Ecco a voi un racconto un po' particolare. Una specie di parodia-horror che si focalizza su una semplice riflessione. Chi sono i veri mostri? Vampiri, spettri, bambole assassine o chi ruba, chi mente, chi inganna, chi promette e poi non mantiene?
Spero vi piaccia e vi faccia sorridere :)
«Dov’è, dov’è che
l’ho messa?»
Carlo si allungò
verso il sedile del passeggero e rovistò con la mano destra ovunque, nel vano
del cruscotto, fra i documenti a lato della portiera, sotto la leva del cambio;
infilò le mani nella sporcizia dimenticata sotto i tappetini, dove incontrò
solo rimasugli di tortillas di mais, un cetriolino sottaceto ammuffito e grumi
di cereali caduti da una di quelle disgustose barrette ipocaloriche di Paola;
verificò persino che sull’imbottitura del sedile non ci fosse uno squarcio in
cui quella cosa si sarebbe potuta casualmente infilare.
«Niente – imprecò –
è sparita.»
La sua auto, una
vecchia Ford Pinto, sfrecciava nella notte romana con un sibilo sordo; le
eleganti case di Via Nomentana si riflettevano sui finestrini opachi della
vettura con un ritmo quasi ipnotico.
La faccia di Carlo
era una maschera di terrore.
“Dov’è? Eppure ero
certo di averla messa qui!” pensò, mentre un brivido freddo gli scivolava giù
lungo la spina dorsale. Che Paola avesse ragione? Che fosse davvero posseduta,
quella… bambola?
Era stato lui a
regalargliela, per farle una sorpresa. Paola si era laureata da nemmeno otto
mesi in storia dell’arte, ma il suo entusiasmo si era spento a una velocità
sorprendente non appena si era accorta che trovare lavoro come professoressa,
negli anni della crisi, era una vera impresa. In quei lunghi mesi le avevano
proposto solamente un misero impiego come insegnante di sostegno a Bari, ma
Paola non aveva alcuna intenzione di lasciare la città che tanto amava né
tantomeno lui, Carlo Serretti. Non sarebbero mai resistiti, loro due, senza
vedersi tutte le mattine, senza svegliarsi l’uno fra le braccia dell’altra,
senza comunicarsi paure, sogni, intenzioni... Convivevano da due anni e, se le
cose fossero proseguite così bene, si sarebbero presto sposati. Una cerimonia
semplice, niente di sfarzoso: parenti selezionati, buffet a prezzo contenuto,
crostata di frutta fresca al posto di quelle pretenziose torte alla crema
condominiali…
Pertanto, se
volevano coronare il loro sogno, baciarsi davanti all’altare e mettere su
famiglia, qualcuno doveva sacrificarsi. Non era giusto, certo che no, ma era
così che andava.
«La nostra storia è
più importante di qualsiasi altra cosa.» aveva detto Paola, e così, seppur a
malincuore, la donna aveva rifiutato l’impiego. E Carlo, per cercare di tirarla
un po’ su, aveva pensato di comprarle qualcosa di particolare, qualcosa che
avrebbe lasciato il segno, facendole dimenticare, anche se per poco, l’amarezza
di vivere in un paese che non offriva prospettive.
Ma cosa regalarle?
Carlo non ne aveva idea. Non era un asso nelle sorprese; in questo non si
distingueva dall’85% della popolazione maschile. Ma voleva fare le cose in
grande e stupirla, almeno per una volta. Paola se lo meritava.
Così si era preso
un giorno libero in ufficio (lavorava come impiegato in una ditta di
imballaggi) e, senza dire niente alla sua futura dolce metà, era uscito all’ora
consueta (alle sette spaccate), fingendo che fosse un giorno come tutti gli
altri. Aveva indossato la sua camicia migliore, aveva preso la sua
ventiquattr’ore, aveva baciato Paola sulla fronte ed era uscito di casa.
Un gioco da
ragazzi. La vera sfida, però, iniziava adesso. Cosa regalarle? Era una domanda
che l’aveva perseguitato per settimane intere. Si era scervellato, ci aveva
pensato, ma non aveva ottenuto una risposta. E così si era messo a vagare per
la città, senza meta. Aveva visitato le più sfarzose gioiellerie, toccando con
mano l’enorme divario fra idealizzazione e realtà. Comprarle un anello o un
paio di orecchini era al di sopra delle sue possibilità, inutile girarci
attorno. Cogitabondo, si era avvicinato allora alle vetrine della nota
pasticceria Rossellini, una delle attività storiche e più apprezzate della
città; file e file di paste alla crema lo guardavano blandamente da dietro un
vetro incredibilmente luccicante, quasi diamantino. Un dolce era un classico,
come i fiori, ma sarebbe durato lo spazio di un minuto, giusto il tempo di
assaporarlo e deglutirlo. Carlo aveva scosso la testa, voltando le spalle alla
pasticceria. Voleva qualcosa che restasse, qualcosa che Paola avrebbe potuto
mostrare alle amiche con orgoglio.
