornasse a galla, montò sulla sua preistorica Ford e se ne ritornò soddisfatto a casa.

L’appartamento era immerso nel silenzio più austero. Cercando di non pensare agli eventi di quell’infausto giorno, Carlo si tolse le scarpe ed entrò. Sarebbe stata dura passare la notte senza la sua Paola: i medici aveva considerato opportuno tenerla ancora in osservazione, visto le forti nausee che non accennavano a passare. Niente di preoccupante, avevano sentenziato: capitava non di rado dopo una commozione cerebrale.
Carlo appese il giubbino ad una gruccia e fece un salto in cucina; si aprì una lattina di birra, che trangugiò tutta d’un sorso. Fresca e corroborante. Ne aveva davvero bisogno. Poi tornò in salotto e si avvicinò alla televisione. Pescò il telecomando da dietro i cuscini del divano e pigiò il pulsante di accensione. Non accadde nulla.
“Non può essersi già rotta – considerò – l’abbiamo appena ricomprata!”
Si avvicinò allo schermo e vide che la spina non era attaccata alla presa della corrente, ma se ne stava lì, abbandonata sul pavimento come un lombrico rinsecchito.
«Davvero un bello scherzo, Paola. Proprio divertente» borbottò l’uomo. Si inginocchiò, afferrò la spina e la infilò dove doveva stare. Proprio in quell’attimo accadde l’imprevisto.
Un guizzo, un movimento rapidissimo dietro di lui. Carlo sentì un dolore lacerante alla gamba e crollò in avanti. Qualcuno lo aveva infilzato al polpaccio con un coltello. Anzi: non qualcuno. Qualcosa.
Lady Lavanda era in piedi, a pochi passi da lui; un grosso coltello da cucina nella mano sinistra e il solito sorriso sadico dipinto sul visino di porcellana. Carlo gridò come un pupo, lasciandosi scivolare sul pavimento; i suoi pantaloni erano zuppi di sangue e di urina. Si era pisciato addosso.
«Salve, Carlo.» lo schernì la bambola.
«Tu! Non p-puoi essere qui! – balbettò l’uomo – Io t-ti ho gettata via. Ti ho visto colare a p-picco come un sasso!»
Lei rise.
«Credevi di esserti liberato di me? Stupido! Nessuno può rompere la maledizione di Ghiriviani! E ora morirai per averci provato!»
La bambola si avvicinò, saltellando sulle sue gambette arcuate. Carlo scoppiò in lacrime, addossandosi al muro. Con quella gamba sanguinante non aveva vie di scampo. Era paralizzato, alla mercé di quel giocattolo animato dalla magia nera.
«Ti prego, risparmiami! – urlò, la voce scossa dai singhiozzi – Sono una brava persona. Non ho fatto altro che lavorare da quando ho diciassette anni! Pago le tasse, vado in Chiesa, non ho mai torto un capello a nessuno! Amo la mia ragazza, la voglio sposare, vogliamo fare bambini anche se non abbiamo un soldo in tasca. Cosa farà Paola senza di me? È disoccupata, non ha futuro! Non uccidermi, ti prego! Perché… perché a me??»
Lady Lavanda l’aveva raggiunto. Carlo chiuse gli occhi e si mise a recitare il Padre Nostro. La bambola si preparò a balzare, digrignò i denti, alzò il coltello…
…e lo lasciò cadere.
«No, non lo posso fare!» sbottò, con voce incredibilmente profonda.
Carlo riaprì gli occhi, intontito dalla paura.
«Cosa?»
La bambola, dopo aver calciato via il coltello contro il muro, si sedette a gambe incrociate e lo fissò con aria annoiata.
«Non lo posso fare, ho detto. Mi fai troppa pena.»
Carlo tossì, soffocato dal proprio muco.
«F-fai davvero? Non è uno s-scherzo?»
«Macché scherzo e scherzo. Dico sul serio. Che gusto c’è ad ammazzare una persona come te? Dio, mi si spezza il cuore. E io non ce l’ho un cuore, bello, pensa quanto mi fai pena. Se infierissi su di te non sarei malvagia. Sarei solamente una merda.»
Carlo si mise a sedere, incredulo.
«I-io t-ti ringrazio potentissima bambola…»
«Oh, ma fammi il piacere. Odio i lecchini! Vuoi farmi cambiare idea?»
«N-no ci m-mancherebbe.»
«Bravo. Ora levati di mezzo. Anzi, no. Adesso mi darai una mano, capito?»
«Oh, n-no. C-cosa devo fare?»
«Piantala di piagnucolare. Il fatto è che, con questa storia della crisi, uccidere non ha più gusto. Mi fate tutti tristezza…»
«E io c-che ci dovrei fare?» biascicò Carlo, torcendosi le mani. Lady Lavanda gli sventolò il coltello all’altezza delle palle.
«Fatti venire un’idea o avrai ben altro per cui piangere.»
E Carlo se la fece venire.