Si era quasi
arreso, dirigendosi sconsolato verso casa, quando aveva incontrato quel buffo
mercatino itinerante: una specie di risciò traballante, stipato di oggetti
inverosimili. Lo trainava un vecchio signore tutto curvo, coi capelli bianchi e
un occhio di vetro. Faceva una certa impressione, ma Carlo non ci aveva fatto
poi tanto caso: una morbosa curiosità aveva sostituito ogni altro suo istinto.
Si era avvicinato, e il vecchio, con la parlantina sciolta tipica del venditore
esperto, gli aveva mostrato la pittoresca sarabanda di oggetti che trasportava
nel risciò: libri antichi con rilegatura bodoniana, servizi di porcellana
sbeccati, croste di artisti anonimi che ritraevano spiagge oscure e desolate…
Carlo faceva di sì con la testa, ma non ascoltava neppure, perché qualcosa
aveva completamente catalizzato la sua attenzione: una bambola, una bambola di
porcellana, seduta su quella pila di ciarpame come una regina. In qualche modo,
Carlo aveva la sensazione di averla già vista. Ma dove?
«Mi scusi – aveva
detto, interrompendo la logorrea del vecchio venditore – mi saprebbe dire di
più su quella strana bambola?»
Il venditore aveva
sobbalzato, mentre un sorriso liberatorio e un po’ sinistro si era fatto spazio
sul suo viso incartapecorito e gialliccio.
«Quella bambola?
Oh, che Dio sia lod… volevo dire: certo che le so dire di più! Non è molto che
ce l’ho: me l’ha venduta un tizio qualche settimana fa. Mi creda, è con molta
“ah-ehm” sofferenza che me ne libero. Vede i meravigliosi dettagli della
porcellana? Gli incredibili vestiti realizzati a mano in organza e merletti?
Oh, non è una bambola qualunque: è una creazione di Lorenzo Ghiriviani.»
Carlo batté le
mani, galvanizzato. Non poteva credere alle sue orecchie!
«Ghiriviani, ha
detto? Il grande pittore e scultore? La mia ragazza, Paola, mi ha fatto uno
testa così a furia di parlarmene!»
Era vero: Paola,
fra gli artisti minori che aveva avuto modo di studiare all’università, aveva
eletto come suo beniamino proprio Ghiriviani. Era un artista napoletano, dei
primi del ‘700, un tipo curioso, ammantato di mistero, la cui breve biografia
si confondeva con le leggende e le superstizioni locali. Si diceva che fosse
dedito alla magia nera e che ne avesse imparato i rudimenti durante un viaggio
in Tessaglia. Morto in circostanze misteriose, era sparito con la stessa
facilità con cui era comparso, lasciando la sua impronta unica sulla città di
Napoli: quadri, bozzetti, sculture, giocattoli, tutte le sue creazioni avevano
un che di sinistro, e quella vecchia bambola non faceva eccezione: il viso
austero, lo sguardo enigmatico, il sorriso ambiguo. Paola ci sarebbe andata
pazza!
Carlo non ci aveva
pensato due volte:
«Quanto le devo?»
aveva detto, mettendo mano al portafogli.
Il vecchietto,
incredulo ed eccitato, gli aveva schiaffato la bambola in pieno viso gridando:
“gliela regalo”. Dopodiché, in bilico sulle sue gambette scheletriche, era
sparito in mezzo alla folla di Piazza Navona con il risciò e tutto il resto.
Nella sua Ford
Pinto, mentre cercava disperatamente di trovare quella bambola, Carlo si
maledisse per non essersi accorto del raggiro. Com’era potuto essere così
cieco? Il venditore aveva voluto liberarsi di quella bambola per un motivo ben
preciso: perché era una vera e propria iettatura.
Ma lui, in quel
soleggiato giorno di marzo, questo non lo poteva ancora sapere. Felice per
l’inatteso colpo di fortuna, l’aveva portata subito a Paola, e lei, com’era
facile immaginare, era letteralmente esplosa dalla gioia.
«Tiamotiamotiamo!»
aveva gridato, lanciandosi verso Carlo e abbracciandolo fino a mozzargli il
respiro. Subito dopo, con un gridolino infantile, aveva afferrato la bambola,
l’aveva baciata affettuosamente e l’aveva sistemata sulla mensola del camino,
accanto all’urna d’acciaio satinato che conteneva i poveri resti di sua madre.
Entusiasta di condividere quell’esperienza (non tutti potevano vantarsi di
avere un capolavoro di Ghiriviani in casa) aveva invitato amici, parenti,
colleghi disoccupati, e pubblicato tonnellate di selfie su Facebook. E fin qui
tutto bene.
Ma ecco che erano
iniziati i disastri: prima il crollo del soffitto in cucina, poi le ceneri di
Rebecca, la madre di Paola, che erano andate a finire non si sa come nel
serbatoio della scopa elettrica; infine la super-bolletta da parte dell’Enel
che aveva distrutto le loro già fragili finanze, obbligando Carlo a tre ore in
più di straordinari al giorno. Una climax inarrestabile di sciagure che non
aveva alcuna intenzione di smettere. La coppia non ci aveva messo molto a farsi
un’idea di chi fosse il responsabile di tutto ciò, per quanto strano potesse
sembrare.
Una sera, dopo che
la loro televisione era defunta con un crepitio azzurrino (la garanzia era
scaduta nemmeno 11 ore prima), Carlo e Paola si erano guardati e poi,
all’unisono, avevano girato la testa verso la bambola; Lady Lavanda, questo il
nome ricamato sul vestitino lillà, li squadrava minacciosa da sopra il
caminetto. Era solo la loro immaginazione, o era vero che il suo delicato
sorriso era stato sostituito da una smorfia di puro odio?
In breve, Paola
aveva iniziato a temere quella bambola. Se prima l’aveva amata con tutta se
stessa, ora la detestava con la stessa intensità. Dal caminetto l’aveva
spostata dietro al divano, da dietro al divano allo sgabuzzino, dallo
sgabuzzino alla cantina. Ma non si sentiva affatto al sicuro, oh no. Era quasi
certa di aver sentito, nel cuore della notte, il rumore di piccoli passi che
venivano su dalla scala del seminterrato; passi che risuonavano secchi, come se
chi si muoveva avesse i piedi di legno. O di porcellana.
«Tranquilla – le
diceva Carlo, cercando di rincuorarla – è solo un momento giù. Di sfortune ne
capitano in continuazione alle persone come noi. Non c’è nessun evento
paranormale, fidati di me.»
Quando lo avevano
chiamato al lavoro perché Paola era finita all’ospedale, Carlo si era reso
conto che non poteva più negare l’evidenza: avrebbe dovuto liberarsi di Lady
Lavanda. Una volta per sempre.
Paola era scivolata
giù per la scala del seminterrato perché la bambola, così diceva lei, le aveva
fatto lo sgambetto. Se l’era cavata con tutte e due le gambe rotte e con una
commozione cerebrale. Un male cane, ma era stata fortunata, dicevano i medici:
avrebbe potuto rompersi l’osso del collo o restare su una sedia a rotelle a
vita.
«Si è mossa! Io
l’ho vista – aveva piagnucolato Paola, quando Carlo si era presentato nella sua
camera d’ospedale con un mazzo di tulipani defunti in mano – Quella bambola è
viva! Liberati di lei, ti prego.»
Carlo, anche se
incredulo, aveva promesso. E per lui ogni promessa era un debito.
Per quello era lì,
a ravanare sotto i sedili, per cercare quella dannata…
Un guizzo bianco
nello specchietto retrovisore lo fece voltare. Con un singulto di puro terrore,
Carlo frenò di botto, rischiando di perdere il controllo della vettura e di
schiantarsi contro un palazzo. Lady Lavanda era seduta dietro, sul sedile di
mezzo, ben protetta dalla cintura di sicurezza. La smorfia sul suo viso era
ancora più malvagia di quando l’aveva caricata in auto.
«Che mi venga…»
borbottò Carlo. Non ce l’aveva messa lui, lì! Assolutamente no! O forse sì?
“Che stia
impazzendo?” si chiese l’uomo, prendendosi a ceffoni per assicurarsi di non
essere invischiato in uno di quegli incubi post-abbuffata. Macché. Era tutto
reale, tutto dannatamente reale. Rivolgendo gli occhi al cielo in una preghiera
silenziosa, Carlo riavviò il motore e ripartì nella notte.