Salvo Dinari, ministro dell’economia, era stato indagato per concussione, abuso d’ufficio e corruzione. Benché colpevole non era mai stato condannato, complice un sistema giudiziario che faceva acqua da tutte le parti e un giro molto astuto di mazzette, fatte recapitare fra le mani di chi contava. All’apice del suo potere, Salvo Dinari non poteva essere più felice e potente di così.
Quella mattina uscì da palazzo Chigi con un sorriso sornione. Era riuscito, grazie ad un manipolo di fedeli al Parlamento, a far votare una legge ad personam, che gli avrebbe concesso di continuare a gestire alcuni suoi “affarucci”, mantenendo la sua fedina penale immacolata. Il tutto, ovviamente, con il sotterraneo scopo di racimolare una “discreta sommetta” nel conto segreto che aveva aperto in Svizzera.
Era una bella giornata di sole, una di quelle giornate da segnare sul calendario. Appena mise piede fuori dall’androne del palazzo, Salvo venne raggiunto da uno stuolo di paparazzi esagitati. Come di consueto iniziò a sorridere e a salutare con magnanimità, consapevole che la sua immagine, sparata nelle case di tutti gli italiani, avrebbe fatto evaporare qualsiasi dubbio sulla sua colpevolezza.
«Ministro Dinari, come commenta le ultime dichiarazioni…»
«Ministro, cosa ne pensa del comma 33?»
«Ministro, è convinto che un intervento in Libia sia auspicabile…»
«Ministro, compri questa bambola, è per una buona causa!»
Che cosa? Salvo si girò con sguardo interrogativo.
«Come dice, scusi?»
A parlare era stato un uomo, un gretto rappresentante della defunta classe media italiana. Camicia di seconda mano, pantaloni non più di moda da almeno tre anni, orologio made in china al polso. Salvo si sforzò di sorridere, anche se avrebbe voluto scappare a gambe levate. Che immagine miserevole!
«Una bambola, diceva?»
Mr. Miseria annuì, sventolandogli sotto il naso una pupattola decisamente kitsch, con un vestitino viola di organza e merletti. Sul suo visino era dipinto un sorriso enigmatico.
«Acquisti Lady Lavanda per una buona causa! – ripeté l’ometto – Aiuterà molte persone povere.»
I paparazzi continuavano a scattare foto. Questa sì che era una buona pubblicità, pensò Salvo: avrebbe di certo elevato la sua immagine alle stelle. Si frugò nei pantaloni D&G, armeggiò col portafogli Gucci e allungò a Mr. Miseria un verdone.
«Che Dio la benedica.» borbottò poco convinto l’uomo, schiaffandogli la bambola fra le braccia. In un attimo era sparito fra la folla. Salvo Dinari sorrise umilmente ai fotografi, alzando il suo caritatevole acquisto a mo’ di trofeo, dopodiché si allontanò dalla piazza e salì sull’auto blu.
«Dove la porto, ministro?» domandò ossequiosamente l’autista.
«Portami a Villa Fiumani – ordinò secco l’altro – C’è il pranzo per il compleanno di Sebastiano Breghioli Castoldi, il multimilionario. Ci sarà tutta la crème della società: politici, imprenditori, stilisti…»
Un movimento impercettibile catturò la sua attenzione e lo fece voltare verso la bambola, che aveva sistemato sul sedile di mezzo. Era la sua immaginazione o il sorriso di porcellana di Lady Lavanda si era fatto ancora più largo?

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