Emise un sospiro
liberatorio quando raggiunse la sua meta: il Tevere scorreva lento sotto ponte
Milvio, nero come lava solidificata. Carlo, assicurandosi che nessuno potesse
vederlo, uscì dall’auto, prese la bambola (con un certo disgusto) e strisciò
fino al parapetto. Guardò un’ultima volta la faccia di porcellana di quel
piccolo demonietto.
«Fanculo,
Ghiriviani…» imprecò. E la lanciò nell’acqua sottostante. La bambola, con un
suono liquido, sparì nella corrente. E Carlo, dopo essersi assicurato che non
tornasse a galla, montò sulla sua preistorica Ford e se ne ritornò soddisfatto
a casa.
L’appartamento era
immerso nel silenzio più austero. Cercando di non pensare agli eventi di
quell’infausto giorno, Carlo si tolse le scarpe ed entrò. Sarebbe stata dura
passare la notte senza la sua Paola: i medici aveva considerato opportuno
tenerla ancora in osservazione, visto le forti nausee che non accennavano a
passare. Niente di preoccupante, avevano sentenziato: capitava non di rado dopo
una commozione cerebrale.
Carlo appese il
giubbino ad una gruccia e fece un salto in cucina; si aprì una lattina di
birra, che trangugiò tutta d’un sorso. Fresca e corroborante. Ne aveva davvero
bisogno. Poi tornò in salotto e si avvicinò alla televisione. Pescò il
telecomando da dietro i cuscini del divano e pigiò il pulsante di accensione.
Non accadde nulla.
“Non può essersi
già rotta – considerò – l’abbiamo appena ricomprata!”
Si avvicinò allo
schermo e vide che la spina non era attaccata alla presa della corrente, ma se
ne stava lì, abbandonata sul pavimento come un lombrico rinsecchito.
«Davvero un bello
scherzo, Paola. Proprio divertente» borbottò l’uomo. Si inginocchiò, afferrò la
spina e la infilò dove doveva stare. Proprio in quell’attimo accadde
l’imprevisto.
Un guizzo, un
movimento rapidissimo dietro di lui. Carlo sentì un dolore lacerante alla gamba
e crollò in avanti. Qualcuno lo aveva infilzato al polpaccio con un coltello.
Anzi: non qualcuno. Qualcosa.
Lady Lavanda era in
piedi, a pochi passi da lui; un grosso coltello da cucina nella mano sinistra e
il solito sorriso sadico dipinto sul visino di porcellana. Carlo gridò come un
pupo, lasciandosi scivolare sul pavimento; i suoi pantaloni erano zuppi di
sangue e di urina. Si era pisciato addosso.
«Salve, Carlo.» lo
schernì la bambola.
«Tu! Non p-puoi
essere qui! – balbettò l’uomo – Io t-ti ho gettata via. Ti ho visto colare a
p-picco come un sasso!»
Lei rise.
«Credevi di esserti
liberato di me? Stupido! Nessuno può rompere la maledizione di Ghiriviani! E
ora morirai per averci provato!»
La bambola si
avvicinò, saltellando sulle sue gambette arcuate. Carlo scoppiò in lacrime,
addossandosi al muro. Con quella gamba sanguinante non aveva vie di scampo. Era
paralizzato, alla mercé di quel giocattolo animato dalla magia nera.
«Ti prego, risparmiami!
– urlò, la voce scossa dai singhiozzi – Sono una brava persona. Non ho fatto
altro che lavorare da quando ho diciassette anni! Pago le tasse, vado in
Chiesa, non ho mai torto un capello a nessuno! Amo la mia ragazza, la voglio
sposare, vogliamo fare bambini anche se non abbiamo un soldo in tasca. Cosa
farà Paola senza di me? È disoccupata, non ha futuro! Non uccidermi, ti prego!
Perché… perché a me??»
Lady Lavanda
l’aveva raggiunto. Carlo chiuse gli occhi e si mise a recitare il Padre Nostro.
La bambola si preparò a balzare, digrignò i denti, alzò il coltello…
…e lo lasciò
cadere.
«No, non lo posso
fare!» sbottò, con voce incredibilmente profonda.
Carlo riaprì gli
occhi, intontito dalla paura.
«Cosa?»
La bambola, dopo
aver calciato via il coltello contro il muro, si sedette a gambe incrociate e
lo fissò con aria annoiata.
«Non lo posso fare,
ho detto. Mi fai troppa pena.»
Carlo tossì,
soffocato dal proprio muco.
«F-fai davvero? Non
è uno s-scherzo?»
«Macché scherzo e
scherzo. Dico sul serio. Che gusto c’è ad ammazzare una persona come te? Dio,
mi si spezza il cuore. E io non ce l’ho un cuore, bello, pensa quanto mi fai
pena. Se infierissi su di te non sarei malvagia. Sarei solamente una merda.»
Carlo si mise a
sedere, incredulo.
«I-io t-ti
ringrazio potentissima bambola…»
«Oh, ma fammi il
piacere. Odio i lecchini! Vuoi farmi cambiare idea?»
«N-no ci
m-mancherebbe.»
«Bravo. Ora levati
di mezzo. Anzi, no. Adesso mi darai una mano, capito?»
«Oh, n-no. C-cosa
devo fare?»
«Piantala di
piagnucolare. Il fatto è che, con questa storia della crisi, uccidere non ha
più gusto. Mi fate tutti tristezza…»
«E io c-che ci
dovrei fare?» biascicò Carlo, torcendosi le mani. Lady Lavanda gli sventolò il
coltello all’altezza delle palle.
«Fatti venire
un’idea o avrai ben altro per cui piangere.»
E Carlo se la fece
venire.
Salvo Dinari,
ministro dell’economia, era stato indagato per concussione, abuso d’ufficio e
corruzione. Benché colpevole non era mai stato condannato, complice un sistema
giudiziario che faceva acqua da tutte le parti e un giro molto astuto di
mazzette, fatte recapitare fra le mani di chi contava. All’apice del suo
potere, Salvo Dinari non poteva essere più felice e potente di così.
Quella mattina uscì
da palazzo Chigi con un sorriso sornione. Era riuscito, grazie ad un manipolo
di fedeli al Parlamento, a far votare una legge ad personam, che gli avrebbe
concesso di continuare a gestire alcuni suoi “affarucci”, mantenendo la sua
fedina penale immacolata. Il tutto, ovviamente, con il sotterraneo scopo di racimolare
una “discreta sommetta” nel conto segreto che aveva aperto in Svizzera.
Era una bella
giornata di sole, una di quelle giornate da segnare sul calendario. Appena mise
piede fuori dall’androne del palazzo, Salvo venne raggiunto da uno stuolo di
paparazzi esagitati. Come di consueto iniziò a sorridere e a salutare con
magnanimità, consapevole che la sua immagine, sparata nelle case di tutti gli
italiani, avrebbe fatto evaporare qualsiasi dubbio sulla sua colpevolezza.
«Ministro Dinari,
come commenta le ultime dichiarazioni…»
«Ministro, cosa ne
pensa del comma 33?»
«Ministro, è
convinto che un intervento in Libia sia auspicabile…»
«Ministro, compri
questa bambola, è per una buona causa!»
Che cosa? Salvo si
girò con sguardo interrogativo.
«Come dice, scusi?»
A parlare era stato
un uomo, un gretto rappresentante della defunta classe media italiana. Camicia
di seconda mano, pantaloni non più di moda da almeno tre anni, orologio made in
china al polso. Salvo si sforzò di sorridere, anche se avrebbe voluto scappare
a gambe levate. Che immagine miserevole!
«Una bambola,
diceva?»
Mr. Miseria annuì,
sventolandogli sotto il naso una pupattola decisamente kitsch, con un vestitino
viola di organza e merletti. Sul suo visino era dipinto un sorriso enigmatico.
«Acquisti Lady
Lavanda per una buona causa! – ripeté l’ometto – Aiuterà molte persone povere.»
I paparazzi
continuavano a scattare foto. Questa sì che era una buona pubblicità, pensò
Salvo: avrebbe di certo elevato la sua immagine alle stelle. Si frugò nei
pantaloni D&G, armeggiò col portafogli Gucci e allungò a Mr. Miseria un
verdone.
«Che Dio la
benedica.» borbottò poco convinto l’uomo, schiaffandogli la bambola fra le
braccia. In un attimo era sparito fra la folla. Salvo Dinari sorrise umilmente
ai fotografi, alzando il suo caritatevole acquisto a mo’ di trofeo, dopodiché
si allontanò dalla piazza e salì sull’auto blu.
«Dove la porto,
ministro?» domandò ossequiosamente l’autista.
«Portami a Villa
Fiumani – ordinò secco l’altro – C’è il pranzo per il compleanno di Sebastiano
Breghioli Castoldi, il multimilionario. Ci sarà tutta la crème della società:
politici, imprenditori, stilisti…»
Un movimento
impercettibile catturò la sua attenzione e lo fece voltare verso la bambola,
che aveva sistemato sul sedile di mezzo. Era la sua immaginazione o il sorriso
di porcellana di Lady Lavanda si era fatto ancora più largo?
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